di Giovanni Spadolini – Prefazione a “Italia di minoranza. Lotta politica e cultura dal 1915 a oggi”, Le Monnier, Firenze 1983, pp. V-XV.
Nel marzo 1978, licenziando l’Italia della ragione, poco dopo il rapimento di Aldo Moro, in quel clima di fuga dalla ragione e di terrore per le istituzioni che corse per l’Italia dopo il sequestro del presidente democristiano («nulla sarà più come prima»), chiarivo l’intento di quella ricostruzione della cultura democratica e laica nel corso dell’intero Novecento che ispirava il volume, in molte parti collegato all’Italia civile di Norberto Bobbio.
«Noi di proponiamo di rendere giustizia – scrivevo nel marzo del ’78 – ad un complesso di filoni, di movimenti, che hanno pesato su un certo versante della politica italiana, che hanno condizionato talune scelte, delle coscienze prima ancora che delle forze organizzate. In un intimo nesso con la cultura; lotta politica e cultura per noi non separabili. La battaglia della Rivoluzione liberale di Gobetti non meno di quella del Mondo di Amendola e trent’anni dopo di Pannunzio; la storiografia di un Salvemini o di un Salvatorelli o di un Omodeo mai svincolata dall’impegno politico e dalle sofferenze civili; Croce come noi lo sentimmo, al di fuori di ogni appagamento definitivo o di ogni evasione consolatoria; Albertini come momento di incontro non secondario e non strumentale fra il giornalismo e la società italiana; le forze di minoranza rispetto all’Italia giolittiana non meno delle forze di minoranza rispetto alla dittatura fascista o rispetto agli equilibri costruiti nei trent’anni di storia della Repubblica».
Forze di minoranza. È giusto che il ciclo si concluda oggi, cinque anni e mezzo dopo, con un nuovo volume, il terzo e in certo modo riassuntivo della serie, intitolato Italia di minoranza. Nel mezzo (ancora marzo 1980): L’Italia dei laici, cioè la premessa, perfino nel titolo discreto e sommesso, quasi la prefigurazione della prima alternanza laica alla guida dell’esecutivo col governo a vertice repubblicano, fra 1981 e 1982.
Minoranza. È un termine che da tempo il diritto internazionale si è annesso o quasi per identificare i gruppi che in qualsiasi organismo, e quindi particolarmente in quello statuale, si distinguono dalle comunità dominanti o maggiori in cui sono inseriti, per differenti caratteristiche etniche, linguistiche, religiose o modelli di cultura e di costume diversi. Quelle minoranze che il diritto moderno delle genti tutela largamente: con misure e provvidenze ispirate al principio della tolleranza e del rispetto delle fedi diverse, quasi si trattasse di gruppi «altri da sé», differenziati in qualcosa di essenziale e di connaturale.
No, non è questo il sentimento di minoranza che qui richiamiamo. Anche se non mancò, ai tempi del mazzinianesimo o del partito d’azione, una cerca coscienza perfino ombrosa o rabbiosa di diversità, di estraneità al costume nazionale accomodante e compromissorio: la prima letteratura antifascista potrebbe offrire più di uno spunto in tal senso.
Le minoranze, quindi, su cui si sofferma la nostra attenzione, sono quelle forze politiche di élite o di qualità, appunto il repubblicanesimo, il partito d’azione, la sinistra liberale o radicale, i movimenti ereticali del socialismo, tutto il frastagliato «terzaforzismo» del secondo dopoguerra, che Giorgio Amendola – in una polemica sollevata proprio dall’Italia della ragione nell’agosto 1978 – bollò come «quella corrente permanentemente sconfitta sul piano politico».
Vogliamo rileggere le parole di Amendola? «Il senso della lotta politica e culturale del Novecento – scriveva il figlio del grande combattente antifascista in cui rivivevano alcune ombrosità o intransigenze della Destra storica respirata in casa – sarebbe stato dato, secondo Spadolini, dallo sforzo compiuto dall’Italia della ragione che egli identifica ristrettamente in un certo indirizzo di pensiero liberal-democratico (da Salvemini – non senza qualche contributo dei suoi nemici Giolitti e Turati, e non senza qualche eterogeneo apporto di Einaudi e Sturzo – a Croce, fino a Giovanni Amendola e Piero Gobetti, per giungere al Mondo di Pannunzio e a La Malfa). Questa corrente avrebbe affermato la sua continuità di fronte alla cultura marxista e a quella cattolica. Io non sottovaluto affatto, per vari ed evidenti motivi, il contributo recato da quella corrente ideale, pur con le sue contraddizioni, al progresso democratico del paese, ma ci sarebbe da disperare per le sorti dell’Italia se queste fossero affidate soltanto a quella corrente permanentemente sconfitta sul piano politico. Anche i vinti recano il loro contributo alla cultura e la loro storia è importante, ma certo non si può ignorare il peso esercitato dalle forse riuscite vittoriose».
Questo volume costituisce, cinque anni dopo, la risposta ai quesiti di Giorgio Amendola, cui fui legato da un sentimento di amicizia e di stima mai appannato dalla diversa fede politica. Tutti vinti allora, da Salvemini a Gobetti, da Amendola padre a Pannunzio? Troppo semplice. Non sarebbe stato difficile rispondere fin da allora che le forze giudicate vittoriose, i grandi partiti di massa, in particolare quello del versante marxista, traversarono una crisi di identità che dal 1978 si è molto accentuata e che in ogni caso è così profonda da investirne le basi ideologiche, i punti di riferimento essenziali e fino a pochi anni fa intoccabili. Preferimmo replicare ad Amendola con un quesito: ma sarebbe stata possibile la revisione profonda in atto, revisione profonda nel mondo socialista-comunista non meno che in quello cattolico, senza il continuo assillo della cultura laica, illuminista e razionalista, e le sue pur limitate proiezioni politiche?
Il peso dei voti, corrispondenti alle forze politiche operanti in un paese, non esaurisce la gerarchia delle forza culturali, che muovono la storia. La svolta conciliare della Chiesa introduce i principi della libertà di coscienza nell’organismo che fino a vent’anni or sono era regolato dalla logica del Sillabo, non a caso richiamata agli inizi del 1958 – non nell’epoca di Cavour – dall’assemblea dei vescovi italiani, nell’estremo autunno del pontificato pacelliano. Il ripensamento dell’ortodossia marxista, e non solo di quella marxleninista, legata all’inconfondibile e peculiare esperienza dell’Unione Sovietica, non si arresta né può arrestarsi di fronte a nessuna soglia, nel tentativo, difficile ma non impossibile, di conciliare le leggi del movimento operaio con quelle di una democrazia industriale moderna, sottratta a tutte le illusioni del collettivismo e incompatibile coi falsi rimedi del provvidenzialismo statalistico.
Alcuni interrogativi sono legittimi. La sinistra marxista, o ex-marxista, sarebbe giunta alle correzioni decisive di questi anni senza l’elaborazione intellettuale della scuola democratica, in tutte le sue forme? Chi se non la sinistra laica ha previsto il tramonto delle nazionalizzazioni e statizzazioni, ritenute il toccasana ancora negli anni della liberazione? Chi se non la sinistra laica ha indicato per l’Italia un modello di società industriale avanzata, con uno schema di programmazione, di politica dei redditi, di economia mista cui tutti rendono adesso omaggi anche ipocriti? Chi se non la sinistra laica ha difeso i valori della selezione e del merito, dalla scuola alla vita sociale, nel periodo della grande confusione mentale, scambiata per contestazione?
Lo stato assistenziale, che cresce intorno a noi, è figlio dei vincitori: marxisti o cattolici politici. Su questo non c’è dubbio. Si tratta di vedere se questa vittoria non sia stata pagata ad un prezzo troppo alto. Per l’Italia della ragione – fu la risposta ad Amendola – c’è ancora spazio in Italia.
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