Ugo La Malfa (Palermo, 1903 - Roma, 1979)
di Giovanni Spadolini – In “Nuova Antologia”, fasc. 2150, aprile-giugno 1984, Le Monnier, Firenze, pp. 416-423.
Ecco il testo della relazione su Ugo La Malfa: il partito d’azione e il partito della democrazia tenuta da Giovanni Spadolini al convegno storico sul partito d’azione a Bologna, il 24 marzo 1984, due giorni prima del quinto anniversario della scomparsa dello statista repubblicano.
Cari amici,
ho letto con commozione la relazione che l’amico Leo Valiani mi ha mandato in anteprima sia per questo convegno sia per la rivista che da molti anni ci accomuna, nel ricordo di un filone secolare della storia italiana, la «Nuova Antologia».
Mi riferisco soprattutto alla parte in cui Valiani racconta i contrasti per la denominazione del nuovo partito, l’unica creatura originale nata dal travaglio dell’antifascismo e della Resistenza, sia pure sul tronco di passate e complesse esperienze: dalla «Rivoluzione liberale» di Piero Gobetti all’Unione democratica nazionale di Giovanni Amendola al movimento di «Giustizia e Libertà» dei fratelli Rosselli.
Fu Ugo La Malfa a proporre di chiamare il partito d’azione «partito democratico italiano». Quarant’anni dopo, io sono arrivato alla formula del «partito della democrazia», riprendendola da un altro azionista, Luigi Salvatorelli, che l’ha teorizzata sulla «Nuova Europa» del luglio 1945 (anche la «Nuova Europa» momento fondamentale dell’azionismo culturale, quasi a coincidere con la vita del partito, in quanto la sua fine coincide con la diaspora dell’azionismo).
La prefigurazione lamalfiana mi ha profondamente toccato. Ho conosciuto tanto bene Mario Vinciguerra da sapere, anche per testimonianza diretta, la genesi della parola «partito d’azione». Il grande amico scomparso è stato mio inalterabile collaboratore nel giornale di questa città nei primi dieci anni della mia direzione. Mi pare di ricordare che proprio sul «Carlino» ha ripercorso, anche in un articolo, la genesi del termine «azionismo», la ragione di quella vibrazione e cadenza risorgimentale di un termine che pure suscitava riserve in Croce, che pure suscitava dubbi e perplessità anche in certi seguaci del partito, quel termine partito d’azione che – disse taluno – non fissava sufficientemente i confini rispetto all’attivismo contemporaneo e alla stessa filosofia dell’azione. Termine intriso di fedeltà risorgimentale, immedesimato col mito repubblicano dell’unità anche nei suoi adattamenti alla ragion di Stato cavouriana. Termine suggestivo che poneva l’istanza di un secondo risorgimento nella realtà viva, come proiezione diretta della resistenza nella lotta politica.
La Malfa chiamava tutti all’esigenza scabra e severa della rinascita e della ricostruzione democratica, con quell’altra sua formula, meno evocatrice, meno suggestiva, meno magica ma tanto più – lasciatemelo dire – moderna. Immaginare il partito democratico italiano agli inizi del ’42 era immaginare un po’ lo sviluppo a zig-zag, tormentoso, complesso, contraddittorio, della vita italiana fino agli stessi svolgimenti, per tanti aspetti indecifrabili, di oggi. Era collocare la democrazia laica in un pendant, operoso e reale, non retorico e verbalistico, con la democrazia cristiana che stava rinascendo con quel nome, pressappoco negli stessi mesi, dopo che un po’ i veti vaticani e un po’ le già note diffidenze di De Gasperi si opponevano all’antica espressione sturziana, partito popolare, troppo logorata per un verso dalla lotta contro la dittatura e per l’altro dalle compromissioni col fascismo. Entrambi gli elementi, del tutto contraddittori, operarono per la liquidazione di una bandiera nel complesso nobile, qual era stato il popolarismo.
Partito democratico italiano: il senso di una democrazia che insieme riassorbiva l’Unione democratica nazionale di Amendola e quella parte di Giustizia e Libertà che stava nel cuore di La Malfa e che non era evidentemente tutta la «Giustizia e Libertà» col socialismo liberale. Un’esperienza in cui molto ha pesato la riflessione sulla letteratura anglosassone, sul concetto rooseveltiano di democrazia, su quel fascino del New Deal cui rimane per tanta parte ancorato il disegno di politica dei redditi e di governo dell’economia che ispirerà l’«Italia libera» e, attraverso l’«Italia libera», il gruppo di La Malfa, e poi la «Concentrazione democratica repubblicana» e poi il partito repubblicano nel suo storico innesto con l’azionismo, simboleggiato dallo stesso La Malfa.
È stato un intellettuale che conosce come pochi la parabola azionista, è stato l’amico Norberto Bobbio, a riproporre di recente questo appassionante tema di dibattito, non a caso riecheggiato nel corso di questo convegno bolognese.
Cosa impedì al partito d’azione – ecco il quesito sollevato da Bobbio nell’ampia intervista rilasciata all’amico Paolo Bonetti per la «Voce repubblicana» - di diventare il punto di riferimento di una «terza forza» non socialista, non classista, non confessionale, integralmente democratica qual era nei progetti di Ugo La Malfa e, con lui, di quanti non vedevano spazio per una terza «eresia» socialista, né credevano che un nuovo tronco potesse svilupparsi sull’albero del socialismo italiano? E perché soltanto oggi, trentotto anni dopo quello sfortunato tentativo spezzato dalla scissione del febbraio ’46, si torna a parlare in termini politici di «partito della democrazia», di «quel partito democratico italiano»?
Ecco la risposta di Noberto Bobbio: «la base sociale che sorregge i partiti intermedi oggi c’è, si identifica col PRI, ma allora non c’era. Il partito d’azione non era radicato fra la gente, era un partito di intellettuali, senza una vera base sociale». E lo era non certo per le ragioni che indicava Giorgio Amendola, il combattente comunista figlio del fondatore dell’Unione democratica nazionale, quando accusava gli uomini del partito d’azione di mancare dell’umiltà necessaria per conquistare il consenso delle masse.
L’umiltà, e l’orgoglio, in questo caso non c’entra. La verità, per Bobbio come per noi, è un’altra. Solo in questo trentacinquennio – cito ancora dall’intervista alla «Voce repubblicana» - si è registrata quella trasformazione del tessuto sociale e culturale italiano che non si era verificata ancora ai tempi del partito d’azione o ai tempi degli appelli di La Malfa per la costituzione di una grande «terza forza». Tema di nuova e profonda meditazione.
È la trasformazione che coincide con l’emergere impetuoso di nuovi ceti – Colletti parlerebbe di «classe non classe» - che rompe tutte le tradizionali dicotomie di stampo marxista fondate sulla contrapposizione fra borghesia e proletariato, fra padroni e operai (nonostante tutti i tentativi cui assistiamo di riproporre un contrasto che appartiene ad altre stagioni della lotta sociale in Italia), che fa largo ad un’Italia tecnica, professionale, più adulta e matura di quella sopravvissuta ai guasti morali e materiali della guerra.
Fin dagli anni della battaglia azionista, Ugo La Malfa aveva ben chiaro che l’evoluzione sociale del paese si sarebbe incanalata lungo questa direttrice, che il panorama civile della Repubblica sarebbe cambiato di pari passo con l’avanzata di un ceto medio dai connotati nuovi, che nell’immediato secondo dopoguerra ancora non c’era, ma di cui La Malfa avvertiva, con sensibilità rabdomantica, il passo sempre più rapido e incalzante. In questa previsione egli era presbite: su questo non c’è dubbio. Ma a tanti anni di distanza, e di fronte agli sviluppi della società nazionale, possiamo dire che aveva ragione lui, nella polemica che si sviluppò nel partito d’azione, fra i fautori della linea democratica integrale, e la sinistra che rivendicava una scelta di campo socialista.
Vogliamo rileggere ciò che La Malfa disse l’8 febbraio 1946, in quel memorabile discorso nella sala del Teatro Italia, dove si consumò il dramma della scissione? «La società italiana – ecco il suo monito, che respingeva le visioni classiste della sinistra azionista alla Lussu, tanto per intenderci – ha una struttura molto frazionata. Se noi vogliamo isolare i due estremi di questa società italiana, cioè il nucleo socialista e quello operaio, e poi su questo identificare interessi permanenti di grandi partiti politici, noi troviamo fra queste due posizioni, che non rappresentano posizioni di maggioranza del popolo italiano, una infinità di altre posizioni».
«Chiamatele come volete – incalzava La Malfa: era eravamo lo ricordo, nel 46! -, chiamatele posizioni di operai e di lavoratori che non siano dell’alta industria, chiamatele posizioni di contadini che non siano braccianti, chiamatele posizioni di piccola borghesia e di media borghesia, chiamatele di intellettuali, chiamatele come volete, ma voi avete un’enorme estensione di interessi italiani che nel loro complesso rappresentano, e possono rappresentare, l’orientamento politico fondamentale della società italiana».
La crisi del classismo, di cui oggi si torna a parlare, c’è già tutta in queste parole di Ugo La Malfa. E c’è in modi e forme tali da arricchire la stessa impostazione contenuta nel primo articolo sul «Mondo» amendoliano, che l’amico Leo Valiani ha opportunamente ricordato.
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