E' giusto che la Chiesa stia vicino a chi richiede l'eutanasia?
La Chiesa svizzera il 5 dicembre si espressa contro la presenza del sacerdote nel momento estremo in cui viene somministrata la morte.
Qui ci sono l'articolo sulla dichiarazione dei vescovi svizzeri e la risposta del Pontificia Accademia per la Vita, Mons. Paglia che invece si dichiara favorevole. Seguono altri articoli contrari.
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END-OF-LIFE
I vescovi svizzeri sul suicidio assistito: "La Chiesa non può essere presente durante la fine della vita"
6 dicembre 2019
M. Chiara Biagioni
Sempre più spesso, anche indipendentemente dal desiderio di ricevere un sacramento, i pazienti che considerano il suicidio assistito, richiedono un accompagnamento umano e spirituale insieme alla presenza di un caregiver pastorale o di una figura appartenente alla Chiesa. Occasionalmente la richiesta arriva fino a chiedere un prete che possa accompagnare il paziente fino a quando non viene somministrato il farmaco letale. Come rispondere? Un documento dei vescovi svizzeri esplora modi e mezzi di accompagnamento spirituale e presenza
I pastori dovrebbero lasciare la stanza dei pazienti durante l'atto suicida. La raccomandazione dei vescovi svizzeri si trova in un documento di 30 pagine pubblicato oggi su "Comportamento pastorale nei confronti della pratica del suicidio assistito". I vescovi sono intervenuti perché la pratica del suicidio assistito in Svizzera è in costante crescita da molti anni ora, portando ad un aumento significativo del numero di suicidi. Un numero crescente di cittadini considera questa pratica una "soluzione accettabile di fronte alla sofferenza e alla morte", hanno osservato i vescovi. Il documento dei vescovi svizzeri inizia affermando che il suicidio assistito "è radicalmente contrario al messaggio evangelico" e la sua pratica "è un grave attacco alla conservazione della vita della persona umana che deve essere protetto dal concepimento fino alla morte naturale". Il secondo parte del documento affronta una domanda che viene chiaramente posta sempre più spesso agli operatori pastorali:
“La mia vita ha un significato con così tanto dolore? Voglio morire, mi puoi aiutare? ”.
In effetti, in un numero crescente di casi, e persino indipendentemente dal desiderio di ricevere un sacramento, i pazienti che considerano il suicidio assistito richiedono un accompagnamento umano e spirituale e desiderano la presenza di un caregiver pastorale o di una figura coinvolta nella Chiesa. Occasionalmente la richiesta arriva fino a chiedere un prete che possa accompagnare il paziente fino a quando non viene somministrato il farmaco letale. Come rispondere?
Prima di offrire una risposta, i vescovi ripercorrono ogni fase dell'atto di suicidio assistito descrivendo dettagliatamente il comportamento da adottare passo dopo passo. Il processo inizia quando il paziente contatta l'organizzazione che garantisce il suicidio assistito e presenta una cartella clinica. Se l'associazione accetta di intervenire, si tengono riunioni preparatorie e viene fissata una data. A quel punto, uno o due membri dell'organizzazione (che per la maggior parte non sono dottori) vanno a casa del paziente o nella struttura medica. La persona riceve prima un farmaco anti-vomito per impedire l'espulsione del liquido letale. Mezz'ora dopo, la soluzione letale viene deglutita. I vescovi sottolineano che la morte non avviene immediatamente ma solo dopo un considerevole periodo di tempo, durante il quale la persona rimane per prima cosciente, quindi perde gradualmente coscienza; il loro respiro si indebolisce e si verifica una condizione di "vita minima" prima della morte. La durata di questo processo varia da persona a persona e in base alla sostanza letale.
Uno studio su 300 eventi di suicidio assistito nel cantone di Zurigo mostra che una volta che il prodotto viene somministrato per via orale, l'inizio della morte può andare da 7 minuti a 18 ore, con una media di 25 minuti.
Anche in caso di auto-somministrazione endovenosa, la morte si verifica non prima di un tempo medio di 16 minuti. "Sorge una domanda difficile riguardo l'accompagnamento durante questi lunghi minuti di agonia", scrivono i vescovi, "possiamo lasciare una persona alla loro solitudine in questo periodo?"
"L'orientamento generale, che implica il massimo discernimento, implicherebbe l'accompagnamento delle persone che hanno deciso di suicidarsi", per quanto possibile " , ma il caregiver pastorale dovrebbe quindi lasciare fisicamente la stanza quando viene somministrato il farmaco letale. I vescovi danno tre ragioni per cui questo comportamento non significa "abbandonare la persona": quando lascia la stanza la Chiesa attesta di essere permanentemente a favore della vita, mentre - e questa è la seconda ragione - la presenza di un pastorale al letto di una persona che commette deliberatamente un atto suicida, potrebbe essere interpretato come "assistenza o cooperazione" da parte della Chiesa. Per quanto riguarda il terzo motivo,
i vescovi ci invitano a riflettere sull'impatto psicologico di un "impotente" testimone di un suicidio sulle altre persone vicino al paziente.
Coloro che hanno fatto questa esperienza hanno dichiarato di essere stati traumatizzati per mesi, persino anni.
Il documento esplora il delicato argomento dei sacramenti (sempre da considerare "sacramenti della vita e della vita" e non per la morte), l'accompagnamento spirituale e umano di familiari, amici, coloro che si sono presi cura del paziente. L'intero documento è contrassegnato dalla preoccupazione di prendere sul serio il desiderio di suicidio e di non perdere mai la speranza che questo desiderio si invertirà e che col tempo diventerà un desiderio di vita. "L'esperienza dimostra che la richiesta di suicidio spesso nasconde un desiderio non espresso, che deve essere discernito e approfondito".
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Congresso?Religion and Medical Ethics. Palliative Care and Elderly Mental Health? | Vincenzo Paglia
Congresso“Religion and Medical Ethics. Palliative Care and Elderly Mental Health”
I due temi scelti per questo Congresso sono le Cure Palliative e la Salute Mentale nell’invecchiamento. Si tratta di due ambiti importanti non solo per l’assistenza sanitaria ma per il futuro delle nostre società. Infatti, i malati inguaribili e gli anziani, soprattutto quando colpiti da infermità mentale, vengono spinti ai margini e si ritiene che non abbiano più nulla da offrire. Non sono produttivi, non servono, costituiscono un peso per le nostre società che fanno dell’efficienza un mito assoluto. Un atteggiamento denunciato da Papa Francesco che utilizza, come sapete, l’efficace espressione «cultura dello scarto».
La Pontificia Accademia per la Vita è impegnata a promuovere una cultura delle Cure Palliative non solo all’interno delle comunità dei credenti, ma ovunque nel mondo. Abbiamo già realizzato vari Congressi su questo tema sia in Italia sia in Europa; negli Stati Uniti con la firma di una Dichiarazione comune con la Chiesa Metodista;in Brasile, in Libano e in Qatar, dove nel gennaio 2018 ho firmato proprio con la dott.ssa Sultana Afdhal una Dichiarazione congiunta. Da non dimenticare poi il Position Paper sui temi del fine vita e delle Cure Palliative, firmato proprio in Vaticano il 28 ottobre scorso con i rappresentanti delle tre Religioni abramitiche.
Abbiamo pubblicato un Libro Bianco per la Promozione e la Diffusione delle Cure Palliative nel mondo, preparato da un gruppo internazionale di esperti. L’obiettivo è di far crescere non solo la conoscenza, ma soprattutto la pratica delle cure palliative. Ci accomuna la volontà di promuovere una «cultura palliativa», sia per rispondere alla tentazione di imboccare scorciatoie, di cui le più evidenti sono l’eutanasia e il suicidio assistito, sia per fa maturare una cultura della cura che permetta di offrire una compagnia di amore sino al passaggio della morte. Il movimento delle cure palliative, infatti, mentre esprime un modo sapiente di stare accanto a chi soffre, diviene anche un messaggio di come concepire l’esistenza umana. Esso comporta un modo ben preciso di convivere, che mette al centro la persona e il suo bene a cui tende non solo l’individuo, ma l’intera comunità, nella reciprocità.
Le cure palliative rappresentano un diritto umano e questa consapevolezza si va progressivamente diffondendo. Ma il vero diritto umano è continuare a essere riconosciuto e accolto come membro della società, come parte di una comunità. Questa prospettiva sta provocando una nuova riflessione anche nell’ambito della medicina. Sappiamo infatti che l’obiettivo della “guarigione” gioca un ruolo preponderante nella medicina contemporanea. Ma va evitato il rischio che sia l’unico scopo da ottenere a qualsiasi costo, dimenticando cioè il limite radicale che fa parte della nostra esistenza. L’illusione dell’immortalità, che fa da sfondo alla guarigione come assoluto, è pericolosissima. La radicale finitudine umana porta a escludere con decisione l’ostinazione nell’uso dei trattamenti, che infligge sofferenze inutili o addirittura dannose al paziente. Ma ridurre o sospendere i trattamenti quando non sono più proporzionati non significa abbandonare il malato. Quando non si può fare più nulla per guarire non è vero che non ci sia più nulla da fare. Si deve accompagnare, sollevare dalla sofferenza, aiutare a vivere tutto il tempo della debolezza con amore. Questo è agire nel rispetto e nella promozione della dignità.
Gli anziani sono particolarmente esposti ai rischi che abbiamo appena descritto e il Simposio che oggi iniziamo esamina proprio due tematiche che vi sono correlate, importanti anche per il futuro delle politiche sanitarie in tanti paesi nel mondo e non solo in Occidente. Assistiamo, infatti, da un lato a un crescente invecchiamento della popolazione; dall’altro alla diffusione di una cultura eutanasica, favorita da un mondo centrato sul profitto e da politiche sanitarie inclini a una mentalità contabile. Eppure sappiamo che una corretta pratica delle cure palliative e della terapia del dolore riduce le spese per interventi diagnostici e terapeutici impropri, prescritti nella logica della “medicina difensiva”. Gli esperti ce lo dicono e se ne parlerà durante i lavori di questo Congresso. Un aspetto ulteriore riguarda le Cure Palliative pediatriche. Quando la sofferenza colpisce i minori, i bambini, siamo ancora più scossi.
Vi è poi l’altra questione relativa alla salute mentale degli anziani. L’allungamento della vita comporta la crescita, tra le malattie invalidanti o comunque gravi, delle cosiddette demenze senili, in particolare l’Alzheimer che copre circa il 50% dei casi su mille. Il resto si suddivide tra la malattia di Pick (che lascia a lungo intatta la capacità di leggere e scrivere e che è contraddistinta dall’agitazione psicomotoria) e le demenze di origine vascolare, infettiva o traumatica. Si calcola che il 30% dei vecchi di 85 anni siano affetti dal morbo di Alzheimer (in Italia si parla di circa 500 mila persone colpite e, a livello mondiale, si prevede che nel 2050 ne soffrirà un individuo su 85). L’Alzheimer è temutissima. Potremmo dire che riassume le paure legate alla perdita di sé e della propria indipendenza: si può sopportare la perdita dell’autonomia motoria, ma non perdere la testa. Solo la paura del cancro supera quella dell’Alzheimer tra li americani. Così una ricerca del 2010 di MetLife. “Perdere la testa? Questa prospettiva mi terrorizzava…La nostra paura irrazionale di dimenticare ha fatto tanta strada nella nostra psiche che le nostre dimenticanze quotidiane provocano terrore e la diagnosi invoca pensieri di suicidio. Nella nostra moderna società dell’informazione nessuna competenza è più importante della agilità mentale”, scrive Ashton Applewhite. (Ashton Applewhite, Il bello dell’età p.76)
Ecco allora i campi in cui le religioni individuano una prospettiva comune: un accompagnamento che guardi alle dimensioni fisiche, psicologiche e spirituali di ogni persona. Una lettura dell’esistenza umana e della realtà che valorizzi l’esperienza religiosa consente di sperimentare e affermare un bene che va al di là della misura del calcolo. Il riconoscimento della costitutiva apertura alla trascendenza della persona consente di affermare che nella vita umana, anche quando è fragile e apparentemente sconfitta dalla malattia, vi è una preziosità intangibile.
Ecco perché la Pontificia Accademia per la Vita è impegnata su queste frontiere. Reinventare una nuova fraternità è la sfida antropologica e sociale dei nostri giorni. E proprio in questa linea Papa Francesco ha consegnato uno specifico mandato alla Pontificia Accademia per la Vita in occasione del venticinquesimo anniversario della sua istituzione, che si è celebrato l’11 febbraio di quest’anno. È un percorso su cui le diverse tradizioni religiose possono trovare una profonda sintonia. Esse infatti, a partire dall’incontro con il Creatore, ci consentono di riconoscere nel limite un aspetto della condizione umana che, pur suscitando nell’uomo ribellione e trasgressione, può aprirsi a un’altra lettura, in quanto luogo di relazione e di comunione. E questo vale non solo verso l’altro essere umano, andando oltre una percezione immediata che lo vede come un intralcio per i propri scopi, ma anche verso la natura e la terra. L’io trova la sua più compiuta espressione nella relazione, cioè nel noi. Il noi non è in realtà disgiungibile dall’io. E che l’esistenza di ciascuno si svolga in una permanente riscoperta di come il noi prevenga e fondi l’io è una dinamica a cui dobbiamo pazientemente restituire evidenza. L’umanesimo è costitutivamente solidale. Superando l’atteggiamento prevaricatore e predatorio che così spesso pratichiamo, ci viene così consegnato il compito di “custodire” l’altro e il creato, senza di cui la vita stessa della famiglia umana viene privata di ciò che la rende possibile.
Grazie
Centro Congressi “Augustinianum” – 11 dicembre 2019
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https://www.tempi.it/eutanasia-suici...a-eijk-chiesa/
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https://www.sabinopaciolla.com/mons-...di-confusione/
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https://fsspx.it/it/news-events/news...-la-vita-53515
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