Alcune questioni della teoria del Partito sardo
contributo alla discussione precongressuale di Gianfranco Pintore
L'indicazione della indipendenza come modo di porsi della nazione sarda in rapporto allo stato italiano e al resto del mondo è patrimonio consolidato di tutto il Partito. Ma non in tutti i settori e a tutti i livelli esiste lo stesso grado di consapevolezza. Né si può dire che la questione della indipendenza abbia, all'interno nostro, valenza e significato univoci. Esistono, detto in modo schematico, quattro tipi di atteggiamento, che corrispondono poi, inevitabilmente, a comportamenti politici nella prassi quotidiana del rapporto interno ed esterno:
a) Indipendenza come estremizzazione verbale, quasi un sinonimo forte dell'autonomia; di questa è comunque considerata un'evoluzione. E' la posizione che chiameremo minimalista;
b) Indipendenza come madre necessitata dei federalismo: la conquista dell'indipendenza deve portare al federalismo. Questa posizione, che chiameremo strumentalista, attraverso una serie di passaggi logici trasforma in ineluttabilità di processo ciò che, anche secondo lo statuto del Partito, è invece solo condizione" di processo;
c) Indipendenza come situazione che si verifica a partire da un momento dato. Il momento è, volta a volta, il raggiungimento dei 51 per cento dei voti, il referendum, la spallata alla storia, etc. Questa posizione massimalista considera l'indipendenza un valore autoreferente, un valore in sé e per sé, persino indifferente al senso e ai contenuti di se stesso;
d) Indipendenza come processo illimitato e non status definito una volta per sempre e come progetto a due facce, l'una rivolta a rivendicare sovranità all'esterno, l'altra rivolta a garantire sovranità all'interno alle comunità che formano e fondano la nazione sarda. E' la posizione che riteniamo più corretta e, soprattutto, più coerente alla cultura, alla civiltà e alla società dei sardi.
La posizione che, per comodità, abbiamo definito minimalista nasce da una visione della storia del Partito sardo come continuità di un processo lineare, un processo disturbato, è vero, da escrescenze, bubboni, devianze; ma una volta che siano stati tagliati, il tronco sano ha continuato la sua evoluzione. A volte con rapidità, a volte con lentezze, a volte, addirittura, con arretramenti. E' la continuità di un partito, lo vedremo in seguito, nato come sezione sarda di un partito italiano inesistente e che, comunque, aveva lo scopo di agire Il per il rinnovamento della politica nazionale" (italiana s'intende). Un partito certo sardo, certo fortemente autonomista, altrettanto fortemente contrario al colonialismo nordico, ma incapace di prendere sul serio le questioni etnica e linguistica di cui c'è anche a volte coscienza e di trasformarle in "motivi di autonomia. Un partito che fu anche incapace, proprio per questa non coscienza della identità, di rompere gli schemi del meridionalismo.
Questa concezione continuista ha trovato alimento nel quadro politico di questi ultimi anni: in partiti italiani che hanno trovato molto comodo fingere di allearsi con il Partito sardo del 1921 (non degli anni Ottanta), in settori del Psd'a che hanno in qualche modo convalidato l'equivoco di una organizzazione quasi totalmente autonomistica e meridionalista e solo marginalmente indipendentista. In fondo, sta anche in questo equivoco la debolezza del Partito sardo dimostrata nella scarsa determinazione posta nell'affermare la necessità e l'urgenza, oltre che la pregiudizialità, di misure di governo "sardiste", tese, cioè, a conquistare alla Sardegna elementi di sovranità, di indipendenza o, quanto meno, di non dipendenza.
Anche la posizione "strumentalista" nasce da preoccupazioni di continuità e trova alimento in un bisogno di offrire garanzie esterne per ottenere un invito a frequentare il salotto del sistema politico italiano. Il ragionamento che sottende tale posizione è, grosso modo, questo: "Noi siamo federalisti e l'indipendenza che noi rivendichiamo è lo strumento, il grimaldello per aprire le porte del federalismo". E la conclusione, neppure troppo sottintesa, è: "Se qualcuno potesse dimostrarci, con i fatti e non solo teoricamente, che la Sardegna potrebbe stringere patti federali su un assoluto, non contestato né contestabile piano di parità, la nostra opzione indipendentista cadrebbe da sola, poiché è strumentale rispetto al federalismo".
E' una posizione sbagliata non solo e non tanto perché travisa la lettera e lo spirito dello statuto che afferma essere il federalismo vincolato all'indipendenza e non viceversa. E' sbagliata non solo e non tanto perché, anche concettualmente, sarebbe suicida il popolo che vincolasse la conquista dell'indipendenza a condizioni con cui esso stesso si è impastoiato, è sbagliata perché è una posizione subalterna. Subalterna a una vecchia concezione dello stato, in crisi non solo in Italia e in Europa occidentale ma anche nell'Est europeo come stanno a dimostrare le rinascenti e mai sopite questioni delle nazionalità in Urss. Subalterna a una cultura federalista che ragiona per schemi statuali se non statalisti e al rinnovamento della quale, dobbiamo ammetterlo, noi sardisti non abbiamo contribuito se non con enunciazioni di principio. Ma è subalterna (fino a esserne timorosa) a una cultura della sinistra in Sardegna che è, parlando per eufemismi, obsoleta e che come massimo di federalismo è riuscita a banalizzare l'idea sardista di una "camera delle nazionalità", progettando una "camera delle regioni". E a questa idea, forse per ragioni di buon vicinato con la sinistra italiana, anche settori del Psd'a si sono convinti. Parliamo di subalternità perché non c'è chi non veda in questa posizione il tentativo di omologare il Partito sardo al sistema politico in Sardegna nel quale, prima o poi, tutti i partiti diventeranno federalisti come tutti divennero autonomistici, tutti sono diventati ambientalisti.
Delle quattro posizioni, la più infantile è quella estremista. Perché è l'unica senza progetto, se non quello di raggiungere l'indipendenza. Per fare cosa, per governare come, per andare dove, sembrano essere dettagli di poca importanza. Minutalla, insomma, infantile e pericolosa. Ci sono alcune questioni a cui una posizione simile non può rispondere, se non riesumando i cadaveri di un paio di dottrine totalitarie.
E' davvero pensabile raggiungere l'indipendenza quando il Partito sardo avrà raggiunto, poniamo, il 51 % dei voti? E' pensabile costruire una società indipendente contro il volere o l'indifferenza del 49% dei sardi? E' pensabile, oggi, quando persino il PCUS tenta di liberarsi di un simile peso, pensare a uno stato che si identifichi con il Partito? Ed è pensabile progettare una simile mostruosità per una società come quella sarda che nei secoli non solo ha espresso tutto l’odio possibile verso il centralismo ma si è "costruita" secondo modelli comunitari, di etnie comunitarie? Sono solo alcune delle questioni che è corretto porsi prima che il popolo sardo riscopra il gusto di mandare a quel paese gente che vorrebbe liberarlo da oppressori per mettersi al loro posto. Tentazione che non ha neanche il pregio della novità, della primogenitura, visto che di liberatori/tiranni è piena la storia sarda. Dei resto, il fanatismo non è solo una pericolosa sciocchezza: costituisce un alibi perfetto per chi assume l'indipendenza come una bella utopia senza storia.
La formazione di queste tre tendenze, e delle posizioni politiche che esprimono, è il frutto, forse non desiderato ma certo inevitabile, della vaghezza della nostra iniziativa politica e culturale seguita al congresso di Porto Torres e della inadeguatezza di un nuovo gruppo dirigente tetragono al dibattito interno e incline al trasformismo. Nel 1981 (ma le basi furono gettate due anni prima a Oristano) furono preparati i tre grandi recipienti dell'indipendenza, del socialismo, del federalismo. Dentro ciascuno di essi, nel 1984 a Carbonia mettemmo tredici recipienti più piccoli. E poi basta. Sia i grandi sia i piccoli recipienti sono rimasti vuoti, arrugginiti da un pragmatismo scambiato per virtù politica anziché per quello che è, un morbo della politica; consunti dalla stagnazione.
Per la verità tentativi di affrontare le questioni furono fatti con Il Solco" nei suoi due anni di vita, ma vanamente. Per tutti un dato: su “Il Solco" hanno scritto, nei due anni, solo dodici membri dell'allora Comitato Centrale, quasi mai per affrontare questioni di linea politica e ideale. Se considerazioni generali da un simile dato è possibile trarre, queste vanno nella direzione di un sostanziale disinteresse del gruppo dirigente al dibattito e alla circolazione delle idee. In quel dato c'è comunque l'avviso di quel processo di stagnazione che neppure il XXII Congresso di Quartu riuscì a bloccare. Non vi riuscì per una serie di ragioni, le più importanti delle quali sono forse che in quella nostra assise si codificò la indifferenza di una strategia politica e ideale rispetto alla gestione del Partito e la fungibilità del gruppo dirigente e si sancì di fatto la confusione dei ruoli dei Partito. L'«investimento» che il Psd'a aveva fatto sul governo della regione, ha fatto mettere in second'ordine idealità e progettualità. E questo volano della confusione ha girato con una forza crescente, tanto grande che ancora oggi non si riesce a rallentarne la corsa.
Si diceva del frutto non desiderato ma inevitabile della mancata strutturazione delle linee guida della nostra politica: indipendenza, socialismo, federalismo. E' il frutto della stagnazione.
In otto anni, da Porto Torres ad oggi, non abbiamo ancora detto che cosa siano l'indipendenza, il socialismo, il federalismo che abbiamo proposto al popolo sardo come obiettivi ma anche come modi per spezzare la condizione di subalternità dei sardi. Questo non ha impedito ma anzi ha consentito che ad una linea ideale si sostituisse una linea materiale o, forse, più linee materiali che, inevitabilmente, hanno portato il Partito ad una indeterminatezza ideale in cui, sempre più, questi obiettivi si sono ideologizzati, posti fuori dalla portata della politica e della storia.
Si tratta oggi di trasformare indipendenza, socialismo e federalismo da ideologia in progetto. E si tratta, dunque, in primo luogo, di definire di che cosa parliamo, quale sia il senso della nostra scelta e della nostra proposta.
Un concetto chiaro a tutti è che indipendenza è rottura della dipendenza, che federalismo è un modo dei sardi di porsi come soggetti nella situazione di interdipendenza esistente nel mondo, che socialismo è la forma di "contratto sociale" che fra di loro i sardi dovrebbero stringere. Un concetto altrettanto chiaro a tutti è che questi obiettivi, in una società complessa com'è quella sarda, possono essere raggiunti solo con una battaglia politica e democratica, non insurrezionale.
Detto questo, che è comunque patrimonio acquisito, non abbiamo ancora detto molto e comunque niente che delimiti e definisca le questioni poste dal Partito con la sua opzione. Ideologicamente tutti capiscono che cosa voglia dire indipendenza e, con gradi più o meno approssimati, che cosa vogliono dire socialismo e federalismo. Ma se passiamo al progetto di una società sarda indipendente e socialista, al senso che bisogna darle e al consenso necessario per attuarla o quanto meno per disegnarla, le cose cambiano e ci troviamo nel centro della indeterminatezza.
Indipendenza per fare cosa? Per sostituire lo stato sardo allo stato italiano o per rinnovare nelle forme e nella sostanza l'organizzazione della società? Per spezzare ogni forma di centralismo, almeno nei limiti in cui ciò sia possibile senza cedere all'anarchismo, o per sostituire semplicemente uno stato sardo allo stato italiano?. Per consentire alla società sarda il libero esercizio del suo diritto all'autodeterminazione o per accentrare in Cagliari anziché in Roma il potere e le sue articolazioni?
In altre parole, noi pensiamo che l'indipendenza sia un processo che affonda le sue radici e la sua necessità nella civiltà della Sardegna oppure crediamo che questa idea, nata nella nostra testa illuministica, vada applicata alla società?
Sono questioni nate nel momento stesso della scelta indipendentista e che, in questa o in altra forma, noi stessi ci siamo posti immediatamente. A tali questioni non solo non abbiamo dato risposta, non le abbiamo esaminate. Quasi che i nodi di una proposta così rivoluzionaria potessero essere sciolti per noi dalla sua necessità storica.
O quasi che, lanciata la grande sfida, l'avessimo temuta e avessimo rinunciato a dotarci delle armi necessarie a sostenerla. Non si può spiegare altrimenti il fatto che, in otto anni, il Partito non sia stato coinvolto in un dibattito e in una riflessione sulle sue stesse proposte.
Vero è che il processo di omologazione del nostro Partito a quelli del sistema politico italiano ha comportato una indifferenza verso gli obiettivi del nostro progetto in questo come in altri ambiti. La distinzione tra i partiti, tra il nostro e gli altri, è sempre meno fondata sui valori, sugli scopi e sempre più sulla quantità del potere esercitato, facendo perdere così al Partito sardo una parte non piccola di quella forza ideale di attrazione che ne aveva caratterizzato la rinascita nei primi anni ottanta. L'omologazione - che per altro non è del tutto compiuta - ha portato settori importanti del Partito a schierarsi con la sinistra italiana intorno all'esaltazione di un fenomeno come il supposto aumento dell'occupazione che rappresenta, anche se la realtà dovesse essere quella annunciata, un dato di crescita economica senza sviluppo. 0 a mutuare dentro la nostra visione del mondo un concetto, 9a regione è lo stato in Sardegna" che fa parte di quella cianfrusaglia ideologica della sinistra italiana in Sardegna che considera lo "stato nazionale unitario" un valore e non quello che è, un reperto ottocentesco.
Un ritorno del Partito alla progettualità e alla finalizzazione della sua azione politica è necessario e urgente. Battaglie come quelle per lo statuto e per la flotta sarda (annegata ormai nel compromesso la battaglia per la zona franca) o come quella per la negoziazione di un vero patto costituzionale sulla base del "Pacchetto autonomistico" rappresentano sì un ritorno alla progettualità, ma siamo ancora lontani da un ritorno alle finalità dell'azione e della elaborazione, rappresentando il governo non più uno strumento per intervenire nella e a favore della società ma, spesso, un fine buono in sé e per sé.
Se consideriamo la finalità come la cima di una scala e i progetti come gradini, è difficile vedere dove, a quale altezza e con quale coerenza si situino i gradini-progetti, né è legittimo dire che tanto saranno essi a trovarsi una collocazione.
Perché progettualità e finalità siano un tuttuno nella teoria sardista, in quella rivoluzione culturale che dovrà portare a umanesimo sardista, dobbiamo necessariamente definire quale sia la finalità, per che cosa combattiamo, quale visione della società informa la proposta che facciamo al popolo sardo.
Che sia una visione indipendenti s tic a, socialista e federalista è scontato. Tentiamo di dare allora significato, immaginando una rete i cui nodi siano il punto di contatto dei tre elementi della nostra strategia e nella quale raccogliere lo sciame di progetti che saremo capaci di fare, proporre e realizzare. Intanto è e deve essere naturale che tutti e tre gli elementi della nostra teoria (indipendenza, socialismo, federalismo) e i risultati della nostra progettualità devono trovare alimento nella nostra cultura e civiltà, senza per questo rinunciare a tutti quegli apporti che il pensiero moderno è capace di dare in termini di nuovo umanesimo, senza violentare il senso della civiltà sarda fondata sul comunitarismo, sul solidarismo e sull'autonomia delle comunità. Per fare un esempio di questi tempi, nessun impulso alla modernizzazione (i cui parametri, per altro, sono stabiliti in società diverse e a volte speculari rispetto alla nostra) può indurre il Partito a favorire una politica dell'ambiente basata sull'esproprio dei terreni comunitari e quindi sull'esproprio di una parte essenziale dell'identità etnica delle comunità. Mi riferisco, per chiarezza, al sistema dei parchi e delle riserve e alle relative chiusure.
Ecco che, così, l'indipendenza che noi vogliamo non può essere tesa alla creazione di una struttura che sostituisca il dominio dello stato sardo a quello dello stato italiano. Opportunamente, ma in maniera necessariamente timida, la proposta di nuovo statuto d'autonomia, pone al centro del sistema autonomistico nazionale il comune. E, ancora opportunamente, la struttura di governo della nazione sarda è una struttura aperta a una articolazione del potere diversa da quella conosciuta, pur avendo (né può essere altrimenti visto che si tratta dello statuto di una autonomia e non la costituzione di una indipendenza) per riferimento lo stato al quale continuiamo ad appartenere. Con tutte le pastoie che ne conseguono. In poche parole si disegna, per l'autonomia di una regione, quel che andrebbe disegnato (con poteri progettuali evidentemente superiori) per la indipendenza della nazione: ma indipendenza con due facce, una verso l'esterno e una verso l’interno.
La Repubblica sarda indipendente, in questa tesi che proponiamo alla discussione, non sarà organizzata secondo moduli statuali. Non sarà un nuovo stato nazionale per definizione centralista, ma un sistema orizzontale di poteri, coordinati da un governo nazionale di tipo federale per gli aspetti che abbiano interesse generale: trasporti, ambiente, sviluppo economico, etc. Conseguentemente le città non saranno il luogo geometrico dei potere e della sua struttura burocratica, ma un luogo restituito alla produzione di servizi avanzati e comunque di carattere nazionale che sarebbe dispendioso ed inutile ripetere nelle singole comunità. Penso ai servizi delle comunicazioni, delle banche dati, della ricerca di mercato per la produzione nazionale e per i suoi segmenti anche differenziati; penso alle grandi istituzioni culturali che pure non potranno non avere aspetti di decentramento funzionali alla crescita culturale della articolazione comunitaria; penso all'Università che avrà nelle città sarde la sede delle funzioni di coordinamento delle sue articolazioni diffuse nel territorio nazionale.
Questa visione è funzionale a un decentramento o, ma è lo stesso, a una policentricità dei poteri; ciò vuol dire che nelle nostre capacità di progettare lo sviluppo della società sarda ci deve essere quella di far sì che i poteri, politico, economico, culturale, finanziario, non abbiano alcun interesse alla contiguità spaziale. A questo si può arrivare attraverso la trasformazione del governo in un esecutivo non ministeriale (o assessoriale, che è lo stesso) ma collegiale nel senso più pregnante del termine, un gruppo di uomini politici non tecnici ma "innovatori politici”, non specializzati ma generalisti informati; un gruppo, cioè, capace di coordinare spinte, iniziative, progetti che vengano da una società che - lo dimostrano le purtroppo frustrate abilità inventive di decine di migliaia di lavoratori - ha già oggi un alto grado di progettualità. E' un governo insomma che dirige la società collettivamente e non la gestisce settorialmente e individualmente.
Sembra un paradosso ma non lo è: una società complessa come anche quella sarda è, non ha bisogno di governanti specialisti ciascuno in un settore o in un sottosettore, ma di politici capaci di guidare le spinte all'autogoverno provenienti dalla società e di assicurarne l'effettivo esercizio. Come, oltre che attraverso il governo? Attraverso un parlamento che riunisca in sè la capacità di rappresentare sì le forze politiche operanti in Sardegna ma anche le regioni storiche dell'isola così come esse si autoidentificano.
Il meccanismo attraverso cui questo si può ottenere è quello dei collegi uninominali coincidenti con le regioni storiche stesse e da cui, indipendentemente dalla loro consistenza demografica, provenga almeno un deputato. Un processo di questo genere presuppone, naturalmente, che si gettino a mare le tentazioni sperimentate per esempio con le comunità montane - di disegnare sulla carta le regioni e che si premino le volontà di aggregazione delle popolazioni basate su antiche e nuove ragioni storiche, culturali, economiche. A un parlamento così fatto, per il suo carattere quasi federale, spetterà fare leggi di orientamento, leggi quadro in cui il carattere nazionale di una norma, di un provvedimento non contrasti ma anzi esalti l'autogoverno delle comunità nel loro aspetto unitario o in quello del l'associazione regionale o per interessi comuni. Le leggi prescrittive, associate a quelle sanzioni senza le quali una legge non può essere considerata tale, sarebbero così sottoposte al doppio vaglio delle parti politiche e della comunanza di interessi nazionali.
Il disegno che così si va delineando non rimanda tutto al " dopo- indipendenza" e, anzi, se esso ha credibilità, alcuni degli elementi (decentramento dei poteri, collegialità di governo, elezioni del Consiglio regionale per collegi uninominali per quanto possibile coincidenti con le regioni storiche) possono essere sperimentati fin da ora, restando inteso che l'innovazione di questo progetto potrà dispiegare tutta la sua positività solo in un regime di indipendenza. Vogliamo dire che una cultura dell'indipendenza e del federalismo può essere acquisita da subito, entro questo progetto, anche se si tratta di una cultura dell'indipendenza e del federalismo proiettata esclusivamente verso l'interno.
Va da sè che questa rete è capace di inglobare lo sciame di progetti che saremo capaci di fare e di sollecitare solo se questa progettualità a tale rete tenda. In altre parole, sarebbe inutile, se non del tutto controproducente, come purtroppo spesso è accaduto e accade (penso alla legge su parchi, per esempio), agire fuori di un quadro di riferimento che abbia al centro proprio quegli elementi che fanno dell'indipendenza una necessità della società sarda. Qualunque cosa nasca fuori, o peggio contro, la civiltà sarda, qualunque cosa si ponga l'obiettivo non di trasformare, di modernizzare la civiltà sarda dall'interno ma di cambiarla violentemente non solo ha possibilità di successi solo momentanei, ma porta all'imbarbarimento della società stessa e della vita di relazione al suo interno. Come dimostrano, per esempio, le violenze contro gli amministratori delle zone interne. O come dimostrano gli episodi tragici di autofagia fra sardi, vere e proprie stragi incrociate spesso effetto di moduli comportamentali indotti o dettati dall'esterno o di vere e proprie violenze fatte sul filo dell'imposizione di norme estranee a un senso del giusto che ha radici profonde nella storia dei sardi.
Si pone qui un altro problema, certo di difficile soluzione e, a volte, persino di complessa definizione. E' un problema che così si può enunciare: "E' possibile non solo l'indipendenza ma anche la semplice affermazione della propria identità nazionale senza porre la questione di una giustizia autonoma? Ed è possibile una giustizia autonoma che non fondi le sue ragioni sulla e nella società che la esprima, così come è successo e succede in qualsiasi società? Dobbiamo rassegnarci ad essere amministrati, noi nazione sarda sviluppatasi intorno ad una diversità etnica e culturale, da una giustizia estranea che solo casualmente è italiana, visto che poteva essere francese, inglese o austriaca”.
La risposta è evidentemente no. Ma da questa negazione all'affermazione credibile di un progetto, il passo è troppo lungo perché si possa andare, al momento, al di là dell'enunciazione del problema.
La società sarda tradizionale ha conosciuto e risolto con un sistema giuridico autonomo, naturale ma anche colto, i suoi conflitti interni. Ma non conosceva e, in quanto della società tradizionale permane, non ha acquisito le forme di conflitto proprie di una società complessa: concussione, corruzione, peculato e così via delinquendo.
“Lezes medas, pòpulu mischinu" è la considerazione nata con la complessificazione delle non-ne e dei delitti.
Problema complicato, dunque, ma non per questo eludibile. Ed eluso solo perchè il Partito sardo, dal gruppo dirigente delle origini al gruppo dirigente postbellico a gran parte del gruppo dirigente attuale, non ha fondato le sue ragioni autonomistiche prima e indipendentiste poi su reali basamenti etnici e nazionali, ma su basi istituzionali ed economiciste.
E questo, anche questo, ci porta alla necessità di una rivisitazione critica del nostro passato, alla urgenza di sottopporre la storia del Partito sardo e della formazione del suo gruppo dirigente ad una corretta ma serrata critica storica per trarre da qui forza, legittimazione e fondamento per quella rifondazione del Partito che, pena la sua marginalizzazione, è quanto mai urgente.
Questo documento non ha, né potrebbe avere, la pretesa di condurre compiutamente questa rivisitazione critica ma ha, questo sì, la volontà dì proporre alcune delle linee lungo le quali pensiamo sia necessario procedere nella rilettura della nostra storia. Ciò è necessario fare certo non per rinnegare o per abiurare, ma per capire dove poggiano le ragioni della nostra diversità e originalità e da dove sorgono le ragioni di una costante tendenza alla omologazione. E'questa una contraddizione che il Partito si porta dietro dalla nascita e che ha condotto in diverse occasioni a crisi di grosse dimensioni. Risolvere, o almeno capire, i nodi di questa contraddizione è un compito che un gruppo dirigente deve porsi se tale vuol essere e non un comitato di gestione.
Vanno innanzitutto rifiutate le definizioni che delle anime del Partito sardo ha dato e da la storiografia della sinistra statalista. Per essa due erano fondamentalmente le anime del sardismo sia nel primo sia nel secondo dopoguerra: l'anima progressista incarnata da Lussu e dai futuri scissionisti del 1948 e l'anima moderata incarnata da Bellieni, Puggioni, Oggiano.
Secondo tali storiografi il progressivismo derivava dalla visione "nazionale" (nel senso italiano, va da sé), e il moderatismo dalla propensione al "nazionalismo" regionale. Essi ragionano secondo i parametri di progresso, conservazione, sinistra, destra propri della cultura e della politica italiana senza rapportare i loro giudizi alla condizione della Sardegna e agli interessi specifici dei sardi.
E' progressista, di sinistra ed "europea" l'adesione di Lussu al Fronte popolare del 1948; è conservatrice, centrista e provinciale la scelta del direttorio sardista di non aderirvi e di "combattere contro tutte le altre liste nessuna esclusa"; è titubante la posizione di Mastino e di Titino Melis che prima si dicono propensi ad aderire e che poi non lo fanno dietro la spinta della base. Tutto insomma è tarato sul centro, ed è dalla omologazione degli atteggiamenti rispetto a quelli tenuti dai partiti in Italia che questa storiografia (la quale è, però, purtroppo la sola che si occupi di sardismo) mutua giudizi sul gruppo dirigente del Partito sardo.
Va detto, ora, con estrema chiarezza che questo dell'adeguamento è un pericolo ancora attuale e che i giudizi debbono essere drasticamente rovesciati. E se proprio vanno fatte graduatorie di progressivismo e di conservazione, tra Lussu e Bellieni il vero conservatore è il primo, non il secondo. Conservatore, va da sé, non in rapporto alla politica e alla cultura politica italiana di sinistra, che anzi lo incensa, ma in rapporto alla civiltà sarda la quale, per l'opera svolta anche da Lussu contro la questione nazionale sarda, si è avviluppata per decenni intorno a processi di omologazione o, peggio, di omogeneizzazione che hanno rischiato di condurre la Sardegna a una totale perdita di identità.
Bellieni (e gran parte del primo gruppo dirigente del Psd'a) non aveva chiaro il fondamento etnico e nazionale della questione sarda e anzi riteneva, in questo in sintonia con Lussu, che essa fosse parte di una più generale questione meridionale e che scopo dell'azione fosse di rifondare la politica italiana attraverso le autonomie. Ma conservò sempre quello che gli storiografi statalisti di sinistra definiscono Il provincialismo" e che invece era una coscienza anticolonialista, magari economicista, magari "nazionalregionalista", magari non ben motivata, magari basata sul nazionalismo volgare del "a mare i continentali", ma certa e convinta.
Si pone qui una questione, quella della contraddizione prirnaria", di cui forse era difficile avere coscienza nel terzo decennio di questo secolo ma che ha segnato la vita successiva del Partito. La questione, cioè, se il nodo fondamentale della Sardegna fosse nazionale (con tutto ciò che questo significa in termini di unicità di lingua, società, civiltà, cultura, sistema produttivo, dipendenza coloniale, etc) o semplicemente economico (sottosviluppo, disuguaglianza dalle "altre" regioni, mancata crescita) e sociale (disparità culturale, arretratezza, etc). Se cioè la lotta per l'autonomia dovesse avere i caratteri nazionali della rivendicazione dell'indipendenza o quelli di un processo tutto interno allo stato che si risolvesse in un riequilibrio tra zone forti e zone povere e nel decentramento di competenze.
In questo nodo, irrisolto fino agli anni Ottanta, sta il nucleo della nostra vicenda di Partito. E da questa contraddizione di prospettive nascono anche le attuali propensioni delle diverse correnti di pensiero all'interno del Psd'a che tuttavia, a differenza di quanto avveniva in passato, non riescono a confrontarsi in un dibattito chiarificatore e restano nell'ombra. Con il risultato che esiste sì, oggi, una polarizzazione al nostro interno, ma questa avviene sui terreni, che un Partito moderno deve rifiutare, del personalismo, della influenza cantonale, del notabilato e non sul terreno delle posizioni e dei progetti politici.
Così che la selezione dei gruppi dirigenti si riduce o a una lotteria del successo o si trasforma in una nomina da parte di chi detiene poteri cantonali e locali. E non è, come dovrebbe essere, il frutto di un dibattito politico in cui le posizioni camminino con le gambe di chi se ne fa portavoce. Vogliamo dire che la qualità dei gruppi dirigenti complessivamente peggiora, perché questo tipo di selezione incoraggia il trasformismo, mortifica le competenze, favorisce l'emergere della mediocrità, la quale, proprio perché tale, non costituisce alcun pericolo per chi ha o ritiene di avere il dominio su agglomerati del Partito o sul Partito intero.
Quando nasceva e si affermava il Psd'a, in tutta Europa la questione delle nazionalità era all'ordine del giorno e, dunque, non è credibile pensare che il gruppo dirigente del Psd'a ne fosse all'oscuro. Del resto, Lussu aveva coscienza della questione e, affermando che la Sardegna era una nazione mancata, in sostanza negava il problema. Il fatto è che i fondatori del Partito avevano, semplicemente, una prospettiva diversa che appare chiara dalla lettura dei testi di Bellieni e di Lussu (e, naturalmente, degli altri dirigenti sardisti come Puggioni, Oggiano, Mastino). Una prospettiva che è ben definita nel secondo articolo dello statuto approvato nell'aprile 1921:11 Partito si propone di promuovere la rinascita della Sardegna ... di ottenere l'autonomia politica, economica e amministrativa nell'unità della Nazione italiana, di risanarne il costume politico chiamando rappresentanti delle classi operaie ed agricole a sostenere nelle amministrazioni i loro interessi che sono gli interessi vitali dell'Isola... Il Partito sardo d'azione è il primo nucleo di un più vasto movimento autonomista che dovrà sorgere in tutta Italia allo scopo di dare allo stato un più sapiente ordinamento in corrispondenza alle esigenze spirituali, culturali, economiche e geografichedell'intero popolo italiano".
Il Psd'a dunque nasce come sezione sarda di un partito che non vedrà mai la luce e con tre esigenze che sono interne alla "Nazione italiana" alla quale c'è coscienza e volontà di appartenere: a) conquistare un regime di autonomia vista come limitazione dell'ingerenza dello stato; b) contribuire a risanare il costume politico dell'Italia; e) partecipare ad una migliore organizzazione dello stato in vista di un soddisfacimento di esigenze, quelle culturali comprese, che si ritengono comuni a U'intero popolo italiano" del quale i sardi sono una parte indistinta. E' una prospettiva, questa, che rimane nello statuto del Partito per 47 anni, fino al 1968, ma che non poteva non lasciare frutti duraturi anche per il seguito: si pensi solo che la miniscissione del Movimento autonomista popolare sardo di Bruno Fadda avverrà agli inizi del 1975.
E' una teoria, quella del primo statuto che, come già abbiamo detto, è rinchiusa in un ambito istituzionale ed economicista e lontana da problematiche di carattere etnico. Nella pratica politica e nella elaborazione successiva, questa visione porta ad atteggiamenti da un lato di normalizzazione del sovversivismo antistatuale proprio dei sardi e dall'altro di rivendicazionismo di tipo anticolonialista, ancora una volta solo economicista e non nazionalista o etnico. Non esistendo o essendo rifiutato il concetto di stato come espressione di una nazione dominante e delle sue classi dominanti, il rapporto tra Sardegna (che in quell'ottica sardista è Meridione) e Continente è vissuto come rapporto di sfruttamento economico e basta, come disuguaglianza dovuta all'accapparramento di beni e risorse al nord.
Da qui nascono i rifiuti per tutto ciò che sostiene questo sfruttamento o che si ritiene possa sostenerlo, per cui si ha il paradosso di un partito che diventa sempre più anticolonialista e allo stesso tempo sempre più sostenitore dello stato nazionale (anche se, a volte, in momenti di particolare irritazione persino Bellieni si lascia andare a invettive separatiste). Tutte le ideologie esterne vanno rifiutate. Bellieni lo fa con il socialismo non in quanto teoria liberatrice; anzi il programma scritto per il futuro partito ha forti contenuti socialisti persino estremisti (viene proposta la "decimazione dei grossi capitali", per esempio). E del socialismo scrive che esso ha "un serio contenuto per la formidabile dottrina marxista che fascia le reni al partito, dottrina che è l'elemento animatore di ogni sincero movimento di rinnovarnemo',. Ma Bellieni pensa che si tratti di una di quelle formule "che non hanno significato nell'ambiente politico" della Sardegna. Il partito socialista è, infatti, "risoluto sostenitore degli interessi degli operai organizzati, che sono in antitesi con i nostri”.
Il progetto di partito sardo è quello di una organizzazione "interprete delle aspirazioni di una regione proletaria che vuole mettersi alla pari delle regioni più ricche d'Italia" e di oppositrice "alla brutale sopraffazione economica dell'Italia superiore". Lo stesso atteggiamento porterà Bellieni a polemizzare in maniera molto aspra con Lussu, accusato di essere succube del Partito d'azione.
In conclusione, è la mancanza di una considerazione della Sardegna come nazione che mette i primi sardisti di fronte al dilemma di fare come Lussu che era disponibile alla importazione di dottrine e di politiche "nazionali" o di fare come Bellieni che è invece decisamente contrario. Nell'uno c'è la volontà di mettere la Sardegna nel circolo della politica italiana (scriverà a Renzo Laconi: "Niente vera lotta politica, niente lotta di classe, fino alla nostra prima organizzazione degli operai e dei contadini: dato che segna l'inizio della nostra vera storia-"). Nell'altro una solida diffidenza verso tutto ciò che, a torto naturalmente, pensava impossibile tradurre in sardo.
E', o dovrebbe essere, chiaro che i due grandi dirigenti sardisti sono qui assunti come espressione simbolica di due modi di pensare al Partito e alla società sarda. Nella realtà, intorno ad essi di raggruppa, o si divide tutto il gruppo dirigente sardista. Quanto alla base, sia nel primo sia nel secondo dopoguerra, essa segue più il carisma dell'uno o dell'altro piuttosto che l'una o l'altra concezione politica. Racconta Lussu che subito dopo la guerra, i tre quarti del Partito erano Il separatistC, ma questo non impedì che la riorganizzazione del Psd'a avvenisse intorno a personalità delle quali gli iscritti tendevano ad essere clientes indipendentemente dal fatto che, in larghissima parte, esse avessero intendimenti tuttaltro che separatisti".
Né impedì che il gruppo dirigente, anziché organizzare politicamente questo sentimento, anzichè, cioè, trasformare il diffuso sentimento di separatezza (e dunque di diversità) in coscienza nazionale di identità, facesse di tutto per cambiarlo in adesione allo stato. Uno stato naturalmente diverso da quello conosciuto, uno stato decentrato e articolato in regioni, ma pur sempre stato nazionale e unitario. Si trattava di qualcosa di molto più avanzato rispetto al piatto centralismo dei partiti italiani appena ricostituitisi in Sardegna, ma niente che - come la storia ha poi dimostrato - non potesse essere recuperato sia attraverso operazioni di trasformismo sia attraverso sinceri autoconvincimenti.
Da che cosa nascesse questo atteggiamento non è difficile capire ove si pensi al terrore dell'«isolamento» che portava gli uni a ricercare dottrine sociali fuori del sardismo e gli altri a cercare alleanze politiche regionali nel mezzogiorno d'Italia. Una paura dell'«isolamento» che condurrà fra l'altro il Partito ad alleanze elettorali, che oggi appaiono certamente singolari, con l'olivettiana "Corminità" o con il Partito repubblicano, allora come oggi autonomista ma ferocemente statalista o con il Partito comunista che non ha mai nascosto il suo statalismo. Questa visione del rapporto Sardegna/esterno ha segnato e, in qualche modo segna ancora, la vita dei gruppi dirigenti del Psd'a e denuncia la loro debolezza e la loro inadeguatezza nell'essere pesci nell'acqua della civiltà sarda.
La non scrittura della cultura sarda, la complessità di trasmissione e comunicazione universale (nell'universo sardo. s'intende) e la difficoltà di generalizzazione "colta" dei suoi elementi ha fatto sì che si scambiasse per «isolamento» ciò che era, ed è, semplicemente incapacità di trarre dalla nostra civiltà i fondamenti e le legittimazioni di una dottrina politica originale ed autonoma. A questo si accompagna, a volte, una riduzione a folklore della cultura nazionale. E dal folklore possono nascere spettacoli, non progetti.
Eppure solo una convinta e attenta immersione nella cultura e nella civiltà della nostra terra può fondare una teoria e una pratica politica adeguata alle necessità della Sardegna. E può sottrarre il Partito sardo a un destino mortale di omologazione e, dunque, di perdita di identità/diversità.