Essere fuori campo, dover rinunciare a Internet, non essere connessi è tra le maggiori paure dei nostri giorni. Il free wi-fi è diventato il passepartout per una giornata felice. Ma forse il vero lusso non è più navigare ovunque, ma disconnettersi, abbandonare la Rete. È questa la tesi con cui Evgeny Morozov, politologo e giornalista bielorusso che da anni scrive di new media.

Morozov vive negli Stati Uniti, con un dottorato ad Harvard, ma la "favola della Silicon Valley", come la chiama lui, non lo convince. Eppure i suoi occhialetti alla Steve Jobs potrebbero trarre in inganno. Non è l'unico a sferrare qualche colpo all'ottimismo dominante.

La mia analisi parte da lontano, dagli anni Novanta, e cerca di capire cosa è cambiato da allora ad oggi. Guardiamo ai fatti. Oggi le uniche persone che possono concedersi il lusso di fare a meno di Internet sono i ricchi, i soli che possono contare su smartphone che ne tutelino la privacy o su qualcuno che faccia le ricerche per loro o twitti al loro posto. È questo il nuovo gap digitale tra ricchi e poveri.

È una questione di tempo libero?
"Non solo di tempo. L'iperconnettività crea dipendenza, addiction. È fatta per questo. Le nuove piattaforme, come Google e Facebook, sono studiate per attrarre. Assomigliano alle slot machine di Las Vegas, piene di lucine colorate e disegnate con un fantastico design. Il loro scopo è farci scommettere soldi, ma lo mascherano bene ".

Internet però è gratis e sta rivoluzionando il modo di accedere alla conoscenza.
"E qui veniamo al punto, al nodo della questione. In realtà, mentre ci assicurano un accesso free, Google e Facebook s'impossessano dei nostri dati, registrando i nostri gusti attraverso le nostre abitudini in Rete, attraverso i siti che visitiamo e i nostri like. Questi dati interessano i pubblicitari, sono loro a pagare per noi, mentre noi diventiamo cavie nelle loro mani, "targettizzati", ridotti ad algoritmi ".

Quali saranno le conseguenze?
"Danni collettivi e costi per la società. Le prime conseguenze sono già visibili. In America e in Corea del Sud esistono già centri di riabilitazione in cui i giovani che abusano di Facebook possono andare a disintossicarsi, a curare i disordini psichiatrici dovuti all'iperconnettività ".

C'è una ricaduta sociale?
"Economica sicuramente. Non dimentichiamo che con i nostri click alimentiamo il business di un gruppo di grandi imprese private, quotate in borsa miliardi. Imprese che hanno visto crescere le loro quotazioni proprio durante la crisi economica ".

Dunque la cultura underground che ha alimentato le utopie della Silicon Valley californiana non la convince?
"Credo che sia una nuova forma di noblesse oblige che pensa di avere una missione, di risolvere la povertà nel mondo, portare la cultura ovunque ma non è così. O meglio, non è solo questo il punto".

Ammetterà però che oggi una persona svantaggiata, che non ha i mezzi per viaggiare o studiare è molto facilitata. Può accedere a un patrimonio di conoscenze in altri tempi inaccessibile.
"Tutto ciò è positivo. Non vorrei essere frainteso. Non sono affatto contro la tecnologia. La utilizzo, vado sui social. Ma dobbiamo sapere che stanno servendosi dei nostri dati per vendere i loro prodotti. Bisognerebbe creare un sistema legale per mettere a disposizione dei cittadini questi dati. Visto che esistono, almeno appartengano alla società e non solo a piattaforme private che alimentano un enorme giro di affari e speculano".