a cura di Giovanni Spadolini – In “Nuova Antologia”, a. CXXII, fasc. 2161, gennaio-marzo 1987, Le Monnier, Firenze, pp 185-207.
Italia nazione Italia stato
Luigi Salvatorelli non si arrese mai. Preferì non continuare, negli anni trenta, la polemica con Benedetto Croce sull’unità della storia d’Italia: cioè se l’Italia come nazione fosse nata nell’età comunale, con Dante e con San Francesco, o non piuttosto nel momento costitutivo, diremmo quasi genetico del Regno d’Italia, cioè dello Stato italiano, nel 1861, come indicava Croce.
Il grande storico – di cui abbiamo onorato pochi mesi fa il centenario della nascita – aveva compagni di strada ingombranti e pericolosi nella tesi della continuità della storia d’Italia. Lanciata proprio da uno studioso operante in clima fascista, un giurista fra i più seri del regime ma sempre investito di rilevanti cariche pubbliche come Arrigo Solmi (si vedano i suoi Discorsi sulla storia d’Italia). Non solo: ma Croce, nel rivendicare con tanto orgoglio e intransigenza l’identità fra Stato e nazione e nel collocare il tutto nelle dirette radici risorgimentali, obbediva a una specie di antifascismo indiretto, di natura, vorremmo dire, etico-politica. Si opponeva a tutte le visioni magniloquenti di un’Italia romana e imperiale, di un’Italia corrusca che avrebbe anticipato l’epoca fascista, quasi un nesso fra la Roma dei Cesari e la Roma del rinascente impero.
La dittatura di Mussolini era alla ricerca di precursori che spaziavano nel mondo classico o, indifferentemente, nel mondo medievale. Croce puntava a un taglio netto. Salvatorelli, che in materia di antifascismo non era secondo a nessuno (e il suo antifascismo visse in patria, con estrema umiltà e modestia di mezzi; e visse in patria alla pari di Benedetto Croce), non guardava tanto ai dati contingenti di uno strumentalismo che rifiutava in partenza, quanto ai problemi di fondo. Sui quali sempre tornò.
E proprio negli anni della celebrazione del centenario dell’unità d’Italia, il compianto amico riprendeva il tema della «formazione storica dell’unità d’Italia», in una conferenza tenuta il 4 aprile 1960 a Bolzano al «Circolo di cultura dell’Alto Adige»: che era una scelta emblematica. Andare a parlare proprio a Bolzano d’Italia, come filo storico continuo dall’età dei Comuni al Risorgimento, filo tessuto appunto dalla lingua e dalla cultura, pure nella insistenza di un nesso statuale organico, voleva dire tante cose.
E quella trama, la trama della lezione di Bolzano, costituì lo spunto per uno degli ultimi scritti di Luigi Salvatorelli destinati alla «Nuova Antologia»: scritto che abbiamo deciso di ristampare in margine al centenario, come nostro contributo alla commemorazione che ha avuto toni così dimessi in Italia (e associamo al tributo della rivista la pubblicazione di un commosso necrologio di chi gli fu sempre fedele nella buona e dell’avversa fortuna, Alessandro Galante Garrone).
La «Nuova Antologia» rimase sempre fedele alla tradizione dell’insegnamento salvatorelliano. Non a caso, nel 1979, press’a poco dopo il quinquennio dalla sua morte, raccogliemmo in un «quaderno» della nostra rivista, Il mondo di Luigi Salvatorelli, una serie di scritti della «Nuova Europa» che tracciavano il profilo del «partito della democrazia»: preceduti da un nostro saggio biografico e interpretativo (e arricchiti dalle testimonianze di N. Bobbio, L. Valiani, A. Galante Garrone, L. Compagna); volume che risaliva alla lunga amicizia, un’amicizia di trent’anni.
È uno scritto, quello che ristampiamo, esemplare nella sua nitidezza e nella sua articolazione. Senza asprezze, quasi senza riprendere la polemica di una volta – che non si era mai spenta – Salvatorelli sottolinea come in Italia l’idea e la stessa realtà della nazione precedono di molti secoli l’idea dello Stato. Perché la nazione è figlia dell’idea dell’Italia. Un’idea essenzialmente culturale, spirituale. Un’idea che nasce dalla lingua, che ha per padre Dante, che si snoda attraverso la formazione della cultura nazionale, fondamento del futuro Stato unitario.
Ecco perché il Risorgimento italiano porta nell’Europa a metà del secolo il soffio definitivo dell’ideale di libertà, di democrazia, di autodeterminazione dei popoli. Al di là del compromesso monarchico-moderato, che contraddiceva le speranze della «Giovine Italia» di Mazzini. Al di là della forma di Stato, che si modellava piuttosto sulla monarchia orleanista che sulla stessa Inghilterra vittoriana. Al di là delle timidezze e delle incertezze che accompagnarono la classe conservatrice, che neanche l’epilogo della quarta guerra di indipendenza – quella del 1915-18 – riuscirà a comporre.
L’unificazione politica dell’Italia è un problema che si è già posto – concretamente, nel vivo degli svolgimenti storici – all’indomani dell’invasione longobarda nel sesto secolo dopo Cristo. Si è iniziata nel periodo longobardo-bizantino e nel particolarismo autonomistico italiano, e si è andata accentuando nei secoli, pur nell’apparente polverizzazione dell’Italia comunale. Ma c’è sempre stata, in intreccio con quello, l’esigenza di un assetto in qualche modo unitario della penisola.
È l’esigenza che esplode nelle invocazioni poetiche di Dante e di Petrarca. L’Italia dei principati, l’Italia della pace di Lodi, la bilancia di Lorenzo il Magnifico: il tutto rappresentava il compromesso fra le due esigenze, delle autonomie particolari e dell’unificazione nazionale.
E il Principe di Machiavelli adombrò la realtà di un’Italia che non poteva nascere finché non aveva riassorbito nella sua stessa logica nazionale quello che costituirà il massimo ostacolo all’unificazione politica della penisola, il potere temporale del Pontefice.
Fra la metà del ‘500 e la metà dell’800 il problema italiano diventa un problema europeo, in quanto la penisola, perdendo la sua indipendenza (sempre serbata nei secoli dei Comuni) diventa oggetto e non soggetto di storia. È, indiscutibilmente, l’epoca della decadenza italiana.
Cinquant’anni fa ci fu un tentativo di rovesciare i termini della storia: di esaltare la controriforma e l’Italia della decadenza, e poi l’Italia barbara contrapposta all’Italia splendida di Dante e di San Francesco, l’Italia della grande fioritura della civiltà umanistica e rinascimentale. Tale deformazione storiografica arrivò fino all’esaltazione del cardinale Ruffo e della Santa Sede.
Il filone del Risorgimento italiano è la riscoperta dei valori che avevano creato la prima grande civiltà italiana, quella dei Comuni: la civiltà in cui era brillata, in forme solo paragonabili all’antica Grecia, l’idea delle libertà comunali (anche la Grecia non era mai stata uno Stato, pur essendo una nazione).
E come nazione, divinò l’Italia per primo, nel grande moto del romanticismo successivo alla restaurazione post-napoleonica, Giuseppe Mazzini. Non a caso Mazzini partì dalla letteratura. Il suo primo scritto, destinato all’«Antologia» di Vieusseux, e singolarmente non pubblicato (per timori di contraccolpi sulla censura granducale) fu L’amor patrio di Dante. E il secondo pubblicato fu: D’una letteratura europea.
L’Italia. La democrazia italiana, si configurava come un momento della rinascita europea. Mazzini fonderà insieme la «Giovine Italia» nel 1831 e la «Giovine Europa» nel 1834. Il moto della nazionalità italiana non fu mai concepito al di fuori del moto dell’emancipazione europea.
L’Italia visse in stretta correlazione con l’Europa: con l’Europa degli Stati già unificati e con l’Europa degli Stati da ricostituire. Derivò dalla Spagna le prime ispirazioni costituzionali, la stessa costituzione di Cadice. I moti del 1820-21 nascono dai moti che percuotono la penisola iberica, in un nesso profondo e intimo che rispecchia le analoghe realtà dell’Italia meridionale e della Spagna. Più forte è l’influenza del Sud (parliamo del periodo di Guglielmo Pepe), più forte è l’influenza della Spagna.
Via via che il moto si volge verso il Nord, prevale l’influenza della Francia, della Svizzera, della Gran Bretagna. Ma sullo sfondo, sempre, c’è il legame con le nazionalità che devono emergere.
Mazzini allarga la «Giovine Europa» a popoli nessuno dei quali compreso in unità di Stato: i tedeschi e i polacchi. L’«Antologia» viene soppressa per l’appoggio che dà alla rivoluzione polacca del 1833.
Il moto filo-ellenico che scuote l’Italia del 1820-30 domina tutte le prime forme del liberalismo italiano (e non solo italiano: se pensiamo ai filoni inglesi, riassunti e simboleggiati da Byron).
La nascita della nazione belga segna la nascita dell’associazione, che poi sarà inscindibile nel versante moderato italiano, fra l’idea di patria e l’idea di libertà costituzionali. Il periodo orleanista fonde i fermenti della cultura illuministica, innestandoli sull’esperienza rivoluzionaria e napoleonica.
Ecco cos’è stato il Risorgimento italiano. Ed ecco perché mai nessuno vuole parlare di «nascimento» e di «sorgimento», bisogna sostare a lungo su quel «ri». Su quella coscienza, che fu fermissima nei primi decenni dell’Ottocento, di un qualcosa che rinasceva, o meglio che si continuava nella sua unità secolare: l’idea dell’Italia, l’idea della nazione. Un fatto morale e spirituale che nulla aveva in comune con l’idea della stirpe o della razza che stava sviluppandosi in forme parallele ma aberranti in Germania.
La nazione è sempre vista da Mazzini come momento di una religione dell’umanità. E quindi l’Italia come momento di quella patria ideale che era, per tutti i democratici italiani, l’Europa.
Salvatorelli ci ha portato lontano. Ma vorremmo concludere con le parole finali della testimonianza storiografica – per tanta parte autobiografica – che oggi ristampiamo. «Considerato sotto l’aspetto della unità statale, il Risorgimento costituisce la fase finale, risolutiva, di un problema postosi – non solo nella materialità dei fatti, ma nella coscienza dei protagonisti – all’indomani stesso della invasione longobarda, dodici-tredici secoli indietro; e, con alti e bassi, in forme e vicende svariate, non più scomparso dal teatro della storia. Dietro quel problema stava la coscienza nazionale italiana, di cui abbiamo registrato l’atto di nascita al ribattezzamento di ‘Corfinium” in ‘Italica’, e da allora in poi mantenutasi, incrementatasi, talora anche oscuratasi, ma nell’insieme della traiettoria storica sviluppatasi continuamente, in circolo con la comunanza di vita sempre più larga e profonda, fino al meriggio risorgimentale. E quella esigenza italiana era divenuta sempre più nettamente, nel periodo rivoluzionario-napoleonico e nel corso successivo del secolo decimonono, parte integrante dell’equilibrio e concerto europeo, e più ancora della necessaria trasformazione di tutta l’Europa in senso nazionale e liberale».
L’Europa nazionale e liberale.
Ci torna in mente il saggio di Eugenio Montale sulla missione spirituale dell’Europa, pubblicato nel «Mondo» del 1949: allorché fissa il destino dell’Italia in rapporto alla cultura e civiltà universale.
«L’Italia è un paese immensamente disponibile, il suo genio non le ha mai consentito di chiudersi in se stessa. Se anche volesse farlo, l’Europa avrebbe bisogno di lei, e la richiamerebbe al suo destino. Essa incarna la tolleranza e il buon senso, la schietta aderenza alla vita e il classico naturale umanesimo. È una lezione che, attraverso molte crisi e malattie, l’Italia sta già dando nei primi secoli della sua lunga cattività: quando essa era già Europa senza saperlo e senza volerlo».
In questo senso, il nome di Mazzini si associa intimamente a quello di Manzoni.
Il nesso Mazzini-Manzoni. È l’ultimo omaggio che possiamo rendere alla memoria di Luigi Salvatorelli, vecchio e indimenticabile amico.
Giovanni Spadolini
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