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    Banda Müntzer-Epifanio
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    Predefinito Intervista. Khaled Mesh'al traccia la nuova direzione politica di Hamas

    Da Memo (Middle East Monitor).
    Quella che segue è l’intervista più recente a Khaled Mesh'al, che dal 1996 è il capo dell’Ufficio politico del movimento di resistenza islamica (Hamas). Dopo l’assassinio del leader di Hamas, Abd al-‘Aziz Rantisi, nel 2004, Mesh'al è diventato il leader internazionale del movimento.
    In questa intervista rilasciata al quotidiano giordano Al-Sabeel, a luglio del 2010, Mesh'al traccia la direzione politica di Hamas su diversi temi critici: per esempio, negoziati con Israele, relazioni internazionali, ebrei, cristiani, donne. L’intervista – durata diverse ore – è stata recepita come importante nel mondo arabo ed è considerata come una chiara indicazione delle posizioni che Hamas intende perseguire, specialmente con riguardo ai futuri atteggiamenti verso Israele.
    L’Afro-Middle East Centre (AMEC) ha tradotto l’intervista in inglese per permetterne la lettura a un vasto pubblico, per una più ampia comprensione – in particolar modo ai lettori anglofoni – delle prospettive politiche di un movimento che è diventato uno dei più importanti attori nel Medio Oriente di oggi.
    Sui negoziati
    A livello di principio, lei rifiuta i negoziati con il nemico? Se i negoziati non possono essere condotti con il nemico, è possibile farli con un amico? Hamas rifiuta il principio dei negoziati diretti, oppure rifiutate la loro forma, condotta e risultati?

    Questa è sicuramente una questione spinosa e delicata, su cui molte persone preferiscono evitare qualsiasi discussione, e tendono a non prendere una posizione chiara per timore di reazioni negative o malintesi. La natura sensibile e critica di questo tema è aggravata dalle ombre scure gettate a seguito delle amare esperienze dei negoziati palestinesi-israeliani e arabi-israeliani.
    Le persone sono influenzate da queste esperienze, e sono estremamente sensibili verso l'idea di "trattative", in particolare per quanto riguarda la consapevolezza collettiva e l'umore della nazione. C'è ora, in molti luoghi, disgusto e avversione per il concetto di negoziati. Questo è abbastanza comprensibile e naturale, ma ciò non preclude che la questione venga affrontata a fondo e organizzata attentamente in modo da fissare ogni dettaglio nel giusto contesto, a Dio piacendo.
    Non è disputabile che i negoziati con il nemico non vengano bocciati, sia giuridicamente sia razionalmente, anzi, ci sono alcune fasi, nel corso di un conflitto tra i nemici, in cui i negoziati sono richiesti e si rendono necessari. Dal punto di vista razionale e della logica giuridica, è vero che i negoziati come mezzo e strumento possono essere accettabili e legittimati in certi momenti, e respinti e vietati in altri: vale a dire che essi non sono respinti in linea di principio e sempre.
    Nella storia islamica, nell'era del Profeta (la pace sia su di lui) e nelle epoche successive, al tempo di Salahuddin [ Saladino ] per esempio, la negoziazione con il nemico è stata condotta - ma all'interno di uno schema chiaro e di una precisa filosofia -, in un contesto, in una visione, e con norme e regolamenti che la disciplinavano. Ciò è in netto contrasto con l'approccio sciagurato adottato da quei negoziatori di professione che considerano le trattative come uno stile di vita e la sola opzione strategica al servizio delle quali sono regolate tutte le altre.
    Se la resistenza stessa, onorata e stimata com'è, è un mezzo e non un fine, ha senso fare dei negoziati un fine, l'unica opzione e un approccio costante, piuttosto che un mezzo e una tattica cui ripiegare se necessario e quando il contesto lo richiede?
    Il concetto nel Corano è chiaro, quando Dio Onnipotente dice: "E se inclinano alla pace, inclina (inclina anche tu alla pace ), e confida in Dio".
    Ciò significa che il negoziato è accettabile, ragionevole e logico per noi difensori di una giusta causa quando il nemico è costretto a ricorrere ad esso, quando viene a noi pronto a negoziazione per pagare il prezzo, e per rispondere alle nostre richieste. Tuttavia, se noi lo ricerchiamo disperatamente e lo consideriamo la nostra unica possibilità, allora saremo noi quelli che pagheranno il prezzo. Coloro che sono costretti a negoziare sono quelli che di solito pagano il prezzo. Ecco che Dio Onnipotente afferma in un altro versetto: "Non essere debole e non chiedere la pace quando hai la mano alzata".
    Torniamo al primo versetto: "E se inclinano alla pace, inclina (anche tu alla pace ), e confida in Dio", che è preceduto da quanto diceva Dio Onnipotente: "Preparate per loro la potenza che potete, tra cui destrieri di guerra per terrorizzare il nemico di Allah e vostro". Che cosa significa? Significa che avere il potere e i suoi mezzi è ciò che spinge il nemico con forza verso la pace, e che la tendenza del nemico alla pace e al negoziato è il risultato dello sforzo bellico, della resistenza e del potere. Coloro che considerano le trattative senza le carte della resistenza e del potere stanno virtualmente portando alla resa.
    Nella scienza della strategia e della gestione dei conflitti, la negoziazione è un'estensione della guerra, e una forma di gestione della guerra. Ciò che si ottiene al tavolo dei negoziati è il prodotto della tua condizione di partenza, è il risultato di un equilibrio delle forze in campo. Se si è vinti sul campo, si sarà certamente sconfitti pure nei negoziati. Così come la guerra richiede un equilibrio di potenza, i negoziati e la pace richiedono un equilibrio di potere, perché la pace non può essere raggiunta quando una parte è forte e l’altra debole, altrimenti ci sarà la resa. Gli Stati Uniti non hanno fatto pace con il Giappone e la Germania, dopo la seconda guerra mondiale, ma, piuttosto, hanno imposto loro un patto di resa e di sottomissione. In breve, la pace è fatta dai potenti e non dai deboli; i negoziati possono servire ai potenti, non ai deboli.
    La situazione riguardante il conflitto con il regime di occupazione israeliano è diverso, trattandosi qui di un corpo alieno alla regione, giunto dall'esterno per imporsi su una terra e un popolo, scacciare delle persone dalle loro terre e rimpiazzarle con una diaspora immigratoria proveniente da tutto il mondo. Si tratta quindi di una situazione complessa, da affrontare delicatamente.
    Quando sono presenti le condizioni e i requisiti oggettivi per i negoziati, e in particolare l'esistenza di un equilibrio sufficiente nel rapporto di forze; quando ve n'è un bisogno dimostrato nel momento appropriato – senza fretta né rinvii – allora vi si può ricorrere come ad un meccanismo e strumento, non come a un obiettivo, non come a una condizione permanente o un'opzione strategica. La negoziazione è uno strumento tattico e funziona come la guerra, che non è una scelta permanente ma ha i suoi requisiti e le sue condizioni.
    Con questa chiara visione della negoziazione, e quando venga esercitata con grande attenzione e sotto regole ferree nel momento opportuno, sarà accettabile e utile in un contesto di gestione del conflitto; altrimenti, porterà solo alla resa e alla sottomissione all'egemonia del nemico e alle sue condizioni, e risulterà nello scavalcamento dei diritti e nel continuo declino del livello delle richieste e della posizione politica.
    Purtroppo, la posizione araba e palestinese riguardo a quest'argomento è – in generale – molto sfavorevole e vulnerabile, senza armi di scambio a disposizione, senza sostegno, capacità di manovra o possibilità di ambiguità. I palestinesi sono privi di ogni difesa, e così scelgono la pace dichiarando che è la loro unica opzione strategica. Quando il tuo nemico si accorgerà che non hai altra scelta diversa dal negoziare, e parli solo della pace, e non hai davvero altra scelta, che cosa li spingerà a farti concessioni?
    I negoziatori palestinesi affermano: “La negoziazione è la scelta, il percorso e l'unico piano da seguire”. Coordinano le operazioni di sicurezza con il nemico e realizzano liberamente la Road Map e le sue richieste, mentre Israele non offre nulla in cambio. Che cosa c'è sul tavolo che potrebbe indurre Olmert o Netanyahu a concedere qualcosa ai palestinesi?
    Nel caso palestinese, il negoziato è fuori dal suo contesto oggettivo; da una prospettiva di pura logica politica, rappresenta una mancanza di resistenza e non ha come base il necessario equilibrio di potere. I vietnamiti, per esempio, negoziarono con gli americani mentre questi erano in ritirata; i negoziati erano quindi utili per scrivere la parola “Fine” sull'occupazione e l'aggressione americana. Il successo dei negoziati e dell'imposizione delle proprie condizioni al nemico dipende da quante carte di potere si hanno sul tavolo.
    Insomma, perché le negoziazioni non siano un processo rischioso e oneroso, bisogna far capire al nemico – non solo a parole, ma anche con i fatti – di essere aperti a tutte le strade. Il negoziatore non può raggiungere il suo scopo senza basare la propria posizione sulla molteplicità delle scelte, il che significa che, se si è pronti ai negoziati, a maggior ragione si è pronti ad andare in guerra, e si è in grado di farlo. Se le negoziazioni raggiungono un punto fermo, bisogna essere preparati al conflitto, all'attrito o alla resistenza; altrimenti negoziare sarà inutile. Va ricordato che, nelle guerre di un tempo, era sul campo di battaglia che si negoziava, e se i negoziatori non trovavano un compromesso si riprendevano gli scontri.
    La negoziazione è uno strumento e una tattica al servizio di una strategia, e non una strategia in sé; non è un sostituto per una strategia di resistenza e di confronto con l'occupazione.
    La negoziazione deve basarsi sull'unità nazionale. Se un partito percepisce il beneficio di muoversi in direzione delle trattative, e persegue quindi la sua decisione da solo, senza fare riferimento al popolo, si porrà in una situazione difficile e concederà al nemico un'occasione che questi certamente userà a proprio vantaggio. Un simile errore potrebbe anche portare i negoziatori a fare concessioni significative per paura di essere poi costretti a riconoscere il fallimento della scelta di negoziare; per cui danno la priorità al proprio interesse rispetto a quello nazionale, per non essere smascherati di fronte al loro popolo e ad altri.
    Negoziare ha i suoi spazi e campi specifici, e non è una scelta assoluta, valida in qualunque situazione. Esistono questioni su cui non si dovrebbe negoziare, come i principi di base. La negoziazione è un meccanismo e una tattica con margini e domini specifici; nessuna persona di buon senso tratterebbe su tutto, specialmente sui principi. Negli affari, si negozia spesso sui profitti, non sul capitale fisso. Purtroppo le attuali esperienze, soprattutto in campo palestinese, dimostrano che tutte queste regole sono state abbandonate.
    In tutta onestà e coraggio affermo: negoziare non è proibito in modo assoluto, né dal punto di vista legale o politico, né da quello delle esperienze della nazione e dell'umanità, né delle attività dei movimenti di resistenza e delle rivoluzioni nel corso della storia. Tuttavia, dev'essere un processo soggetto a equazioni, regolamentazioni, calcoli, circostanze, contesti e gestioni appropriate: senza tutto questo, diventa uno strumento negativo e distruttivo.
    Per quanto riguarda il caso palestinese, sosteniamo che negoziare con Israele oggi sia una scelta sbagliata. È stato proposto direttamente a Hamas di negoziare con Israele, ma abbiamo rifiutato. Alcuni leader del movimento hanno ricevuto la proposta d'incontrare diversi leader israeliani, alcuni dei quali attualmente al potere, come [il vice primo ministro israeliano e leader del partito Shas] Eli Yishai e altri della cerchia dei negoziatori. Hamas ha respinto queste offerte.
    I negoziati oggi – sotto l'attuale equilibrio di potenze – sono al servizio del nemico e non favoriscono la parte palestinese. Il conflitto sul campo non si è sviluppato in maniera tale da costringere il nemico sionista a ricorrere alle trattative; quest'ultimo, anzi, si rifiuta di ritirarsi dal territorio e non riconosce i diritti palestinesi. Quindi, negoziare in condizioni simili è solo un gioco inutile.
    Alla luce della nostra debolezza e dello squilibrio di potenza, Israele sta facendo uso delle negoziazioni come strumento per migliorare le sue pubbliche relazioni, “ripulire” la sua immagine di fronte alla comunità internazionale e guadagnare tempo. Intanto, crea nuovi eventi sul campo attraverso la costruzione delle colonie, l'espulsione delle persone, l'ebraicizzazione di Gerusalemme e la demolizione dei suoi quartieri. Le trattative le servono anche per distogliere l'attenzione dai suoi crimini e moderare le richieste palestinesi. Israele sta sfruttando le negoziazioni per normalizzare le sue relazioni con il mondo arabo e islamico, penetrare al suo interno e distorcere la natura del conflitto; Israele è la sola beneficiaria delle trattative, così come vengono condotte adesso.
    I negoziati, sotto lo squilibrio esistente, sono la soggiogazione dei palestinesi alle richieste, alle condizioni e ai diktat del regime di occupazione israeliano; non è un processo equo per il semplice fatto che, alla semplice mancanza di confronto equo sul campo, corrisponde una mancanza di parità intorno al tavolo dei negoziati.
    Il problema del riconoscimento dello Stato sionista solleva molti dibattiti. Esiste anche un discorso di riconoscimento legale contro un riconoscimento realistico, o pragmatico. Qual è la posizione di Hamas al riguardo?
    La nostra posizione riguardo al riconoscimento della legalità dell'occupazione è chiara e stabilita, e non la nascondiamo. Riconoscere Israele è stato posto come condizione per l'apertura della comunità internazionale nei confronti di Hamas, e così per noi è diventato un ostacolo. Ma non ci siamo scoraggiati, e abbiamo mostrato la nostra determinazione a resistere a questa sfida, perché riconoscere vuol dire legittimare l'occupazione e conferire legittimità alle aggressioni, alla colonizzazione, all'ebraicizzazione, agli assassinii, agli arresti e ad altri crimini d'Israele ai danni del nostro popolo e della nostra terra. Tutto questo è inaccettabile secondo la legge internazionale e i valori umani, per non parlare della nostra religione.
    È inaccettabile legittimare l'occupazione e il furto di terre. L'occupazione è un crimine, il furto è un crimine, e non andrebbero legittimati in nessuna circostanza. Questi sono concetti fuor di dubbio nel pensiero condiviso dell'umanità, e allo stesso modo lo sono nel pensiero delle vittime palestinesi, le cui terre sono state usurpate. È un problema legato alla nostra esistenza umana, e cozza non solo con il riconoscimento della legittimità dell'occupazione e dell'usurpazione, ma anche con i sentimenti patriottici e religiosi, l'appartenenza culturale e la presenza storica che legano tutti noi a questa terra.
    Altri sono caduti in questa trappola a causa della loro incapacità e della loro sottomissione a pressioni esterne, e hanno pensato che chinare il capo davanti a tali condizioni e pressioni rendesse più facile per loro proseguire nella loro agenda politica. Tuttavia, i fatti hanno dimostrato che costoro hanno pagato un prezzo esorbitante per un'illusione. Hanno sbagliato rispetto ai loro interessi, e rispetto ai loro principi.
    Noi respingiamo la questione del riconoscimento dal punto di vista sia legale che pragmatico. Vi è una differenza tra l'affermare che esiste un nemico chiamato Israele e riconoscerne la legittimità; nel primo caso, non si tratta di un riconoscimento. In poche parole, noi rifiutiamo di riconoscere la legittimità d'Israele perché rifiutiamo di riconoscere la legittimità dell'occupazione e del furto di terre. Per noi, questo principio è chiaro e inamovibile.
    Non siete rimasti sorpresi dall'insistenza israeliana e internazionale sulla questione del riconoscimento d'Israele da parte vostra? Non si tratta, in qualche modo, di un segno di debolezza, con Israele che sembra mettere in dubbio la propria esistenza, e chiedere ad altri di riconoscerne la legittimità?
    Senza dubbio, il nemico è preoccupato del futuro della propria entità, soprattutto alla luce degli ultimi sviluppi. La sua psicologia è quella di un ladro criminale che nell'intimo si sente come un fuorilegge senza legittimità, a prescindere dalla sua forza. La richiesta di essere riconosciuti è certamente un segno di debolezza, l'espressione di un complesso d'inferiorità, la sensazione di essere illegittimi e respinti dai popoli della regione in quanto estranei, e la percezione che la semplice presenza del solido popolo palestinese è un segno concreto del rifiuto dello Stato sionista.
    Esiste però un'altra dimensione, che è il sentimento di superiorità. Si tratta della logica con cui le nazioni occidentali trattano i paesi del Terzo Mondo. I sionisti adottano la stessa logica, basata sulla supremazia militare, e sentono di essere la parte che ha il diritto di dettare i propri termini alle altre, incluse le condizioni preliminari di qualsiasi negoziazione.
    Purtroppo, alcune fazioni palestinesi e arabe hanno risposto a una simile logica. È uno squilibrio inaccettabile. Nei nostri incontri con delegazioni straniere, li sentiamo costantemente parlare delle condizioni del Quartetto; alcuni di loro introducono condizioni riviste per rendercele più facili da accettare. Noi abbiamo respinto tutte le condizioni per principio, e non abbiamo nemmeno voluto discuterle per elaborare delle formule rivedute e corrette. Noi rifiutiamo il principio delle condizioni, dal momento che suggerisce l'esistenza di due livelli di esseri umani, di cui uno può dominare l'altro, uno impugna il manico e l'altro la lama. La nostra umanità, la nostra dignità e il nostro rispetto per noi stessi dichiarano che noi siamo uguali agli altri, anche se militarmente gli altri sono più forti; per cui rifiutiamo di essere confrontati sulla base di precondizioni.
    Purtroppo, uno degli sbagli che li spinge a insistere in quest'approccio è che alcuni hanno accettato tali condizioni, compresa la questione del riconoscimento. Costoro hanno poi commesso un altro sbaglio nel non concedere il riconoscimento d'Israele in cambio del riconoscimento dei diritti palestinesi, preferendo essere loro stessi riconosciuti. Si tratta di una mancanza significativa se aggiunta alla prima, ovvero al riconoscimento in sé! È assurdo riconoscere Israele in cambio del suo riconoscimento dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina o di un altro movimento, invece di spingerlo a riconoscere il popolo, lo Stato o i diritti palestinesi. Questo implica rinunciare all'interesse pubblico a favore di quello personale, e il grande obiettivo nazionale per quello piccolo, di parte. Sostenendo questo, noi sottolineiamo il nostro rifiuto della questione del riconoscimento, a prescindere dal prezzo.
    Per cui, alle delegazioni occidentali [che ci chiedono di riconoscere Israele] rispondiamo: “Anche se desideriamo comunicare con voi e aprirci al mondo, non ci stiamo mettendo in ginocchio, né siamo alla ricerca del riconoscimento di Hamas da parte dell'Occidente. Non c'interessa. La nostra legittimità proviene dal popolo palestinese, dalle urne elettorali, dalla democrazia palestinese, dalla legittimità della lotta, del sacrificio e della resistenza, e dal nostro sfondo arabo e islamico. Non cerchiamo una legittimità che venga dall'esterno; quello che cerchiamo di ottenere è il riconoscimento dei diritti palestinesi e del diritto del nostro popolo alla libertà, la liberazione dall'occupazione e il diritto di auto-determinazione. E non lo chiediamo in cambio del riconoscimento, perché quest'ultimo sostanzialmente conferisce legittimità all'occupazione, alle aggressioni e ai furti.
    Secondo lei, perché la comunità internazionale e gli israeliani respingono la tregua a lungo termine proposta da Hamas?
    Questo rifiuto da parte dello Stato sionista, dell'amministrazione Usa e degli altri attori internazionali è dovuto a diverse ragioni.
    La prima: la logica di potere, superiorità ed egemonia di questi attori. Sono convinti che il loro potere superiore permetta loro d'imporci quello che vogliono, e di considerare noi arabi e palestinesi la parte sconfitta, priva di qualsiasi scelta diversa dal firmare lo strumento di resa, come fecero Germania e Giappone alla fine della seconda guerra mondiale, e incapace di proporre soluzioni, ad esempio una tregua.
    La seconda: vengono prese in considerazione le fazioni arabe e palestinesi che fanno le offerte più allettanti. Come potrebbero mai rispondere a un'offerta di tregua quando altri offrono di riconoscere Israele in cambio di una soluzione basata sui confini del 1967, disposti anche a negoziare i dettagli di quella soluzione, ovvero i confini, Gerusalemme e il diritto al ritorno?
    La terza: l'esperienza degli americani, dei sionisti e di altri con altri partiti della regione li tenta a concludere che ulteriori pressioni ci getteranno in uno stato di disperazione, com'è successo in casi simili; hanno sperimentato la politica delle pressioni e delle estorsioni con altri ed ha avuto successo. Questo li spinge a pensare: “Proviamo lo stesso con Hamas: potrebbe sottomettersi come hanno fatto gli altri”. Si aggiunga a questo il fatto che alcuni arabi e palestinesi – purtroppo – consigliano loro: “Isolate Hamas, finanziariamente e politicamente, e incitategli la folla contro; non apritevi in maniera diretta, restate fermi sulle vostre condizioni, e non abbiate fretta. Hamas finirà per soccombere!”
    Sono queste ragioni, e forse altre ancora, a portarli a respingere la proposta di tregua. Alle delegazioni occidentali dichiariamo: “Sì, le posizioni degli altri sono più 'facili', e la nostra è più 'difficile'; ma il nostro vantaggio è che, quando facciamo un'offerta o prendiamo una posizione, ci sforziamo di assicurarne l'applicabilità sul campo e il potenziale per vincere la fiducia del popolo palestinese e di quello arabo e islamico. E questo può accadere solo quando l'offerta non rema contro i principi di base, i diritti e gli interessi del popolo.” Per quanto riguarda le altre posizioni rinvenibili sulla scena palestinese, sono “facili” sì, ma mancano dell'approvazione della maggioranza del popolo palestinese, delle sue forze nazionali e delle elite intellettuali. Qual è il valore pratico di queste posizioni, o del raggiungere accordi e trovare soluzioni con leadership ripudiate dalla maggioranza della popolazione? In passato sono stati imposti gli Accordi di Oslo, falliti perché iniqui e irrispettosi delle aspirazioni del nostro popolo, e rimasti così estranei alla realtà araba e palestinese.
    Sappiamo quindi che si finirà per essere infine costretti a fare i conti con la visione di Hamas e delle forze e dei leader impegnati a rispettare i principi di base della nazione. Noi diciamo loro: “Se pensate di poter risolvere i problemi della regione seguendo altri schemi provateci, e raggiungerete un punto morto.”
    Potrebbe anche essere facile per le grandi potenze propendere per soluzioni comode, prese d'accordo con certi leader e governanti, senza considerare l'importanza che queste soluzioni convincano la gente. Queste potenze ignorano il fatto che i leader e i governi in sé sono temporanei e dalla vita breve, e non creano stabilità nella regione – nonostante le pressioni e le oppressioni esercitate ai danni delle persone. Ad ogni modo, il successo di qualsiasi impresa viene raggiunto solo quando la gente è certa che questa sia equa e soddisfacente, anche se solo per il momento. Alcuni in Occidente stanno cominciando a rendersi conto dell'importanza di questa prospettiva, e di conseguenza stanno sviluppando le loro posizioni – anche se lentamente – in direzione di un'apertura dei rapporti con Hamas. Vi sono ancora ostacoli ai tentativi di tradurre un simile, limitato sviluppo in una serie di gesti seri e reali. In compenso, noi non abbiamo fretta, perché quel che c'importa non è il nostro ruolo, ma il nostro impegno nel far valere i diritti e gli interessi del nostro popolo.
    Hamas e gli ebrei
    La resistenza di Hamas è diretta contro i sionisti in quanto ebrei o in quanto occupanti?
    Non combattiamo i sionisti perché sono ebrei; li combattiamo perché sono occupanti. Il motivo della nostra guerra con lo Stato sionista e della nostra resistenza contro di esso è l'occupazione, e non le differenze di religione. La resistenza e il confronto militare con gli israeliani sono scaturiti dall'occupazione, dalle aggressioni e dai crimini commessi contro il popolo palestinese, non da ragioni di fede e di credo.
    Siamo ben consapevoli del fatto che Israele invoca motivi religiosi sul campo di battaglia, oltre a sfruttare risentimenti storici, testi distorti, miti, leggende e sentimenti religiosi nella guerra contro palestinesi, arabi e musulmani. Persino i leader del sionismo laico hanno fatto uso della religione fin dall'inizio del movimento sionista, e l'hanno strumentalizzata in modo politico; e lo stesso Stato sionista era inizialmente fondato sulla religione e sul razzismo. Nonostante tutto questo, non sono state le differenze religiose a creare una situazione di guerra e di resistenza; li combattiamo perché sono occupanti.
    Per noi, la religione è la pietra portante delle nostre vite, della nostra appartenenza e della nostra identità, la nostra cultura e le nostre azioni quotidiane; è l'energia che promuove la pazienza e la fermezza, e incoraggia maggiormente il sacrificio e la generosità. È un'energia fortissima contro l'ingiustizia, le aggressioni e i poteri che cercano di danneggiare il nostro popolo e la nostra nazione. Ma non la trasformiamo in una forza generatrice di odio, né in una causa o in un pretesto per nuocere o attaccare gli altri, o appropriarci di ciò che non è nostro, o interferire nei diritti altrui.
    Hamas e le relazioni internazionali
    È soddisfatto delle vostre conquiste per quanto riguarda le relazioni internazionali? Qual è la posizione di queste relazioni nel pensiero, nei programmi e nelle priorità di Hamas?
    Nel pensiero politico di Hamas, i rapporti internazionali hanno diverse dimensioni.
    La prima dimensione: convincere che tra i vari aspetti della battaglia palestinese vi è quello di battaglia dell'umanità contro l'ingiustizia e l'oppressione israeliane, e contro il progetto razzista sionista che prende di mira il mondo e l'umanità intera e minaccia gli interessi dei popoli e delle nazioni, poiché i suoi mali e i suoi pericoli non sono limitati né alla Palestina e ai palestinesi, né agli arabi e ai musulmani.
    La seconda: la necessità di promuovere la nostra giusta causa e guadagnarci altri amici a sostegno del nostro diritto legittimo a resistere all'occupazione e alle aggressioni. È stato dimostrato che c'è ancora del buono nella coscienza umana, e che questo potrebbe essere risvegliato e mosso in nostro favore se presentassimo bene il nostro caso, e se lottassimo per svelare la verità sullo Stato sionista. La questione della rottura dell'embargo di Gaza e la conquista di un gran numero di simpatizzanti tramite le spedizioni delle navi sono entrambi esempi dell'importanza di questa dimensione. Noi ricordiamo e sottolineiamo che è lo stesso confronto con lo Stato sionista, condotto attraverso il popolo e la resistenza – come accadde con le guerre di Gaza e del sud del Libano e con la Flotilla –, a denunciare il lato oscuro di questo Stato, e non le trattative e gli incontri che ne ripuliscono l'immagine e ne nascondono la realtà e i crimini.
    La terza: allo stesso modo in cui Israele ci accerchia e ci tormenta durante gli incontri internazionali, noi dobbiamo seguirla in tutti i forum internazionali e rubarle la scena. Purtroppo, gli arabi e i musulmani hanno mancato quest'obiettivo, senza adempiere al loro vero ruolo. Questa mancanza è stata però in parte colmata dagli sforzi delle comunità palestinesi, arabe e islamiche che recentemente si sono mosse efficacemente sullo scenario internazionale, ottenendo risultati significativi e pervenendo a svolte importanti. Tali comunità hanno contribuito ad allargare la cerchia di amici e sostenitori della causa palestinese e delle questioni arabe e islamiche, e lavorato per svelare il volto mostruoso d'Israele, il cui comportamento aggressivo e brutale ha scioccato la coscienza e i sentimenti umani, in quanto contrario ai valori morali dei popoli dell'Occidente e del mondo intero. La loro attività ha anche portato alla prosecuzione giudiziaria e legale d'Israele.
    La quarta: siamo interessati a creare una rete di relazioni forte ed efficace a tutti i livelli, internazionale e arabo-islamico. Abbiamo creato all'interno del nostro gruppo una sezione speciale per i rapporti internazionali, poiché riteniamo che aprirci e guadagnare il sostegno internazionale sia un fattore di forza.
    La quinta: creare relazioni internazionali comincia da qui, dall'interno della regione, perché qui cresce la pianta ma il raccolto viene portato lì, in Occidente, mentre da entrambe le parti occorre un duro lavoro. Questo significa che la base fondamentale per pervenire a una svolta nelle relazioni internazionali è la forza sul campo, e che bisogna restare uniti attorno al proprio popolo e alla propria nazione, praticando la resistenza e adottando un atteggiamento risoluto. [Con un simile fondamento], il mondo ci rispetterà e si renderà conto che non vi sarà né pace né stabilità nella regione finché non tratterà con noi, accordandoci la meritata considerazione (...) e rinunciando alle attuali politiche filo-israeliane e anti-palestinesi, anti-arabe e anti-musulmane.
    Abbiamo registrato diversi successi in questo campo, grazie a Dio; eppure la strada è lunga. Siamo relativamente soddisfatti dei nostri risultati, considerando la portata degli ostacoli che dobbiamo affrontare e che vengono posti sul nostro cammino. Non andrebbe dimenticato che il livello di relazioni e i frutti di queste non dipendono solo da noi, ma amche dall'altra parte. È così che hanno luogo le relazioni politiche, e anche umane.
    Se dobbiamo misurare i risultati degli sforzi fatti, in confronto al grado di penetrazione e d'influenza sioniste nel mondo, il divario sembrerà molto ampio. Le politiche occidentali – che vedono in Israele un loro prolungamento naturale e scelgono di darle il proprio appoggio illimitato -, la debolezza del rendimento e della diplomazia arabi e l'incitamento delle fazioni palestinesi ed arabe contro il movimento hanno senza dubbio avuto il loro impatto sulla portata delle conquiste.
    Attualmente, abbiamo una serie di relazioni ufficiali a livello internazionale, come quelle con la Russia, alcuni paesi dell'America Latina e nazioni asiatiche ed africane. Abbiamo anche altri rapporti diretti, alcuni ancora in sordina per rispettare le condizioni poste dall'altra parte, più alcuni indiretti che passano attraverso ex funzionari, i quali ci comunicano quel che sanno gli attuali funzionari dei loro Paesi, come nel caso degli Stati Uniti e in altri ancora. Tutto questo rappresenta uno sviluppo importante, e ben presto, se Dio vuole, darà alla luce rapporti ufficiali aperti e coerenti con il movimento.
    Qui non stiamo parlando di relazioni internazionali condotte dal punto di vista dell'aspirazione, della disperazione, dell'urgenza e della ricerca di una gloria partigiana; al contrario, si tratta di relazioni che noi stiamo forgiando e perseguendo con disinvoltura e rispetto di noi stessi, allo scopo di raccogliere successi per la causa palestinese, e non per interessi di parte.
    Hamas, allineamenti ed assi
    In anni recenti, lo scenario arabo ha visto il crearsi di una serie di assi e allineamenti. Hamas è stato classificato da alcuni lungo l'asse del “rifiuto”. Come vede lei il fatto che questa situazione domini la scena politica araba? In che posizione si vede lei personalmente al riguardo? E ritiene che questa situazione sia a favore degli interessi della nazione?
    Risponderò a questa domanda da tre angolazioni.
    Prima angolazione: esiste un genere di raggruppamento riprovevole, ed uno degno di lode. Il primo è, ad esempio, un'assemblea convocata su basi razziali o seguendo idee nazionaliste ristrette per opporsi ad altri popoli. Questo genere di schieramenti invoca fattori di categorizzazione e di allineamento interno a livello del Paese o della nazione.
    Ma se le persone si riuniscono per fare del bene, per sostenere il popolo palestinese, resistere il nemico sionista, sfidare la normalizzazione, resistere ai tentativi dei nemici d'infiltrarsi all'interno della nazione, affrontare l'egemonia americana e l'occupazione dell'Iraq e dell'Afghanistan e impedire che la nazione venga derubata delle sue ricchezze, tutto questo rappresenta la base per creare un raggruppamento degno di lode, che non può essere paragonato al primo.
    Per questo, quando diciamo di essere a favore della resistenza, dell'adesione ai diritti palestinesi, del diritto al ritorno, della Palestina, di Gerusalemme e dei luoghi sacri della nazione araba, e dall'altra parte di rifiutare l'occupazione sionista e i diktat del nemico, si tratta di qualcosa di cui andiamo fieri. È questo il dovere della nazione. Dio Onnipotente dice: “Aiutatevi l'uno con l'altro nella giustizia e nella misericordia, e non cooperate nel peccato e nell'aggressione”. Riunirsi per questo tipo di collaborazione è quindi desiderabile, e non dovremmo aver paura di essere accusati di appoggiare uno degli assi, se questo è richiesto dal caso.
    Seconda angolazione: non riteniamo che alcuna fazione araba o palestinese venga danneggiata dal nostro impegno alla resistenza o dal nostro rifiuto a sottometterci alle condizioni del Quartetto e del nemico, o al duo Israele-Usa, con la sua visione sulle colonie e il suo abbandono dei diritti palestinesi; [riteniamo] piuttosto che sia il nemico sionista [ad esserne danneggiato]. Coloro la cui agenda s'interseca con quella del nemico, o che soccombono a lui e approvano le sue parole sotto le sue minacce, contribuendo ad assediarci o incitando ad esserci ostili, si stanno concretamente opponendo alla missione della resistenza.
    Ciononostante, non antagonizziamo nessuno del nostro popolo, e infatti non abbiamo formato un asse palestinese, arabo o musulmano contro un altro asse arabo o palestinese. Cerchiamo di raggiungere tutti, desideriamo comunicare con tutti e stabilire relazioni con tutti. Se si verifica una rottura o un congelamento delle relazioni con qualcuno, è stato questo qualcuno a scegliere tale rottura, o tale congelamento, e non noi. Tutti sono consapevoli di questo, perché noi ci mettiamo in contatto con tutti gli arabi – alcuni di loro rispondono positivamente, e altri no.
    Terza angolazione: se era accettabile essere in disaccordo con la nostra politica e analisi della situazione quando l'accordo era in fase di prova e la gente stava pagando dei prezzi altissimi a causa della resistenza, è ancora accettabile oggi, dopo che l'accordo si è dimostrato un fallimento per il suo orizzonte politico ostruzionista e i suoi pesantissimi costi, di gran lunga superiori a quelli della resistenza?

    Noi chiediamo a tutte le forze della nazione araba di riunirsi insieme a noi, come una nazione unita; quando il popolo subisce l'occupazione, il nostro ambiente naturale e la nostra priorità dovrebbero essere la resistenza. Quando subiamo un'aggressione, è naturale unire le forze contro di essa; e quando la nazione entra in una fase d'indipendenza, allora il nostro ambiente naturale e la nostra priorità sono la ricostruzione, il progresso economico e la rinascita culturale in tutte le sue dimensioni.

    Oggi, la nazione araba dovrebbe rispondere alle sfide attuali e porsi nel suo ambiente naturale. Noi ci auguriamo che tutti vogliano restare in quest'ambiente, soprattutto considerando che hanno tutti già tentato, fallito e scoperto che scommettere sugli americani o su altri è inutile. Gli americani sono stati messi alla prova in Palestina, in Iraq e in Afghanistan, e prima ancora in Iran al tempo dello Shah, e i risultati sono stati scoraggianti. Noi suggeriamo agli Stati arabi e islamici: “La via più breve per mantenere i vostri regimi e persino le vostre cariche è quella di schierarvi al fianco della vostra nazione e delle scelte della gente”.
    Le leadership arabe ufficiali si sono concessi molti esperimenti e tentativi di negoziare e raggiungere un compromesso. Il più recente di questi è l'Iniziativa di pace araba, con cui esse hanno mandato un messaggio chiaro e generoso sulla disponibilità degli Stati arabi di accordare benefici in cambio di concessioni provenienti dall'altra parte. Otto anni sono passati da quando questa proposta venne dibattuta, senza che né il nemico sionista, né l'amministrazione Usa, né la comunità internazionale abbiano mostrato il benché minimo rispetto – solo qualche frase di complimento.

    Durante i nostri incontri con molti funzionari e leader arabi, continuiamo a domandare: “Dopo quest'esperienza, e dopo aver raggiunto un punto morto, non vale la pena fermarsi e cercare opzioni alternative?” Cercavamo anche di spiegare loro che ritirarsi dall'accordo sul piano delle colonie e dall'iniziativa araba non significava dichiarare guerra a Israele, cosa che oggi peraltro è impossibile. Un'altra opzione è quella di appoggiare la resistenza, in modo che la nazione possa riunirsi attorno a una scelta realistica e concreta, che si è dimostrata duratura e in grado di ottenere dei risultati, e che è destinata a sviluppare in modo significativo il proprio peso nel conflitto arabo-israeliano, soprattutto se trova sostegno.
    Se fare ufficialmente guerra al nemico oggi è impossibile per lo squilibrio di forze, allora è difficile per la nazione araba – per come stanno attualmente le cose – intraprendere un programma bellico regolare contro Israele. Quindi lasciamo che l'opzione pratica e realistica sia la resistenza, che abbiamo sperimentato, che è riuscita a scacciare gli occupanti dal sud del Libano e da Gaza e che sta avendo effetti visibili anche in Iraq e in Afghanistan.
    Per questo, siamo convinti che fare appello alla nazione araba e alle sue forze perché si allineino nel loro ambiente naturale non sia una teoria astratta o emotiva, ma che anzi si basi sulla scelta concreta sperimentata con successo. La nazione è in grado di farne uso a livello sia ufficiale che popolare, soprattutto dopo il fallimento dei negoziati e alla luce del disprezzo manifestato dai leader nemici di fronte a noi e del successivo tradimento degli Usa nei confronti non solo degli arabi e dei musulmani, ma anche dei propri amici e affiliati.

    Hamas e i cristiani
    Qual è il punto di vista di Hamas sui cristiani e sul loro ruolo nella causa palestinese?
    Islam tratta i cristiani in maniera speciale rispetto alle altre religioni, come si legge nel versetto [coranico]: “Certamente scoprirai che, fra tutte le persone, i più ostili a chi crede sono gli ebrei e coloro che sono politeisti; e certamente scoprirai che, fra tutte le persone, i più vicini a chi crede sono quelli che affermano: 'Siamo cristiani.'” Le relazioni storiche tra cristiani e musulmani hanno avuto uno status speciale nella storia fin dalla conquista della Palestina, quando il secondo califfo, Umar Ibn al-Khattab, ricevette le chiavi della città di Gerusalemme, dopo che i cristiani ebbero insistito che gli ebrei non vivessero con loro a Gerusalemme. Da allora in avanti, tra musulmani e cristiani si formò un rapporto speciale.
    Oltre a ciò, la Palestina gode di uno status d'eccezione, in quanto terra di profeti e messaggeri di Dio, luogo di nascita di Gesù (pace su di lui) e della sosta notturna di Muhammad (pace su di lui) durante il suo viaggio. La Palestina è uno degli esempi più estremi di coesistenza e tolleranza fra tutti i credi. È una tradizione ereditata dai palestinesi – siano essi musulmani o cristiani – ed è risultata nell'evoluzione dei rapporti storici che vedremo.
    Nei decenni passati, fin dagli anni Trenta, quando lo scomparso Hajj Amin al-Husayni patrocinò delle conferenze cristiano-musulmane, i fedeli di entrambe le religioni hanno avuto interessi comuni, e collaborato per affrontare sfide comuni. I palestinesi – musulmani e cristiani – erano nella stessa barca quando si sono trovati faccia a faccia con l'occupazione sionista. Questo è stato dimostrato dal ruolo dei nostri fratelli cristiani nella rivolta palestinese di allora, quando tutte le fazioni si unirono come un solo popolo.
    Fin dalla formazione di Hamas, le relazioni con i fratelli cristiani sono state ordinarie e tranquille, e non ci sono stati problemi tra noi e loro. Questo, nonostante il fatto che alcune forze palestinesi, purtroppo, abbiano tentato di spaventare i cristiani con l'idea del nuovo Hamas, ricordando che è un movimento islamico e minacciando di promuovere il concetto di una contraddizione a loro avviso inevitabile tra il movimento e i cristiani. Simili tentativi d'intimidazione sono però falliti, e i cristiani hanno scoperto un movimento vicino a loro, che tratta ognuno con tolleranza, apertura e rispetto. Durante la seconda Intifada palestinese, il movimento ha preso in considerazione le specificità delle festività cristiane, ed ha prestato attenzione a che i giorni di sciopero non coincidessero con le ricorrenze e gli avvenimenti celebrati dai cristiani, allo stesso modo in cui ha fatto in modo di proteggere le loro proprietà. A parte questo, Hamas ha anche favorito un ruolo attivo da parte loro nella vita politica palestinese. I leader del movimento, sia in patria che fuori, hanno infatti organizzato diversi incontri con figure importanti della Palestina cristiana.
    Per questi motivi, Hamas ha guadagnato un vasto sostegno tra i cristiani prima e dopo le elezioni legislative del 2006; molti di loro hanno votato per Hamas, e noi li abbiamo a nostra volta appoggiati a Gaza e in Cisgiordania. Ad esempio, Husam at-Tawil – cristiano – ha vinto [un seggio] a Gaza grazie ai voti di Hamas e dei sostenitori del movimento. Il numero di musulmani che votarono per lui era di diverse volte maggiore del numero dei voti non-musulmani – dato che il numero di cristiani nella Striscia è ridotto.
    Ricordo qui, per la sua importanza simbolica, un episodio che accadde in un aeroporto. Un uomo mi si avvicinò, si presentò come palestinese, originario di Beit Jala, cristiano, e affermò di aver votato per Hamas e di non aver cambiato parere. Nessuno lo aveva obbligato a dirlo, e nessuno lo aveva spinto a fare quelle dichiarazioni; lo fece da solo, esprimendo quel che sentiva. Questo è un esempio dei buoni rapporti tra il movimento e i fratelli cristiani all'interno del nostro popolo.
    Trattiamo i fratelli cristiani come una componente fondamentale del popolo e della patria, e come parte attiva nella lotta contro l'occupazione, senza considerare se abbiamo davanti un musulmano o un cristiano. Siamo insieme nello stesso paese, e ognuno ha diritti e doveri. Quando ricordiamo figure religiose che si sono distinte nella lotta del popolo di Palestina, ricordiamo, tra i musulmani, shaykh Raed Salah, shaykh Ikrima Sabri, e [tra i cristiani] il vescovo Atallah Hanna, il vescovo Capucci, e così via; siamo tutti uniti a difendere Gerusalemme e la nostra causa.
    Hamas potrebbe aver sorpreso alcuni liberali e laici dell'ambiente palestinese che pensavano, o magari promuovevano anche l'idea che, in virtù della sua identità islamica, il movimento si sarebbe isolato, e che si sarebbe sviluppato un legame debole tra noi e i cristiani palestinesi. Quando le loro attese non si sono materializzate, sono rimasti stupiti: questo perché la religione non è isolamento e distacco; al contrario, la fede motiva le persone ad essere tolleranti, a rispettare gli altri e a riconoscere i loro diritti.


    continua

  2. #2
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    Predefinito Rif: Intervista. Khaled Mesh'al traccia la nuova direzione politica di Hamas

    Hamas e le donne
    I movimenti islamici sono spesso accusati di disprezzo nei confronti delle donne, e di marginalizzarne il ruolo nella vita politica e sociale. Come vede lei queste accuse alla luce della sua esperienza all'interno di Hamas?
    Purtroppo, esiste un divario tra i veri concetti dell'Islam riguardanti le donne e le loro applicazioni più recenti. Si assiste a una messa in pratica e a un comportamento erronei, che risultano dall'arretratezza e non dai testi e dallo spirito della Shari'a.
    Anche al giorno d'oggi, e nonostante il buon livello di progresso dei paesi arabi e islamici, ci sono ancora errori nell'applicazione [della Shari'a] che scaturiscono da molti costumi, tradizioni e concetti nutriti da certe situazioni e certi ambienti specifici, e non dai precetti dell'Islam in sé.
    Alle donne, nei testi del Corano e negli hadith (i detti del profeta), vengono assegnati dei doveri, esattamente come agli uomini, e quando il Corano parla della Shari'a e delle sue disposizioni fa cenno a uomini e donne allo stesso modo, poiché ognuno ha le proprie responsabilità. Questo è evidente nelle parole di Dio Onnipotente: “I Credenti, uomini e donne, sono protettori gli uni delle altre e viceversa: essi impongono ciò che è giusto, e proibiscono ciò che è malvagio”, e “Giammai sopporterò di perdere l'opera di alcuno di voi, che sia maschio o femmina. Voi siete membri, gli uni delle altre e viceversa”. E, nelle parole del Profeta: “Le donne sono le metà gemelle degli uomini”. Esistono ancora altri versi coranici e hadith simili a questi.
    La donna, nei concetti islamici di pensiero, giurisprudenza, mandato e ruolo, rappresenta proprio una metà della società, e le vengono accordati prestigio e rispetto nei suoi confronti. Esiste però un'enorme differenza tra il rispetto e l'apprezzamento per la donna e il suo giusto ruolo da una parte, e abusarne e presentarla come un bene a buon mercato come avviene nella civiltà occidentale dall'altra. Esiste una certa differenza tra il conservare la castità e la modestia della donna, salvaguardando i suoi diritti e al tempo stesso assegnandole un ruolo adeguato, e trattarla come un oggetto di piacere. Simili regolamentazioni etiche non sono solo islamiche; sono innate e umane.
    Noi del movimento di Hamas, per quanto riguarda le donne, siamo per l'invocazione dei concetti islamici e della loro applicazione fedele, senza che li alterino anni di arretratezza o il peso di norme e tradizioni sociali prodotte dall'ambiente specifico e non dal testo religioso, soprattutto dal momento che l'ambiente palestinese non è un ambiente chiuso, ma storicamente civilizzato, e caratterizzato dalla pluralità e dall'apertura a tutte le religioni, le civiltà e le culture.
    Secondo questa concezione pura e di ritorno alle origini, e per proseguire l'esperienza e la tradizione palestinesi, Hamas ha assegnato alla donna un ruolo particolare nelle proprie attività. Questo è venuto alla luce durante l'Intifada, nel corso della resistenza e in tutte le forme di lotta, e non si trattava solo del ruolo di madre, moglie e sorella dei militanti, ma anche di un ruolo di primo piano, nel portare avanti operazioni di guerriglia e di martirio, a sostegno dei fratelli e dei martiri, e nel fornire assistenza logistica. Vi sono anche sorelle che hanno accompagnato i combattenti in macchina fino al sito delle operazioni, come accadde in occasione dell'operazione Sbarro e di altre. Nelle carceri sioniste sono rinchiuse decine di sorelle che patiscono le sofferenze della prigione e pagano il prezzo del jihad combattuto fianco a fianco con i loro fratelli.
    Il ruolo delle donne è significativo sia in Palestina che all'interno del movimento, sul lavoro come nel jihad e nella lotta, nel campo della beneficenza come nell'educazione, oppure nel lavoro politico e sindacale. La donna palestinese è istruita e colta, e la sua attività nelle scuole e nelle università non è inferiore a quella di un uomo.
    In accordo con i nostri termini di riferimento islamici, l'identità culturale araba e lo specifico ambiente palestinese, le donne di Hamas occupano una posizione avanzata. Nell'azione politica, e prima che venisse creato il Consiglio legislativo, le donne svolgevano attività significative nel movimento studentesco palestinese e in vari sindacati; e quando Hamas partecipò alle elezioni legislative, le donne godevano di una forte presenza e occupavano una grande porzione delle nostre liste, così come nel governo formato da Hamas.
    È vero che alcuni movimenti e gruppi islamici vengono criticati perché trascurano il ruolo delle donne, però siamo anche a conoscenza, dall'altro lato, di casi di depravazione e di comportamenti che infrangono le prescrizioni morali presso alcune forze e partiti laici. Hamas vuole sviluppare una visione moderata, che assegni alla donna il suo ruolo autentico, senza dissociarsi dai principi, i valori e l'etica dell'Islam, e allo stesso tempo liberandola dall'isolamento, dalla reclusione e dall'emarginazione. Sono convinto che abbiamo avuto successo in questo, grazie a Dio. Le donne rivestono anche un ruolo importante al livello organizzativo di Hamas, che cerca di sviluppare al meglio il loro ruolo e la loro partecipazione all'interno della struttura del movimento.
    Il modello di resistenza di Hamas
    Che contributo ha dato Hamas al jihad e alla lotta? Che cosa distingue il suo modello di resistenza?
    Occorre innanzitutto sottolineare che Hamas in quanto movimento di resistenza contro l'occupazione sionista è parte naturale e autentica dell'esperienza della lotta palestinese, una sua estensione e uno dei suoi cicli, cominciato un centinaio di anni fa con la prima ribellione e il primo martire, con tutte le sue icone, i leader e i loro grandi sforzi – nonostante alcune avverse circostanze del loro periodo. Si tratta fra gli altri di persone quali 'Izzeddine al-Qassam, Haj Amin al-Husseini, Farhan as-Sa'adi, Abd al-Qader al-Husseini, fino alla contemporanea rivolta palestinese sollevata da tutte le sue fazioni, forze, leadership e personalità militanti. La marcia della lotta palestinese continua ancora oggi, grazie a Dio, e continuerà finché gli obiettivi del ritorno dei profughi e della liberazione dall'occupazione sionista non verranno realizzati.
    Ciò vuol dire che Hamas, in quanto movimento di resistenza, non è privo di radici nel deserto, ma è parte di un tutto. È parte della storia militante e della marcia per il jihad del nostro popolo – piena di sacrifici, sfide, idee, pazienza, tenacia e determinazione a proseguire e superare tutti gli ostacoli, le sfide e le circostanze avverse e sfavorevoli, finché l'ultimo obiettivo non verrà raggiunto, a Dio piacendo.
    Questo senso di appartenza e di continuazione ha infuso in Hamas – così come in altre forze della resistenza palestinese – l'eredità di quella storia e la sua originalità, il suo spirito e la sua identità specifica, e ci ha fatto abbracciare questa lunga e ricca esperienza e beneficiare delle sue varie fasi, con tutti i suoi successi e le sue conquiste, insieme a qualche fallimento. Per noi e il nostro popolo, simili esperienze sono una ricca e valida riserva. La scelta del nome del martire 'Izzedine al-Qassam per la nostra ala militare e le sue brigate non è che un'espressione e una manifestazione di quest'affiliazione.

    Affermare questo fatto in questa sede è per noi necessario e di grande importanza, se vogliamo conoscere sia le nostre radici e i nostri fattori di potere reale, sia le nostre vere dimensioni e la nostra posizione specifica in questa lunga marcia. Appartenere a una tale storia e a un tale percorso, se da un lato infonde nelle persone o nei movimenti la forza e la sicurezza di sé, necessarie soprattutto nei momenti difficili, dall'altro ispira in loro l'umiltà necessaria e il rispetto per il ruolo degli altri. Noi e agli altri siamo parte di questo percorso benedetto; non siamo i primi e non saremo necessariamente gli ultimi.
    Noi e agli altri costruiamo sull'esperienza dei nostri predecessori, ne traiamo dei benefici, e quindi creiamo le nostre esperienze con i loro alti e bassi, interagendo con chi ci accompagna nella marcia. Tutto questo rappresenterà l'eredità delle future generazioni, che reggeranno la bandiera e continueranno la lotta fino alla conquista della vittoria e della liberazione, se Dio vorrà. Questo è l'obiettivo al quale tutti avranno concorso – anche se non saranno testimoni del risultato finale.
    Ci siamo sforzati di plasmare il nostro modello di resistenza, che abbiamo istituito come contributo a questa grande lotta, e – tramite questo – abbiamo voluto aggiungere qualcosa di notevole alla marcia. Abbiamo radicato in essa una moltitudine di politiche, norme e concetti importanti e necessari, e le abbiamo apportato una quantità di spirito, idee, perseveranza e determinazione.
    Alcune delle visioni, dei concetti e delle politiche più degni di nota sono:
    Primo: la resistenza è il nostro mezzo per ottenere l'obiettivo strategico, ovvero la liberazione e il ripristino dei nostri diritti e la fine dell'occupazione sionista della nostra terra e dei nostri luoghi sacri.
    La resistenza, vale a dire, è una strategia di liberazione, e l'asse principale della nostra attività in quanto movimento di resistenza, e non rappresenta una semplice scelta da parte nostra. È la spina dorsale del nostro progetto. Nonostante l'importanza del nostro programma e delle altre attività che vengono svolte nel corso della realizzazione del programma del movimento – come l'attività politica, popolare, sociale, caritatevole ed economica -, il vero valore e impatto di queste attività nel servire gli obiettivi riposano sulla loro posizione all'interno del contesto della resistenza in quanto programma chiave, e del sistema di lavoro del quale la resistenza è la colonna portante. Questo perché noi siamo un movimento di resistenza, che si oppone a un'occupazione militare coloniale avversa alla nostra esistenza, per cui è normale che la resistenza armata e onnicomprensiva sia la base e il fattore decisivo in questo confronto.
    Secondo: la resistenza per noi è un mezzo – e non un fine – al servizio degli obiettivi; non è resistenza per la pura resistenza. L'elaborazione del concetto di “resistenza” fine a se stesso incarna molti errori di comprensione, di visione, di atteggiamento pratico e di comportamento, e rappresenta un passo falso nel processo decisionale e nella valutazione dei vantaggi.
    Sì, la resistenza è molto importante, e un asse fondamentale del nostro progetto, ma non è l'obiettivo. È il mezzo e il modo per raggiungere lo scopo, e uno strumento strategico per la liberazione.

    Terzo: “Hamas” non è un gruppo militare, ma un movimento di liberazione nazionale che copre ogni ambito, e il cui asse principale e mezzo strategico per la liberazione e la realizzazione del progetto nazionale palestinese è la resistenza. Allo stesso tempo, il movimento lavora in altre aree, e ha una visione politica e degli scopi propri. È un movimento dal basso, consapevole dei problemi del suo popolo in patria e fuori, che difende gli interessi del suo popolo e cerca di servirlo il più possibile in tutti gli aspetti della vita quotidiana.
    Quarto: abbiamo limitato la nostra resistenza alla sola occupazione israeliana. La nostra lotta è contro il nemico che occupa la nostra terra, abusa del nostro popolo e invade i nostri luoghi sacri – e contro nessun altro. Non abbiamo fatto resistenza nemmeno a chi sosteneva i nostri nemici e forniva loro tutti i mezzi di forza e le armi mortali che uccidono il nostro popolo. Abbiamo anche adottato la politica di confinamento della resistenza alla Palestina, e non al di fuori – non per esserne incapacitati, ma sulla base di un'accurata stima dei vantaggi, e un bilanciamento delle diverse considerazioni.
    Quinto: adottiamo chiaramente la politica di fare uso delle armi e della forza solo contro l'occupante e il nemico esterno che ci attacca; questa è resistenza legittima. Ciò significa non utilizzare le armi e la forza né nelle questioni domestiche, né nell'affrontare dispute politiche e idelogiche. Le dispute a livello nazionale vanno risolte attraverso il dialogo, il consenso e l'arbitrato del popolo, attraverso la democrazia e l'urna elettorale.
    I tragici eventi verificatisi qualche anno fa nella Striscia di Gaza non rappresentarono un allontanamento da questa politica, trattandosi di un caso del tutto diverso. Allora vi fu un partito palestinese che respinse il risultato delle elezioni e cercò di capovolgerlo, e cioè di capovolgere la legittimità palestinese, e purtroppo collaborarono con il nemico sionista e gli americani e fecero uso delle armi contro di noi. È nostro diritto naturale difenderci quando vi siamo costretti, soprattutto considerando che lo facevamo dalla posizione di un governo legittimo, formato in seguito a elezioni giuste e democratiche, che furono approvate dall'eletto Consiglio legislativo.
    Dall'altro lato, quando fummo all'opposizione dal 1994 al 2006, e nonostante l'Anp avesse arrestato migliaia dei nostri membri e li avesse crudelmente torturati, sebbene avesse perseguitato la resistenza, le sue armi e i suoi uomini, e avesse coordinato (come continua a coordinare) le operazioni di sicurezza con il nemico sionista, noi non reagimmo facendo uso delle armi o della forza contro di essa, e concentrammo la nostra resistenza sul solo nemico sionista. Adottammo una politica delle mani basse e limitammo la nostra opposizione all'Anp ai soli mezzi pacifici politici e popolari.
    Sesto: abbiamo adottato la politica di non impegnarci in guerre territoriali nella regione, contrariamente a quanto altri hanno fatto in precedenza. Non abbiamo mai impiegato la forza e le armi contro alcuno Stato o partito arabo, anche se ci avevano nuociuto e assediato, o se avevano arrestato o torturato i nostri fratelli, o pugnalato la resistenza alle spalle, o incitato a combattere contro di noi. Gli arabi sono i nostri fratelli e la nostra famiglia, e rappresentano la nostra profondità strategica; non possiamo quindi far loro del torto, anche se loro ne hanno fatto a noi. Ci siamo impegnati in questa politica negli ultimi anni, e vi rimarremo impegnati, se Dio vorrà, perché la nsotra battaglia è esclusivamente contro il nemico sionista.
    Settimo: nel costruire la resistenza, ci siamo affannati a focalizzarci sulla formazione religiosa, educativa, psicologica e intellettuale degli attivisti, assicurando un alto grado di disciplina nella capacità organizzativa e nel comportamento, oltre a un forte impegno nelle regole religiose e morali della resistenza, e sviluppando in loro la tenacia e l'abnegazione in circostanze estreme. Abbiamo inoltre formato la loro coscienza e chiarezza d'intenti, la loro sincerità negli scopi e l'unione delle dimensioni della religione e della nazione, in modo da sviluppare un forte incentivo nell'intraprendere il percorso del jihad e della resistenza. Il combattente lotta contro il nemico occupante, a difesa della sua patria e dei luoghi sacri, del suo popolo e della sua nazione, della sua famiglia e del suo onore.
    Per quanto riguarda il contributo del movimento al jihad e alla lotta, occorre notare un punto fondamentale: il movimento di Hamas, grazie a Dio, è riuscito a costruire e a rinforzare la sua attività di resistenza pur essendo nato in un periodo difficile, in un momento nel quale molte condizioni obiettive e molti fattori necessari al successo delle rivolte e dei movimenti di liberazione stavano venendo meno. Il più rilevante di questi è la fine della Guerra Fredda, l'assenza di un alleato internazionale e l'emergere di un sistema internazionale basato sull'unipolarità degli Stati Uniti d'America, il principale alleato dello Stato sionista, seguito dall'entrata del mondo nella “guerra al terrore”, e dall'accordo sull'incolpare l'Islam e i movimenti di resistenza.
    Oltre a ciò, anche se questo ha diverse altre implicazioni, vi è il fatto che la resistenza in Palestina sta subendo da tempo un assedio soffocante, e viene privata di un vicinato amichevole che possa fornire profondità strategica e logistica, oltre a una base sicura che permetta la libertà di movimento. Tutto questo ha portato a difficoltà estreme nella continuazione della lotta armata tale qual era prima, e nella disponibilità di sostegno logistico alla resistenza in patria e fuori.
    Alla luce di questa grande sfida, e al fine di proseguire nel progetto di resistenza e superare gli ostacoli e gli embargo, il movimento si è concentrato su una strategia di estensione della partecipazione del popolo palestinese in patria, e sul suo coinvolgimento nella resistenza e nel confronto [con il nemico]; cominciando con i lanci di pietre, per passare alla creazione di nuovi metodi durante la prima e seconda Intifada – alle quali parteciparono tutti, dando così il via a una nuova fase della lotta palestinese – e a nuove forme di resistenza e di confronto aperto con l'occupazione.
    Un'altra strategia di autosufficienza in patria è stata ugualmente adottata in termini di reclutamento, addestramento, fornitura di armi e manovre, facendo intanto ogni sforzo per ricercare quanto più possibile armi e sostegno finanziario e tecnico dall'estero. Poi, quando l'embargo si è intensificato ulteriormente, è emersa l'idea di fabbricare gli armamenti all'interno, dai materiali grezzi disponibili.

    Così abbiamo accettato il nostro compito di fronte a queste sfide enormi, a quest'assedio e a queste persecuzioni, e l'abbiamo affrontato in modo coraggioso e risoluto tramite l'innovazione, la creatività, la diversificazione, l'autonomia e la fiducia in Dio in ogni circostanza, continuando a cercare amici e alleati. Ci siamo detti che, pur essendo rimasti soli sul campo e pur avendo perso ogni sostegno da parte degli altri, avremmo persistito nella nostra resistenza, senza rinunciarvi né porvi fine, e continuato a sollecitare la nostra nazione ad appoggiarci e ad adempiere insieme a noi a questo dovere onorevole, citando le parole di Dio Onnipotente al Profeta (pace su di lui): “Tu lotterai per la causa di Dio; tu sei responsabile solo di te stesso; e ispirerai i fedeli a fare ugualmente. Potrebbe accadere che Dio neutralizzi il potere di coloro che non credono. Dio è molto più potente, e molto più forte nella sua capacità dissuasiva” (Sura 4, versetto 84). Questo lo dicevamo pur essendo convinti e certi della fedeltà della nostra nazione e del suo impegno a non abbandonare le sue responsabilità nei confronti del problema centrale della Palestina e del confronto con il sionismo. La nostra nazione si rende chiaramente conto dell'essenza del movimento di Sion e del pericolo che pone alla regione e al mondo.
    Un altro apporto di Hamas, in termini di jihad e di lotta, è l'innovazione nella resistenza e nei suoi metodi, nelle sue tattiche e nei suoi strumenti, come l'estensione delle operazioni di martirio e il loro sviluppo in armi letali contro il nemico, che colpiscono nel cuore della sua sicurezza. Un altro esempio è la fabbricazione di armi a livello locale e la sua trasformazione in un progetto reale su cui fare affidamento, anche se in via provvisoria, vista la difficoltà di ricevere armi dall'esterno. L'esempio più notevole al riguardo è la fabbricazione di armi che in precedenza erano facili da eludere, a causa della loro semplicità e del raggio e dell'efficacia limitati, ma che poi sono evolute, diventando un vero disturbo per il nemico, e accrescendo il loro impatto sulla sua sicurezza.
    Un altro contributo importante è lo sviluppo delle capacità della resistenza di fronte alle incursioni israeliane, e il successo nel difendere le aree e le città palestinesi seguendo l'illustre modello di Gaza e il tentativo eroico del campo di Jenin, dove tutti i metodi convenzionali furono impiegati e coadiuvati dall'uso delle gallerie su larga scala, a scopo di difesa e di offesa. La tattica si è così evoluta in una vera e propria guerra, dove il nemico ha subito una disfatta e i suoi obiettivi sono stati frustrati – come nella guerra lanciata sulla Striscia dal nemico sionista nel 2008-2009, che fu la guerra più grande combattuta da Israele su terra palestinese.
    Da citare è anche il miglioramento dei nentativi di conquistare e liberare parte dei territori. La resistenza palestinese, con le sue ali militari, le sue operazioni di martirio e l'impatto significativo della seconda insurrezione del nostro popolo, è stata in grado di costringere il nemico sionista a lasciare la Striscia di Gaza e a smantellare gli insediamenti per la prima volta nella sua storia.

    Questo significa chiaramente che la rivolta palestinese, attraverso lo sviluppo di capacità, peso e strumenti, l'innovazione e la diversificazione dei metodi e delle tattiche, la determinazione e la pazienza, è divenuta un'opzione reale e affidabile. La gente può ora fidarsi della propria capacità di ergersi, difendere e conquistare, anche se passo dopo passo, e nonostante l'enorme squilibrio di potenza con il nemico.
    La resistenza ha inoltre voluto sviluppare un aspetto importante della propria esperienza, ovvero l'alternanza tra l'escalation e la distensione, in linea con le circostanze che sta vivendo il nostro popolo, servendo l'interesse pubblico e il buon senso politico. La situazione di calma può essere scelta in modo autonomo, e persino non dichiarato se necessario, come parte delle decisioni del movimento, oppure potrebbe essere annunciata pubblicamente da un accordo delle forze di resistenza, in cambio di richieste specifiche quali l'interruzione delle aggressioni sioniste, la fine dell'assedio e così via.
    Noi, insieme ad altre fazioni della resistenza, abbiamo messo in pratica tutto questo in tutta coscienza e con tutto il coraggio, e ci siamo presi la responsabilità di salvaguardare il nostro popolo e i suoi interessi. Tuttavia, lo abbiamo fatto sulla base dell'adesione alla resistenza e del suo ulteriore sviluppo in quanto opzione strategica per la liberazione. Sia sul campo di battaglia che sul percorso della resistenza, il movimento – così come altri hanno fatto tra le fila del nostro popolo – ha offerto un'importante costellazione di martiri provenienti tra i suoi leader migliori, le sue icone e i suoi quadri, a partire da shaykh Ahmad Yassin, fondatore del movimento, e per proseguire con Abd al-Aziz ar-Rantisi, Jamal Mansur, Jamal Salim, Ibrahim al-Makadmeh, Isma'il Abu Shanab, Salah Darwazeh, Yusef Sarakji, Saed Siam, Nizar Rayyan e migliaia di altri illustri caduti.
    Il movimento ha anche offerto personaggi celebri alla storia dell'attività militare palestinese, come Imad Akel, Yahya Ayyash, Salah Shehadeh, Mahmud Abu Hannud e decine di altri martiri che non possono essere tutti citati qui, anche se i loro nomi rimarranno nella memoria palestinese e nella storia della lotta.
    Un altro aspetto, e un apporto molto importante, è rappresentato dall'introduzione della dimensione religiosa islamica alla battaglia, insieme a quella nazionale, con tutto il significato che ha l'Islam nella vita del popolo e della nazione araba, e lo spirito, la forza e il vigore che conferisce ai combattenti. Inoltre, rinforza le motivazioni che spingono alla militanza e la capacità di resistere e perseverare, per non parlare del potere che ha l'Islam di mobilitare le masse e infiammare i loro sentimenti contro gli occupanti.
    Inoltre, questa dimensione essenziale ha incoraggiato il radunarsi delle masse arabe e islamiche e il loro sostegno al popolo palestinese e alla resistenza, soprattutto durante gli eventi più importanti, quali la guerra e l'assedio di Gaza, oltre a tutte le questioni collegate a Gerusalemme e alla moschea di al-Aqsa. I sentimenti islamici sono tra gli elementi più importanti che legano le masse alle loro elite e alla Palestina. Per questo, l'energica entrata di Hamas – con la sua chiara identità islamica – nel campo di battaglia ha rappresentato un fattore decisivo nel sollevare il vasto impeto arabo e islamico, e nell'invocarlo a favore della causa palestinese e della resistenza.
    Qual è il suo punto di vista sulla questione dell'eccessiva facilità con cui viene versato del sangue?

    Esistono delle condizioni stabilite in modo rigido che riguardano il sangue e le vite delle persone, e che vengono sottolineate nel Corano e nella Sunna. Il Profeta (pace su di lui) non ha mai dato tanta importanza a nessun altro argomento. Lo ha evidenziato più volte, soprattutto nel suo Discorso d'Addio, ed è quindi diventato centrale nella legge della nazione. Esistono codici morali e costumi nazionali a cui le persone aderiscono per mantenere la pace all'interno delle loro società, e tutti dovrebbero rispettare queste regole.
    Noi del movimento desideriamo rispettarle in modo attento, instillando questi vincoli e queste norme legali, etiche e nazionali, sensibilizzando i membri del movimento, educandoli, spingendoli ad attenervisi nei loro comportamenti, e a rispondere di ogni infrazione.
    Un simile insegnamento dev'essere rivolto in particolare a chi lavora in campo militare e porta le armi, in modo che queste vengano impiegate solo nel loro campo naturale, contro il nemico occupante; poiché la loro sensazione di potenza potrebbe tentarli ad utilizzarle senza che ve ne sia bisogno. Più s'intensifica la tensione interna ad una società, più sarà probabile che s'indulga a un eccessivo uso delle armi.
    A questo punto, bisognerebbe ricordare che la gravità dell'esperienza delle questioni di sicurezza con l'Anp negli anni '90, lo scarso rendimento del suo apparato, la corruzione, le vessazioni ai danni delle persone – e in particolare dei movimenti di resistenza, primo fra tutti Hamas – e le torture e gli insulti ai danni dei leader del nostro movimento hanno creato sentimenti d'indignazione e profondo dolore, e provocato negli animi ferite che non si rimargineranno mai. Tutto ciò ha reso l'ambiente interno della comunità palestinese poco solido e salutare, e molto teso e irascibile, ed ha accresciuto le mini-frammentazioni e la fedeltà a se stessi o alla fazione, alle spese dell'interesse generale della nazione. Sono problemi a cui dobbiamo lavorare tutti quanti; dobbiamo prenderci le nostre responsabilità e risolverli, perché sarebbe nell'interesse del Paese, della nostra causa unanime, e perché lasciar stagnare simili fenomeni è dannoso per tutti.
    Il possesso di armi, il senso di potere e le ingenti forze militari spesso trasmettono ai loro proprietari vanità e auto-ammirazione, li spingono all'indulgenza nel fare uso delle armi, e potrebbero indurli a sbagliare e a violare i diritti altrui. Per natura, l'uomo supera il limite quando diventa ricco e potente, come dichiara Dio Onnipotente: “Ma l'uomo trasgredisce tutti i confini, poiché considera se stesso autosufficiente” (Sura 96, versetti 6-7). Impedire simili trasgressioni richiede disciplina e controllo attraverso l'impegno religioso, morale e patriottico e attraverso l'applicazione di vincoli, norme e pene, oltre che facendo rispondere i trasgressori degli abusi e delle irregolarità.
    Noi del movimento utilizziamo quest'approccio nei suoi due aspetti: i valori religiosi, morali e patriottici, che scoraggiano dal commettere reati; e le pene da comminare, nel caso vengano commessi. Questi sono problemi legati alla religione, all'interesse nazionale e ai diritti delle persone. Vogliamo inoltre mantenere l'integrità delle intenzioni e la genuinità delle motivazioni dei combattenti, in modo che il jihad, gli sforzi e i gesti tendano sempre e solo a Dio, alla patria e all'interesse di questa, lontano dalla passione per la vendetta e dalle motivazioni personali. Ciononostante, vengono ancora commessi degli sbagli: fa parte della natura umana.
    Errori e abusi si ritrovano nelle esperienze di tutti i popoli e le nazioni, come possiamo vedere ad esempio nel fatto che gli eserciti del mondo si stanno scagliando e stanno commettendo ogni sorta di brutture contro i vulnerabili popoli occupati dell'Iraq e dell'Afghanistan. Tuttavia, come nazione araba e musulmana, e in virtù dei principi della nostra religione, della nostra morale e del nostro patrimonio culturale, dobbiamo sempre puntare agli standard più alti di disciplina morale e alla fermezza di fronte agli errori e agli abusi, dal momento che la nostra morale non va praticata solo tra di noi, ma è universale e umana e andrebbe adottata da tutti, indipendentemente dalla religione o dalla razza.
    Perfino ai tempi del Profeta Muhammad (pace su di lui) vi erano eccessi e sbagli, anche se venivano affrontati in modo fermo e rapido. Il Sacro Corano si riferiva a uno di questi casi nel versetto: “O voi che credete! Quando viaggiate lontano dal vostro Paese sostenendo la causa di Dio, investigate attentamente e non dite a chiunque vi offra il suo saluto: 'Tu non sei un credente!', continuando a bramare i beni caduchi della vita terrena: con Dio, i profitti sono abbondanti. Anche voi eravate un tempo nelle stesse condizioni, finché Dio non vi conferì i Suoi favori. Dunque, investigate attentamente. Poiché Dio è a conoscenza di tutto ciò che fate.” (Sura 4, versetto 94).
    Il Profeta (pace su di lui) era irremovibile nel correggere simili infrazioni – per quanto fossero limitate – e le tradizioni profetiche al riguardo sono ben note, dal momento che il sostegno dei principi, dei valori e della morale è la base della religione e il fondamento della nazione.
    Per questo, in osservanza dell'etica e delle norme islamiche, secondo l'esempio del Sacro Corano e della Sunna – poiché consideriamo l'adesione a questi un obbligo religioso e una fonte di felicità e bontà – e nell'interesse del nostro popolo, la politica del nostro movimento è basata sul non incoraggiare gli errori e le violazioni, e sul non legittimarli, a prescindere dalla loro origine. Al contrario, li consideriamo distanti dall'approccio del movimento, dal suo pensiero e dal suo impegno, e puniamo con decisione i colpevoli e i responsabili degli abusi.
    Il futuro della regione
    Qual è il suo punto di vista sul futuro della regione nei prossimi cinque anni?
    La regione oggi è nel pieno del travaglio, e i prossimi cinque anni conosceranno probabilmente il proseguimento e il peggioramento di questo. Speriamo che tutto ciò, alla fine, produca cambiamenti positivi e frutti promettenti, a Dio piacendo – anche se sarà difficile. Speriamo e confidiamo che il futuro dei prossimi anni beneficerà la nazione araba e la causa e la resistenza dei palestinesi. Non vi è dubbio che la nazione oggi stia attraversando una fase di progresso, ma si tratta – inevitabilmente – di una fase difficile, che potrebbe essere accompagnata da molto dolore, e richiede quindi maggior pazienza, maggior determinazione e il raddoppiamento degli sforzi da un lato, e l'intensificazione della resistenza e del confronto con il nemico occupante dall'altro.
    Alcuni ritengono che questa sua lettura sia ottimistica e infondata. Su quale base costruisce le sue aspettative?
    La nostra lettura non è fantasiosa, e certamente non è disfattista. La nostra lettura è realistica e si basa su numerosi fatti, prove ed indici. Uno di questi è che i tentativi di resistenza nella regione si sono evoluti in modo significativo, dimostrando la loro presenza ed efficiacia. Non solo: si sono anche rivelati duraturi, e hanno riscosso importanti successi, pur trovandosi ad affrontare condizioni sfavorevoli e sfide enormi, le più importanti delle quali sono lo squilibrio di potenza a livello regionale e internazionale e lo stato di debolezza e divisione in cui operano gli stati arabi e islamici.
    Chi conosce la realtà della resistenza in Palestina, Libano, Iraq e Afghanistan si renderà conto che essa è diventata l'unica vera opzione dalla quale possono dipendere i popoli della regione per affrontare le forze egemoni, resistere all'occupazione, difendere le loro terre e i loro interessi, salvaguardare la loro indipendenza e respingere l'aggressione di qualsiasi nazione del mondo, anche se questa dovesse essere potente quanto gli Stati Uniti d'America.
    La resistenza nella regione non solo è riuscita a fare passi da gigante nella liberazione dei territori – come a Gaza e nel sud del Libano -, non solo è sopravvissuta a grandi guerre, ma ha anche causato tanti problemi e tanti dilemmi alle forze che cercavano d'invadere e controllare direttamente le terre, al punto che ora tali forze sono costrette a rivedere i loro calcoli. La gente della regione e la sua resistenza – grazie a Dio – hanno costretto queste grandi potenze e nazioni ad accordare loro un po' di considerazione, dopo che le deboli politiche dei governi arabi le hanno tentate ad accrescere la propria avidità e ad ignorarci nel formulare la politica estera e le decisioni importanti che coinvolgevano la regione.
    La guerra sionista contro Gaza e l'episodio della Freedom Flotilla hanno rivelato un fattore importante per il corso del conflitto, e cioè che la nazione vede ancora la Palestina come la sua prima causa, e che la gente, per quanto frustrata, è ancora in grado di riprendersi e mobilitarsi a tempo di record, affrontando problemi reali e veri e propri faccia-a-faccia con il nemico. Questa vitalità intrinseca della nazione, manifestatasi in diversi momenti critici, è uno dei fattori e delle cause – per quel che ne sappiamo – che ha spinto i paesi occidentali a fare pressioni su Israele ed accelerare la fine della recente guerra di Gaza, temendo le ripercussioni dell'indignazione degli arabi e dei musulmani nei confronti dell'attuale realtà politica e degli interessi occidentali nella regione.

    Si sono anche avute importanti trasformazioni negli ultimi anni per quanto riguarda le posizioni di diversi paesi arabi e islamici che, insieme alle forze di resistenza, hanno creato una situazione di potere crescente e d'indipendenza, una tendenza al sostegno degli interessi della nazione araba e un rifiuto delle condizioni e delle pressioni esterne. Esiste anche uno schieramento di paesi “contro”, alleati con la resistenza stessa, i quali hanno conosciuto un progresso notevole per quanto riguarda il loro ruolo nella regione, e lo stesso vale per altri stati arabi che hanno sviluppato la propria posizione ed espresso onestamente e coraggiosamente il proprio appoggio alla militanza palestinese e alla scelta democratica, manifestatasi nelle elezioni del 2006.
    Ad esempio, abbiamo visto di recente l'emergere del ruolo regionale della Turchia, che ha intrapreso un percorso positivo in direzione dell'indipendenza delle decisioni politiche e dell'avanzamento economico, della promozione dell'esperienza democratica, dell'apertura nei confronti della nazione araba e islamica, del notevole ed effettivo impegno nella questione della Palestina e in altri problemi regionali, e dell'adozione di posizioni forti e coraggiose; tutti elementi che indicano una trasformazione sia in Medio Oriente che all'interno della nazione, e una maggior propensione al progresso e al miglioramento.
    Non vi è dubbio che vi sia un riconoscimento da parte di tutti – anche di chi lo nega testardamente – che la strategia della stabilizzazione e delle negoziazioni è fallita miseramente e ha raggiunto un punto morto, dopo essere stata adottata per quasi vent'anni quale sola opzione per l'intera politica araba ufficiale basata sulla cosiddetta “moderazione”. [Viene anche riconosciuto] che tutte le varie amministrazioni Usa sul cui aiuto gli stati arabi hanno contato per la riuscita di questa strategia non hanno fatto che metterli in imbarazzo, concedendo loro semplici promesse e parole, rinviando le date di scadenza e continuando nel frattempo a dare sostegno pratico e politico allo stato sionista.
    Nonostante i difensori di questa strategia non siano disposti ad ammettere formalmente il fallimento, onde evitare che si formi un vuoto e si ricerchi una strada alternativa, i lavori nella regione devono decisamente portare tutti a cercare una strategia diversa, più seria e rispettosa di sé, che sia meglio in grado di affrontare le realtà di fatto che Israele impone sul campo ogni giorno sfidando tutti – moderati e non-moderati. La politica dell'attendere, del temporeggiare, dello sperimentare scelte fallimentari e del ripeterle in continuazione non può più essere intrapresa.
    A parte questo, purtroppo, la politica araba ufficiale sembra incapace di stare al passo con i cambiamenti che si verificano nella regione, con il sorgere di nuovi attori, la crescente importanza del ruolo di altri, e le sfide che ne risultano nei confronti degli arabi, della loro sicurezza e dei loro interessi – soprattutto quelli dei paesi più importanti.
    Sebbene l'influenza degli Usa continui a pesare su diversi paesi della regione, esiste un risentimento nascosto nei suoi confronti che comincia a crescere in questi paesi. Anche gli amici degli Stati Uniti ne sono inclusi, semplicemente perché questi ultimi li deludono, non li aiutano con le questioni che riguardano la nazione araba – e in particolare il conflitto arabo-israeliano – e favoriscono lo Stato sionista e altri paesi della regione a loro spese. Chi sta dalla parte dell'America si trova così in imbarazzo di fronte ai propri cittadini, e vede indebolita la propria capacità di continuare a negoziare e a difendere la strategia di moderazione politica, basata sulle colonie e sulle trattative.
    Uno degli elementi che rinforzano la nostra certezza che il futuro della regione sia a nostro favore è la posizione sempre più debole dello Stato sionista. Questo sarà anche più avanzato militarmente, e lo squilibrio di potenza penderà pure dalla sua parte, ma al momento sta incorrendo in un gran numero di fallimenti. Sì, è in grado di fare la guerra, ma da tempo non riesce a vincere.
    Tutti i fatti citati sopra, le prospettive che rispecchiano – a volte amare a volte promettenti -, la crescente consapevolezza dei popoli della regione – soprattutto quelli arabi -, lo spazio mediatico aperto e l'impossibilità di nascondere i fatti, un ritorno dei popoli della nazione araba alla loro autentica identità arabo-islamica e alle loro radici culturali, le loro crescenti preoccupazioni sulle attuali condizioni e sul destino della nazione, sulla sicurezza nazionale, sui ruoli internazionali e regionali e sui problemi principali, in cima ai quali vi è il conflitto arabo-sionista... Tutto questo, a mio avviso, spinge la nazione verso un cambiamento reale e significativo, divenuto inevitabile. È questo che infonde in me (e in quelli che la pensano in modo simile a me) la certezza che il futuro dei prossimi anni sarà, a Dio piacendo, benefico per la nostra nazione – a dispetto delle amarezze, dei dolori e dei tormenti di adesso. Questo punto di vista è rinforzato dal fatto che la regione, come hanno dimostrato i fatti storici, è sempre riuscita a riconquistare l'iniziativa e a sconfiggere le forze che l'aggredivano.
    Futuro dell'impresa sionista
    Attraverso la sua lettura del percorso dell'impresa sionista e della sua realtà attuale, qual è il suo punto di vista sul futuro di quest'impresa? Si sta muovendo verso la realizzazione della “Grande Israele”, o è in declino?
    I dati concreti rinforzano la convinzione che l'impresa sionista non abbia futuro nella regione, e che anzi stia conoscendo un vero e proprio declino. Per quest'impresa, l'espansione era un elemento importante, e non può più essere perseguita. La costruzione del Muro (che pure ha ripercussioni negative sul popolo palestinese) e la ritirata dal sud del Libano e dalla Striscia di Gaza non sono che alcuni esempi concreti della sua regressione.
    Israele, che un tempo dichiarava guerra ai suoi vicini e vinceva con grande facilità, era in grado di portare la lotta nel territorio del suo nemico e colpiva dappertutto; ora, il cuore della sua terra è il campo in cui combatte la resistenza palestinese. È un ciclo. Il cosiddetto “fronte interno israeliano” è ora minacciato in ogni guerra e in ogni confronto, e paga il prezzo delle mosse azzardate dei suoi leader. Oltre a ciò, l'attuale classe dominante israeliana – formata da molti militari, politici e leader della sicurezza – non ha le stesse capacità della prima generazione che costruì questo Stato, né la stessa volontà di lottare, per non parlare della corruzione che serpeggia al suo interno, i suicidi in aumento, le diserzioni del servizio militare e il rendimento sempre più insoddisfacente degli apparati di sicurezza.
    Israele non vince una vera guerra dal 1967, a parte l'invasione di Beirut del 1982. Si tratta di un indice importante del declino delle capacità dell'impresa sionista, e del fatto che non ha futuro. A mio parere, il progetto della “Grande Israele” è giunto al termine, semplicemente perché il nemico sionista non è più in grado di portarlo a compimento, e perché continua a percorrere la stessa strada dell'apartheid in Sudafrica. Molti politici e osservatori neutrali la pensano allo stesso modo.
    A più di sessant'anni dalla fondazione di quest'entità, e nel momento in cui le domande che ci si pone in Israele non riguardano più la sicurezza dello Stato, ma anche il suo futuro, siamo di fronte a uno sviluppo importante. Se la comunità israeliana mette in dubbio la base della propria esistenza e la fattibilità della propria impresa, allora il conto alla rovescia dev'essere iniziato, se Dio vuole.
    Ad ogni modo, non basta dire queste cose: bisogna costruire. Noi non incoraggiamo a sottovalutare la forza e le capacità dello Stato sionista (sono le persone acute quelle che non sottovalutano il proprio nemico), il quale ha ancora molti fattori di potenza. Ciononostante, questa lettura realistica, basata su molti fatti e indici, dovrebbe indurci a non soccombere alle minacce d'Israele, o alle sue condizioni per la stabilità politica, e a non trattare l'impresa sionista come un destino inevitabile. La vera alternativa alla politica di sottomissione e allo stato di disperazione, all'attesa e all'impantanamento nelle negoziazioni, è la resistenza. Se Dio vuole, il popolo palestinese è in grado di portare avanti questa resistenza, anche se gli occorrono il sostegno e la partecipazione della nazione araba.
    Esiste un dibattito tra molti attori internazionali riguardo al perdurare del ruolo d'Israele in quanto elemento strategico degli interessi occidentali nella regione. Lei crede che vi sia la possibilità che alcuni attori possano riconsiderare l'utilità di appoggiare ancora e illimitatamente lo Stato sionista?
    Uno dei punti forti d'Israele è stato la sua capacità di promuovere se stessa in Occidente in quanto parte della civiltà occidentale ed estensione di questa, portatrice dei suoi valori, del suo stile di vita e del suo sistema politico democratico. Un tempo si presentava anche come vittima del Nazismo, allo scopo di attirare simpatie. Oggi Israele non si comporta più così, soprattutto dopo il Rapporto Goldstone, i suoi crimini nella guerra di Gaza e prima ancora in Libano, e i suoi misfatti ai danni della Freedom Flotilla, con le sue aggressioni nei confronti di centinaia di cittadini provenienti da dodici paesi diversi, inclusi alcuni dell'Occidente. Oggi Israele viene denunciata, e vive in una situazione dove il fondamento morale che rivendicava e promuoveva in precedenza viene ora fatto traballare. Israele è in declino morale, e il suo vero volto malvagio è stato smascherato. Questo è un passo in avanti molto importante.
    Il sostegno occidentale a Israele ha sofferto un grande shock – soprattutto tra i popoli e le elite dell'Occidente – a causa dei suoi abominevoli crimini e della fermezza dei palestinesi, i quali l'hanno denunciata per quello che è, portando in primo piano la giusta causa palestinese e il volto umano di questa. I negoziati daranno come risultato Israele che dà lustro alla sua immagine a scopi di pubbliche relazioni. Ma se Israele perde la sua “incubatrice” internazionale, infligge su di sé una perdita pesante, poiché essa stessa non è parte autentica della regione, ma sopravvive grazie al sostegno della comunità internazionale. La mentalità occidentale, d'altra parte, premia la forza, la adora, e basa su di essa le proprie politiche. Oggi, tuttavia, lo Stato sionista non appare più all'Occidente come uno Stato in grado d'imporre ciò che vuole nella regione. Un simile cambiamento ha senza dubbio mutato l'immagine d'Israele e il suo ruolo funzionale in Occidente da investimento proficuo a peso oneroso, e nel futuro avrà un impatto graduale sulle relazioni tra le due parti.
    Tutti questi fattori dimostrano l'invecchiamento precoce di quest'impresa. Di solito, quando la senilità appare presto in una struttura biologica, è indice di un difetto di formazione o di una mancanza d'immunità, così come di un rigetto dell'ambiente circostante. Senz'ombra di dubbio, la fermezza e la resistenza palestinesi – così come la fermezza e il sostegno della nazione araba -, i continui confronti con l'impresa sionista e la continua smentita delle aspettative di questa hanno portato alla luce i suoi punti deboli. Per questo motivo, l'impresa ha mostrato presto i segni del logoramento e non è più riuscita a lanciarsi nelle stesse avventure e a registrare lo stesso successo del passato. In poche parole, l'impresa sionista – come tutte le imprese che si sono storicamente realizzate per mezzo dell'occupazione, la colonizzazione e la violenza – non gode di alcuna legittimità, in quanto è estranea alla nostra regione e non ha i requisiti per sopravvivere. Per questo giungerà al termine, come altre imprese dello stesso genere.
    Noi siamo una grande nazione, orgogliosi di noi stessi, della nostra religione, della nostra terra, della nostra storia, della nostra cultura e della nostra identità; il nostro cuore pulsante e indice della nostra vita e sopravvivenza sono la Palestina e Gerusalemme. Per questo, non tollereremo a lungo lo Stato sionista, e anzi lo sconfiggeremo, proprio come in passato abbiamo sconfitto le Crociate e l'avanzata dei mongoli.
    “Perché è a turno che assegnamo alle persone tali giorni (di buona e cattiva sorte)” (Sura 3, versetto 140).
    domenica, 5 settembre 2010
    Khaled Mesh

    http://www.infopal.it/leggi.php?id=15908

 

 

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