Nel 2002, quando dalla provincia brianzola mi trasferii in città per l’università, Milano mi sembrava una metropoli tentacolare. “Milano è un paesone” mi disse invece un giorno l’amabile banconista del California Bakery all’angolo di Corso Magenta, lei che era di San Paolo del Brasile.

Aveva ragione, ovviamente, come dimostra anche il risalto sulla cronaca locale del fallimento della catena di pasticcerie in stile USA, che si trova ormai in ogni angolo della città: moltissimi gli articoli, e sono pochi i cronisti ad aver resistito alla tentazione di bollare la faccenda come “amara” (eroi).

Ma prima, i fatti: come riporta Repubblica Milano, “la società 'madre' è stata dichiarata fallita dal tribunale di Milano lo scorso 17 dicembre e adesso anche la società che ha in carico i ristoranti (la C.B. Italy srl) e quindi i 150 dipendenti avrebbe chiesto di poter accedere al concordato preventivo, la procedura per evitare il fallimento e tentare la strada del risanamento”.

Non quel che si dice un fulmine a ciel sereno: da alcuni anni gli store di California Bakery avevano imboccato una parabola discendente vistosa. Nel corso della mia ultima visita alla sede di viale Premuda (dove avevo bevuto un tè, aspettando che si facesse l’ora di un appuntamento) era inevitabile notare il generale clima di dismissione: il bagno con la porta malfunzionante, la lunga attesa nel locale semivuoto prima che qualcuno venisse a prendere l’ordine. Lo scontrino era però oneroso come ai tempi d’oro, con l’aggiunta dell’assurdo orpello del coperto: 1,50€ per una brocca d’acqua non richiesta e rimasta intatta (va bene che adesso siamo tutti dei forzati dell’idratazione ma sorbire tè accompagnandolo con acqua è per quei matti con l’app che emette un suono ogni venti minuti per intimare di bere).

Nata nel 1995 dall’iniziativa dell’imprenditore Marco D’Arrigo, che aveva rilevato da una signora americana una piccola pasticceria in Corso Concordia (il nome era già quello), California Bakery ha segnato a Milano il decennio cominciato a metà degli anni Duemila, intrecciandosi a una serie di sottotrame cittadine. La più ovvia è la popolarità delle bakery come locali, e di cheesecake, pie e cookies; ma - più radicalmente - è stato l’emergere di un genere, e in ultimo del “food” come “scena” (lo so, lo so).

Le California Bakery erano la destinazione prediletta in città: al brunch domenicale - che non fu mai memorabile - la prenotazione era indispensabile in ogni fascia oraria, nonostante il costo.

I prezzi, appunto: gli scontrini di California Bakery sono sempre stati molto chiacchierati, materia per i flame di quell’epoca di Internet in cui i blog erano l’ultima novità e i social media stavano emergendo. A ribattere punto per punto c’era sempre in prima linea Caroline Denti, socia (prima) e moglie (poi) di Marco, reduce da una carriera in pubblicità: a ognuno giustificava i costi in relazione alla qualità - e bisogna dire che tutti i collaboratori che abbiamo interpellato per questo pezzo concordano sull’alto livello delle materie prime, almeno fino all’uscita di Caroline.

La comunicazione era, in questa fase, un aspetto centrale: forse la prima volta in cui lo storytelling (ante-litteram, all’epoca) definiva così prepotentemente una piccola azienda. Come racconta Myriam Sabolla, consulente di comunicazione di California Bakery fino al 2015: “Per me è stata un’esperienza molto formativa, perché la comunicazione era considerata un elemento chiave. C’era tanta voglia di fare e di innovare, un ambiente molto proattivo e molto creativo”. Oggi che ogni ristorante in apertura arruola l’ufficio stampa prima del lavapiatti sembra ovvio, ma all’epoca era una rarità: “Capitava di metterci una giornata intera a scrivere il copy di un tovagliolino” continua Myriam.

Nel team di comunicazione sono passati alcuni dei migliori giovani professionisti di Milano: nel 2013, Alessio Baù - che due anni prima aveva seguito i social media per la trionfale campagna elettorale di Giuliano Pisapia, passato da outsider a sindaco nel giro di pochi mesi - scrisse per Guido Tommasi Editore un libro che raccoglieva le ricette più iconiche della catena: si chiama “California Bakery - i dolci dell’America”, e rileggerlo oggi, alla luce del fallimento, è strano (okay, stavo per dire “amaro”): ricette a parte, è un libro che racconta un storia di successo imprenditoriale che appare, in questa narrazione, come inevitabile e destinato solo a crescere. La fondatrice della California Bakery originale, per dire, “aggiustava il ripieno delle apple pie con una pinzetta”, cosa che nel racconto dimostra la maniacale attenzione al prodotto finale (la mia diagnosi è invece disturbo ossessivo-compulsivo, ma del resto che ne so io).

Poi è arrivata la concorrenza: rappresentata - più che dalle mille hamburgerie gourmet - piuttosto da una certa idea di locale, il posticino un po’ lezioso dove passare del tempo, bere un caffè, magari lavorare: un luogo accogliente, insomma. Senza tirare in ballo Starbucks, negli ultimi anni sono in molti ad aver replicato questa idea, spesso facendo meglio (come Pavè, solo per fare un esempio). Non sta però forse qui il cuore del problema.

Il punto di non ritorno è stata l’apertura di troppi punti vendita in pochissimo tempo, che hanno trasformato una formula di successo in un gigante con i piedi d’argilla.

Nel 2015 la società cambiò assetto per gestire questa accelerazione, con l’ingresso di una manager che veniva dalla GDO, mentre Caroline fece un passo indietro: cambiò il management nei negozi, cambiò lo stile di marketing, ma soprattutto calò bruscamente la qualità. “Made with love”, il motto della società, divenne lettera morta come il blog con lo stesso nome, mai più aggiornato dal 2016.

Per tirare fuori un’altra espressione americana, la parabola di California Bakery sembra un “cautionary tale”, una favola nera fatta per mettere in guardia dalle recenti ambizioni milanesi: quando apre un locale di successo, si è consolidata la tendenza a clonarlo nel minor tempo possibile.

Forse si pensa troppo poco alla volubilità dei milanesi, sempre più guidati dalle tendenze internazionali; ma forse - ed è ancora più cruciale - non si considerano i limiti alla scalabilità di un progetto di ristorazione fatto, se non proprio “con amore”, con saggezza.

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