di Renzo De Felice - «La Voce Repubblicana», 11 marzo 1972


La figura e l’opera di Giuseppe Mazzini non sono state molto popolari nel movimento socialista italiano, soprattutto nei suoi settori più politicizzati ed estremi. Le ragioni di questa scarsa fortuna mazziniana tra i socialisti sono state di varia natura e diverse a seconda dei momenti e delle “anime”, delle correnti, della frazioni nelle quali il socialismo italiano si è venuto articolando. Vi sono state ragioni immediatamente politiche, che riflettevano, cioè, la concorrenza e i contrasti tra il partito socialista e quello repubblicano, che a Mazzini si richiamava e ne faceva la propria bandiera. Le più profonde ed operanti sono state però probabilmente altre. Per la “cultura” dei socialisti italiani pre prima guerra mondiale Mazzini era assai spesso poco più di un nome; un nome, per altro, che, da un lato se qualcosa riecheggiava, erano i contrasti con Marx e la violenta denuncia della Comune parigina e che, da un altro lato, non aveva certo – sul piano di una certa tradizione risorgimental-democratica – il fascino e il prestigio di quelli di Garibaldi o di Pisacane. Né va sottovalutato che per la “cultura” e la mentalità socialista l’anticlassismo di Mazzini, la sua “religiosità”, il suo parlare di “doveri dell’uomo” erano assai spesso altrettanti motivi di diffidenza e di ostilità, che sulla lingua o sotto la penna degli estremisti più parolai, come un Enrico Ferri, arrivavano a tradursi nell’accusa di essere un “reazionario borghese”. A questo proposito, è veramente significativo che persino Gaetano Salvemini – che di lì a due soli anni avrebbe pubblicato il suo notissimo studio su Mazzini – nel 1903, quando il ministero della pubblica istruzione aveva fatto adottare nelle scuole statali I doveri dell’uomo, scrisse sull’«Avanti!» un articolo di protesta, in cui affermò che si trattava di una opera piena di dogmatismo religioso, anche se non di tipo cattolico.
Con la grande guerra a queste ragioni di diffidenza e di ostilità se ne aggiunsero altre: il neutralismo socialista vide infatti in Mazzini un precursore dell’irredentismo e dell’interventismo democratico, un “maestro” di transfughi come Bissolati e Battisti, così come, col ’17-18, i massimalisti videro in Mazzini una delle matrici ideologiche del wilsonismo e della “ambigua” politica della nazionalità. Né, dal loro punto di vista, avevano torto, poiché se negli anni a cavallo della fine della guerra il nome e l’insegnamento mazziniani ebbero un rilancio politico fuori dai tradizionali ambienti repubblicani ciò fu ad opera soprattutto di alcuni uomini e gruppi democratici che contestavano tutte le posizioni ideologiche e politiche massimaliste. Tipico il caso di Bissolati, per il quale la pace e un nuovo assetto sociale non avrebbe certo trionfato quando – come asserivano i socialisti – la lotta di classe avesse trionfato in tutti i paesi e il socialismo avesse vinto, «perché i proletari, sostituendo la borghesia, verrebbero a trovarsi gli uni di fronte agli altri nelle stesse condizioni di vantaggio e di svantaggio materiali ed economiche», ma solo quando si fosse generalizzata «una morale superiore», di ispirazione mazziniana, «che renda impossibile ogni sopraffazione»: «l’attuale guerra è stato l’esempio più palmare di questa più alta morale dando la prova della solidarietà di tutti contro i sopraffattori. Questa concezione fu intesa da Giuseppe Mazzini che l’additò ai popoli».
Né, a ben vedere, le cose mutarono negli anni successivi, a parte casi particolari, come quello di Pietro Nenni, che, per altro era arrivato al partito socialista attraverso la milizia nel partito repubblicano e l’esperienza interventista, neppure negli anni della lotta antifascista il socialismo ufficiale italiano comprese infatti il valore dell’insegnamento mazziniano.
In questo clima generale, gli echi, la presenza di Mazzini, del suo pensiero e, più in genere, del suo insegnamento morale, più che nelle fila del socialismo ufficiale e maggioritario vanno ricercati nelle “frange” del nostro socialismo, tra i critici, gli eterodossi, coloro che passarono per l’esperienza socialista e la superarono o la vissero su posizioni marginali. Allora, oltre a quelli di uomini come Bissolati e Battisti, ai quali abbiamo già fatto cenno, si possono indicare parecchi altri nomi; alcuni oggi quasi dimenticati, altri però di prima grandezza. Tanto più che, se si vuole parlare di una “presenza” mazziniana nel campo, nella cultura socialista, non si deve certamente pretendere di riscontrarla in termini di esplicita adesione al “sistema”, alla lettera della dottrina di Mazzini, ma – come giustamente ha scritto Giuseppe Chiostergi – in termini di comprensione politica e culturale dell’essenza del mazzinianesimo, di capacità di informare tutta la propria vita alla consapevolezza della importanza della «predominanza dei valori morali che, con l’educazione, possono risolvere i problemi lasciati insoluti dalle impostazioni puramente economiche e politiche».
In questa prospettiva, non vi è dubbio – per fare due soli esempi notissimi – che l’influenza di Mazzini su Salvemini e soprattutto su Carlo Rosselli fu viva ed operante, certo più che su certi mazziniani di stretta osservanza loro contemporanei, in cui l’adesione pressoché religiosa ad ogni parola del Maestro finiva per sclerotizzare e immeschinire il significato vero del suo pensiero e della sua azione e per renderli praticamente incapaci di essere ancora politicamente e culturalmente operanti. Ma il “mazzinianesimo” di Salvemini e di Rosselli sono troppo noti e studiati (si pensi solo a ciò che ne hanno scritto il Tagliacozzo e il Garosci[1]) perché si debba qui dilungarci su di essi. In questa sede, piuttosto, ci piace ricordare un passo della conferenza che Alceste De Ambris, - un sindacalista rivoluzionario che, come ha scritto Chiostergi[2], «comprese la essenza vera del mazzinianesimo» - tenne a Parma nel marzo ’22 in occasione del cinquantenario della morte di Mazzini. Dopo aver ricordato come, da una iniziale posizione di irrisione del mazzinianesimo, egli fosse giunto e rivedere radicalmente questo suo primitivo atteggiamento, così De Ambris riassunse la sua posizione:
«Liberi sempre da ogni dogma, non disconosciamo la verità contenuta nella critica marxista alla società borghese. Essa rimane granitica e possente nella riconosciuta fatalità della lotta di classe. Ma la negazione del filosofo di Treviri non ha per noi virtù di vita se non si integra con la costruttiva morale mazziniana. Quando ripetiamo ai lavoratori ch’è vano per essi sperare di liberarsi e di redimersi se non acquistano la capacità morale e tecnica necessaria per elevarsi realmente fino a diventare la guida necessaria della società, noi li chiamiamo allo sforzo ed al sacrifizio, all’opera assidua di creazione e di una nuova vita più nobile e più degna. E ripetiamo perciò il verbo imperituro del Maestro… l’ombra sua torna ch’era dipartita».

Renzo De Felice



[1] E. Tagliacozzo, L’eredità del Risorgimento, Gallizzi, Sassari 1962 e Id., Dal Risorgimento alla Resistenza, Lacaita, Manduria, 1959; A. Garosci, Vita di Carlo Rosselli, Ed. U, Roma 1945.

[2] G. Chiostergi, Prefazione a: Un sindacalista mazziniano: Alceste De Ambris, Associazione Mazziniana Italiana, s.d., p. 3: la conferenza di De Ambris è alle pp. 7-19.