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    Predefinito Luigi Salvatorelli: la formazione storica della nostra unità (1987)

    a cura di Giovanni Spadolini – In “Nuova Antologia”, a. CXXII, fasc. 2161, gennaio-marzo 1987, Le Monnier, Firenze, pp 185-207.


    Italia nazione Italia stato

    Luigi Salvatorelli non si arrese mai. Preferì non continuare, negli anni trenta, la polemica con Benedetto Croce sull’unità della storia d’Italia: cioè se l’Italia come nazione fosse nata nell’età comunale, con Dante e con San Francesco, o non piuttosto nel momento costitutivo, diremmo quasi genetico del Regno d’Italia, cioè dello Stato italiano, nel 1861, come indicava Croce.
    Il grande storico – di cui abbiamo onorato pochi mesi fa il centenario della nascita – aveva compagni di strada ingombranti e pericolosi nella tesi della continuità della storia d’Italia. Lanciata proprio da uno studioso operante in clima fascista, un giurista fra i più seri del regime ma sempre investito di rilevanti cariche pubbliche come Arrigo Solmi (si vedano i suoi Discorsi sulla storia d’Italia). Non solo: ma Croce, nel rivendicare con tanto orgoglio e intransigenza l’identità fra Stato e nazione e nel collocare il tutto nelle dirette radici risorgimentali, obbediva a una specie di antifascismo indiretto, di natura, vorremmo dire, etico-politica. Si opponeva a tutte le visioni magniloquenti di un’Italia romana e imperiale, di un’Italia corrusca che avrebbe anticipato l’epoca fascista, quasi un nesso fra la Roma dei Cesari e la Roma del rinascente impero.
    La dittatura di Mussolini era alla ricerca di precursori che spaziavano nel mondo classico o, indifferentemente, nel mondo medievale. Croce puntava a un taglio netto. Salvatorelli, che in materia di antifascismo non era secondo a nessuno (e il suo antifascismo visse in patria, con estrema umiltà e modestia di mezzi; e visse in patria alla pari di Benedetto Croce), non guardava tanto ai dati contingenti di uno strumentalismo che rifiutava in partenza, quanto ai problemi di fondo. Sui quali sempre tornò.
    E proprio negli anni della celebrazione del centenario dell’unità d’Italia, il compianto amico riprendeva il tema della «formazione storica dell’unità d’Italia», in una conferenza tenuta il 4 aprile 1960 a Bolzano al «Circolo di cultura dell’Alto Adige»: che era una scelta emblematica. Andare a parlare proprio a Bolzano d’Italia, come filo storico continuo dall’età dei Comuni al Risorgimento, filo tessuto appunto dalla lingua e dalla cultura, pure nella insistenza di un nesso statuale organico, voleva dire tante cose.
    E quella trama, la trama della lezione di Bolzano, costituì lo spunto per uno degli ultimi scritti di Luigi Salvatorelli destinati alla «Nuova Antologia»: scritto che abbiamo deciso di ristampare in margine al centenario, come nostro contributo alla commemorazione che ha avuto toni così dimessi in Italia (e associamo al tributo della rivista la pubblicazione di un commosso necrologio di chi gli fu sempre fedele nella buona e dell’avversa fortuna, Alessandro Galante Garrone).
    La «Nuova Antologia» rimase sempre fedele alla tradizione dell’insegnamento salvatorelliano. Non a caso, nel 1979, press’a poco dopo il quinquennio dalla sua morte, raccogliemmo in un «quaderno» della nostra rivista, Il mondo di Luigi Salvatorelli, una serie di scritti della «Nuova Europa» che tracciavano il profilo del «partito della democrazia»: preceduti da un nostro saggio biografico e interpretativo (e arricchiti dalle testimonianze di N. Bobbio, L. Valiani, A. Galante Garrone, L. Compagna); volume che risaliva alla lunga amicizia, un’amicizia di trent’anni.
    È uno scritto, quello che ristampiamo, esemplare nella sua nitidezza e nella sua articolazione. Senza asprezze, quasi senza riprendere la polemica di una volta – che non si era mai spenta – Salvatorelli sottolinea come in Italia l’idea e la stessa realtà della nazione precedono di molti secoli l’idea dello Stato. Perché la nazione è figlia dell’idea dell’Italia. Un’idea essenzialmente culturale, spirituale. Un’idea che nasce dalla lingua, che ha per padre Dante, che si snoda attraverso la formazione della cultura nazionale, fondamento del futuro Stato unitario.
    Ecco perché il Risorgimento italiano porta nell’Europa a metà del secolo il soffio definitivo dell’ideale di libertà, di democrazia, di autodeterminazione dei popoli. Al di là del compromesso monarchico-moderato, che contraddiceva le speranze della «Giovine Italia» di Mazzini. Al di là della forma di Stato, che si modellava piuttosto sulla monarchia orleanista che sulla stessa Inghilterra vittoriana. Al di là delle timidezze e delle incertezze che accompagnarono la classe conservatrice, che neanche l’epilogo della quarta guerra di indipendenza – quella del 1915-18 – riuscirà a comporre.
    L’unificazione politica dell’Italia è un problema che si è già posto – concretamente, nel vivo degli svolgimenti storici – all’indomani dell’invasione longobarda nel sesto secolo dopo Cristo. Si è iniziata nel periodo longobardo-bizantino e nel particolarismo autonomistico italiano, e si è andata accentuando nei secoli, pur nell’apparente polverizzazione dell’Italia comunale. Ma c’è sempre stata, in intreccio con quello, l’esigenza di un assetto in qualche modo unitario della penisola.
    È l’esigenza che esplode nelle invocazioni poetiche di Dante e di Petrarca. L’Italia dei principati, l’Italia della pace di Lodi, la bilancia di Lorenzo il Magnifico: il tutto rappresentava il compromesso fra le due esigenze, delle autonomie particolari e dell’unificazione nazionale.
    E il Principe di Machiavelli adombrò la realtà di un’Italia che non poteva nascere finché non aveva riassorbito nella sua stessa logica nazionale quello che costituirà il massimo ostacolo all’unificazione politica della penisola, il potere temporale del Pontefice.
    Fra la metà del ‘500 e la metà dell’800 il problema italiano diventa un problema europeo, in quanto la penisola, perdendo la sua indipendenza (sempre serbata nei secoli dei Comuni) diventa oggetto e non soggetto di storia. È, indiscutibilmente, l’epoca della decadenza italiana.
    Cinquant’anni fa ci fu un tentativo di rovesciare i termini della storia: di esaltare la controriforma e l’Italia della decadenza, e poi l’Italia barbara contrapposta all’Italia splendida di Dante e di San Francesco, l’Italia della grande fioritura della civiltà umanistica e rinascimentale. Tale deformazione storiografica arrivò fino all’esaltazione del cardinale Ruffo e della Santa Sede.
    Il filone del Risorgimento italiano è la riscoperta dei valori che avevano creato la prima grande civiltà italiana, quella dei Comuni: la civiltà in cui era brillata, in forme solo paragonabili all’antica Grecia, l’idea delle libertà comunali (anche la Grecia non era mai stata uno Stato, pur essendo una nazione).
    E come nazione, divinò l’Italia per primo, nel grande moto del romanticismo successivo alla restaurazione post-napoleonica, Giuseppe Mazzini. Non a caso Mazzini partì dalla letteratura. Il suo primo scritto, destinato all’«Antologia» di Vieusseux, e singolarmente non pubblicato (per timori di contraccolpi sulla censura granducale) fu L’amor patrio di Dante. E il secondo pubblicato fu: D’una letteratura europea.
    L’Italia. La democrazia italiana, si configurava come un momento della rinascita europea. Mazzini fonderà insieme la «Giovine Italia» nel 1831 e la «Giovine Europa» nel 1834. Il moto della nazionalità italiana non fu mai concepito al di fuori del moto dell’emancipazione europea.
    L’Italia visse in stretta correlazione con l’Europa: con l’Europa degli Stati già unificati e con l’Europa degli Stati da ricostituire. Derivò dalla Spagna le prime ispirazioni costituzionali, la stessa costituzione di Cadice. I moti del 1820-21 nascono dai moti che percuotono la penisola iberica, in un nesso profondo e intimo che rispecchia le analoghe realtà dell’Italia meridionale e della Spagna. Più forte è l’influenza del Sud (parliamo del periodo di Guglielmo Pepe), più forte è l’influenza della Spagna.
    Via via che il moto si volge verso il Nord, prevale l’influenza della Francia, della Svizzera, della Gran Bretagna. Ma sullo sfondo, sempre, c’è il legame con le nazionalità che devono emergere.
    Mazzini allarga la «Giovine Europa» a popoli nessuno dei quali compreso in unità di Stato: i tedeschi e i polacchi. L’«Antologia» viene soppressa per l’appoggio che dà alla rivoluzione polacca del 1833.
    Il moto filo-ellenico che scuote l’Italia del 1820-30 domina tutte le prime forme del liberalismo italiano (e non solo italiano: se pensiamo ai filoni inglesi, riassunti e simboleggiati da Byron).
    La nascita della nazione belga segna la nascita dell’associazione, che poi sarà inscindibile nel versante moderato italiano, fra l’idea di patria e l’idea di libertà costituzionali. Il periodo orleanista fonde i fermenti della cultura illuministica, innestandoli sull’esperienza rivoluzionaria e napoleonica.
    Ecco cos’è stato il Risorgimento italiano. Ed ecco perché mai nessuno vuole parlare di «nascimento» e di «sorgimento», bisogna sostare a lungo su quel «ri». Su quella coscienza, che fu fermissima nei primi decenni dell’Ottocento, di un qualcosa che rinasceva, o meglio che si continuava nella sua unità secolare: l’idea dell’Italia, l’idea della nazione. Un fatto morale e spirituale che nulla aveva in comune con l’idea della stirpe o della razza che stava sviluppandosi in forme parallele ma aberranti in Germania.
    La nazione è sempre vista da Mazzini come momento di una religione dell’umanità. E quindi l’Italia come momento di quella patria ideale che era, per tutti i democratici italiani, l’Europa.
    Salvatorelli ci ha portato lontano. Ma vorremmo concludere con le parole finali della testimonianza storiografica – per tanta parte autobiografica – che oggi ristampiamo. «Considerato sotto l’aspetto della unità statale, il Risorgimento costituisce la fase finale, risolutiva, di un problema postosi – non solo nella materialità dei fatti, ma nella coscienza dei protagonisti – all’indomani stesso della invasione longobarda, dodici-tredici secoli indietro; e, con alti e bassi, in forme e vicende svariate, non più scomparso dal teatro della storia. Dietro quel problema stava la coscienza nazionale italiana, di cui abbiamo registrato l’atto di nascita al ribattezzamento di ‘Corfinium” in ‘Italica’, e da allora in poi mantenutasi, incrementatasi, talora anche oscuratasi, ma nell’insieme della traiettoria storica sviluppatasi continuamente, in circolo con la comunanza di vita sempre più larga e profonda, fino al meriggio risorgimentale. E quella esigenza italiana era divenuta sempre più nettamente, nel periodo rivoluzionario-napoleonico e nel corso successivo del secolo decimonono, parte integrante dell’equilibrio e concerto europeo, e più ancora della necessaria trasformazione di tutta l’Europa in senso nazionale e liberale».
    L’Europa nazionale e liberale.
    Ci torna in mente il saggio di Eugenio Montale sulla missione spirituale dell’Europa, pubblicato nel «Mondo» del 1949: allorché fissa il destino dell’Italia in rapporto alla cultura e civiltà universale.
    «L’Italia è un paese immensamente disponibile, il suo genio non le ha mai consentito di chiudersi in se stessa. Se anche volesse farlo, l’Europa avrebbe bisogno di lei, e la richiamerebbe al suo destino. Essa incarna la tolleranza e il buon senso, la schietta aderenza alla vita e il classico naturale umanesimo. È una lezione che, attraverso molte crisi e malattie, l’Italia sta già dando nei primi secoli della sua lunga cattività: quando essa era già Europa senza saperlo e senza volerlo».
    In questo senso, il nome di Mazzini si associa intimamente a quello di Manzoni.
    Il nesso Mazzini-Manzoni. È l’ultimo omaggio che possiamo rendere alla memoria di Luigi Salvatorelli, vecchio e indimenticabile amico.

    Giovanni Spadolini


    (...)
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    Predefinito Re: Luigi Salvatorelli: la formazione storica della nostra unità (1987)

    1. La svolta del 1859-1861[1]

    Alla vigilia della guerra del 1859 l’Italia era divisa in sette stati: quattro regni, un granducato e due ducati. Unico stato scomparso, rispetto all’Italia del 1815, il ducato di Lucca, assorbito dalla Toscana. Uno dei regni apparteneva all’imperatore d’Austria; due rami cadetti degli Absburgo erano stabiliti nel granducato di Toscana e nel ducato di Modena. Sei dei sette stati erano di regime assoluto, e in uno dei sei il regime assoluto era anche ecclesiastico, papale (teocratico, si diceva allora, almeno dai suoi avversari). In «splendido isolamento» si trovava la monarchia costituzionale del re di Sardegna.
    Meno di due anni dopo, il 17 marzo 1861, era proprio il sovrano di questo stato isolato, Vittorio Emanuele II, ad assumere per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia: e il nuovo regno comprendeva tutto il territorio dei sette stati precedenti, salvo il Veneto (col Mantovano) rimasto a Francesco Giuseppe, e il Lazio rimasto al pontefice. Gli altri quattro sovrani erano semplicemente scomparsi.
    Questo cambiamento così radicale, e così rapido, nelle condizioni politico-territoriali d’Italia non poté non produrre, in Italia e in Europa, un senso di sbalordimento, accompagnato da una impressione, nei riguardi del nuovo stato unitario, di qualcosa d’improvviso e non solido. Non giureremo che codesto stato d’animo, di fronte all’Italia una, sia oggi del tutto scomparso all’estero, e forse neppure tra noi.
    Sta il fatto che uno sguardo retrospettivo alle unificazioni dei maggiori stati europei – Francia, Spagna, Gran Bretagna – mostrava una tale differenza di tempi e di modi da rendere perplessi, nei confronti della esplosione unificatrice italiana. Un decennio dopo la proclamazione del regno d’Italia, per verità, si ebbe l’unificazione tedesca, quasi altrettanto rapida della italiana: «Norddeutscher Bund» del 1867, «Deutsches Reich» del 1871. C’era, però, una enorme differenza fra le due. L’impero tedesco, proclamato a Versailles il 18 gennaio 1871, era una trasformazione della confederazione germanica del 1815: trasformazione importantissima politicamente per l’eliminazione dell’Austria (rimanendo come unico stato conduttore la Prussia) e per un potere centralizzatore degli organi federali, a cominciare dall’imperatore, ben altrimenti forte che nel precedente «Bund». Ma gli stati tedeschi, che avevano costituito sovranamente il vecchio «Bund» del 1815, erano rimasti, anche se con sovranità ridotta, nel nuovo; e se taluno ne era scomparso, ciò era avvenuto per diritto di guerra, non già per rivolgimento rivoluzionario: così come il nuovo «Bund» non era stato dovuto a rivoluzione, o ad altra forma di autodecisione popolare, ma alla iniziativa e alla decisione dei governi. Guglielmo I aveva voluto ricevere e aveva di fatto ricevuto la corona imperiale dai sovrani tedeschi, fra i quali egli rimaneva, come re di Prussia, di gran lunga il maggiore; Vittorio Emanuele, invece, aveva assunto il titolo di re d’Italia in forza di una legge del parlamento, fondata a sua volta sui plebisciti popolari.
    L’analisi delle genesi dello stato unitario italiano è stata effettuata da un pezzo nel quadro della storia risorgimentale. Si è individuata la contrapposizione, in seno al movimento nazionale prequarantottesco, di una corrente federalistica e di una unitaria: monarchica, moderata, «guelfa» la prima; repubblicana, radicale, «ghibellina» la seconda[2]. Il fallimento della prima nel primo periodo della rivoluzione quarantottesca, e della secondo nel secondo, e poi quello dei tentativi mazziniani, aprì la strada alla nuova, vittoriosa corrente portatrice del programma «Italia e Vittorio Emanuele», contemperante l’esigenza moderata-monarchica con quella democratica-unitaria.
    Questa ricostruzione storica, dominante ancora nel mondo della media cultura e nei manuali scolastici, non regge innanzi alla semplice constatazione che un programma unitario (repubblicano) si è affermato in Italia ben prima non solo delle delusioni del Quarantotto, ma anche della predicazione unitaria mazziniana, e cioè fra il 1796 e il 1799. E altresì, ben prima delle delusioni quarantottesche, vediamo quel programma unitario scomparire dal proscenio durante il periodo napoleonico, e dopo una effimera ricomparsa col murattiano proclama di Rimini rimanere eclissato ne moti del 1820-21, del 1831, del 1846-48.

    2. Il processo unitario italiano

    Invece di risalire dall’unità del 1861 agli inizi del Risorgimento, e ancora più indietro, proviamo se non è possibile vederci più chiaro, in codesta ricerca storica del processo unitario italiano, seguendo la via inversa: ripercorrendo, cioè, la storia d’Italia dal principio fino all’unità suddetta. Ma quando incomincia la storia d’Italia, e cioè la storia del popolo italiano? Quando è che il termine «Italia» da pura indicazione geografica assurge a nome proprio di una nazione?
    Nazione è l’elemento soggettivo, coscienza, che emerge da quello obiettivo della popolazione di un dato paese. Là dove gli abitanti stabiliti di un dato paese posseggono una loro personalità unitaria, con ricordo di un passato comune, una convivenza solidale nel presente, una prospettiva e una preparazione comune per il futuro, colà abbiamo un popolo autocosciente, una nazione[3].
    Occorre tener ben presente, nel ricercare gli inizi e gli svolgimenti di una nazione, la grande complessità di questo termine: nazione. La nazione non si identifica con stato, e neanche con razza (stirpe), o lingua, o coltura, o religione, o passato comune. Taluno di questi elementi può anche mancare: ma se gli altri presenti si fondono insieme nella coscienza di costituire una comunità, allora la nazione c’è.
    Per quel che riguarda il requisito «stato», è un rilievo divenuto banale, e che pur tuttavia bisogna sempre ripetere, in una occasione come questa, che la Grecia antica non fu mai uno stato unico, unitario o confederale che fosse: e tuttavia il suo popolo è stato uno di quelli più fortemente dotati di coscienza nazionale. E anche un’altra ripetizione è qui d’obbligo, quella dei due versi manzoniani, riguardanti appunti l’Italia

    una d’arme, di lingua, d’altare
    di memorie, di sangue e di cor.

    L’ultimo, il «core», compendia tutti i precedenti: è, appunto, la coscienza unitaria nazionale. Quando il Manzoni scrisse questi versi (nel 1821), l’unità statale era di là da venire; e il poeta la invocava come risultante di tutti gli altri requisiti unitari del popolo italiano, i quali bastavano già, senza quello, perché si potesse parlare di una nazione italiana.

    (...)


    [1] Rielaborazione, con l’aggiunta di note, di una conferenza tenuta il 4 aprile 1960 in Bolzano, al «Circolo di cultura dell’Alto Adige».

    [2] Il federalismo repubblicano di Cattaneo e Ferrari non è contemplato in questa contrapposizione, non avendo mai preso corpo in una vera e propria corrente di azione.

    [3] Il termine «popolo» ha due valori diversi, l’uno geografico-etnico (equivalente a «popolazione»), l’altro politico-morale, significante appunto la coscienza nazionale.
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    Predefinito Re: Luigi Salvatorelli: la formazione storica della nostra unità (1987)

    3. Come nasce l’Italia

    Nell’ottavo secolo avanti Cristo, quando un gruppo di villaggi latini tra i colli albani e la foce del Tevere si stringono nel primo nucleo di Roma (il Septimontium), la penisola italiana presenta una varietà straordinaria di popoli, uscenti appena dalla preistoria: Liguri antichissimi dell’età della pietra; Etruschi misteriosi di origine e di lingua (forse «autoctoni»?); Italici penetrati nella penisola a ondate successive – due principali: latino-siculi e osco-umbri -; Illirici divisi in due gruppi distanti senza rapporti fra loro (Veneti nella contrada omonima, Iapigi nella Puglia); infine, Greci («Italioti») venuti dalla madre-patria e dalla Sicilia. Tutta questa molteplicità si frantuma ulteriormente in sottogruppi etnici costituenti leghe di borgate rurali o in città (etrusche e greche) associate con lenti legami, o anche isolate e combattenti fra loro. Molteplicità e dispersione favorite dalla struttura estremamente articolata della penisola; ma a cui tuttavia fanno da contrappeso i netti «confini naturali» delle Alpi e dei mari.
    Questa nettezza di confini naturali fra l’Italia e il resto d’Europa non dovette essere estranea ai rapporti intensi che ben presto si stabiliscono da un capo all’altro della penisola: economici, culturali, politici. Si delinea per tempo la presenza contemporanea di due tendenze opposte, e tuttavia intrecciantisi fra loro: particolaristica-confederale, ed espansionistica-egemonica. Tutti gli storici dell’Italia e di Roma antiche ci parlano di un «impero etrusco» tra la metà del VII secolo e quella del VI, stendentesi dalla pianura padana alla campana, ed entrato in conflitto non vittorioso con Greci e Italici; ma ci parlano altresì delle confederazioni etrusca, lucana, sannitica, e della espansione di quest’ultima in Campania. E intanto, per opera principalmente di Etruschi e di Greci (Italioti), si affermano i primi elementi di una coltura comune nell’Italia centro-meridionale: e già spunta un presagio di unità con il nome «Italia», sorto dapprima a designare la punta estrema della penisola, estesosi man mano a tutta l’Italia meridionale, e poi a tutta la peninsulare.
    Roma diventa protagonista nella storia della penisola italiana solo dopo l’incendio gallico: e nella seconda metà del quarto secolo a. C. le sorti dell’Italia peninsulare sono la posta di giuoco tra la confederazione egemonica romana e quella paritaria sannitica. La seconda, trovandosi inferiore di forze, si associa con Etruschi e Umbri, e poi ancora con i Lucani, e perfino con i «barbari» Galli, invasori in tempi storici dell’Italia. È uno sforzo supremo dei diversi particolarismi della penisola contro il predominio romano; ma è anche una associazione puramente occasionale ed eterogenea, che soccombe all’unità direttiva e alla forte organizzazione del sistema romano. Dopo aver messo due secoli a impiantare questo sistema nell’Italia centrale, Roma compie nel corso di pochi anni – invano riluttanti Taranto e il re Pirro – la sottomissione dell’Italia meridionale. Così è realizzata la impropriamente detta «confederazione romano-italica», abbracciante l’Italia peninsulare da Pisa e Rimini allo stretto di Messina.
    Fu questo un processo di pura conquista, di assoggettamento in cui vincitori e vinti rimangono estranei fra loro; o invece possiamo parlare di un principio di unificazione italiana?
    È una questione fondamentale per il nostro soggetto; ed essa fa tutt’uno con l’altra, se la storia di Roma faccia, o no, parte della storia d’Italia.
    È stato affermato da Benedetto Croce che nella letteratura storico-politica del Risorgimento sia stata data comunemente risposta negativa a quest’ultimo quesito. Senza esaminare partitamente questo punto di storiografia, basterà qui ricordare che fra coloro che inclusero, con piena coscienza storico-nazionale, la storia di Roma antica in quella d’Italia, c’è il Balbo col suo classico Sommario (1846). È uno che conta per molti. Poco dopo il Balbo fece altrettanto un sommo storico straniero, e quindi più spassionato: il Mommsen nella Römische Geschichte (1854). All’inizio di questa egli dice espressamente che la sua opera narra la storia d’Italia, non soltanto quella di Roma; e ne dà subito dopo la motivazione: «ciò che si è abituati a chiamare l’assoggettamento d’Italia da parte dei Romani, risulta piuttosto come la unificazione di tutta la stirpe (Stamm) degli Italici in uno stato solo».
    Sottoscrivo senza esitazione a questa sentenza, con la quale hanno concordato ai giorni nostri Gaetano De Sanctis ed Ettore Pais. Il sistema politico dell’Italia peninsulare, eretto dai Romani nei secoli precedenti la prima guerra punica, non fu (s’è avvertito già) una vera confederazione, per doppio motivo. I diversi popoli contraenti con Roma il vincolo associativo lo contrassero ciascuno a parte, in rapporto dualistico con Roma medesima, anziché tutti insieme; e quindi fra loro non esisteva colleganza diretta (che anzi era vietata). Inoltre il vincolo associativo era di più tipi, ma in ogni caso non sostanzialmente paritario, sia per le clausole specifiche, sia per il fatto stesso della tanto diversa potenza fra i due contraenti.
    E tuttavia associazione fu, e non puro assoggettamento. I soci conservavano la loro personalità politica, e una autonomia effettiva nella loro vita interna, mentre poi esistevano fra loro intensi rapporti economici e sociali («commercium» e «connubium»), nel quadro della sicurezza esterna, e della pace fra i membri dell’associazione. Codesta intensità di rapporti, e la connessa solidarietà di interessi, l’affinità degli istituti, quella della lingua e della coltura – un misto, per tutti, di innesti greci (ed etruschi) sul ceppo italico – generarono una civiltà uniforme, una comunità di vita e di coscienza. Se il popolo italiano non era ancora nato, esso si trovava per lo meno in gestazione.
    La prova del fuoco si ebbe nella seconda guerra punica, con la invasione di Annibale. Questa era stata iniziata con il preciso calcolo che il recente impero italiano di Roma, dovuto alla impostazione armata e sentito come estraneo e tirannico, sarebbe crollato quando fosse in campo in Italia una forza antiromana a cui i popoli sottomessi avrebbero potuto rivolgersi per la loro liberazione. Effettivamente non solo i Galli e i Liguri, estranei al sistema romano-italico, accorsero a rafforzare le truppe di Annibale; ma dopo Canne una parte dei soci defezionarono, specialmente nell’Italia meridionale: quasi tutti i Sanniti; in Campania Capua – la seconda città d’Italia -; i Lucani, i Bruzi, più tardi Taranto e altre città greche. Ma il nucleo dei soci dell’Italia centrale resistette, per diffidenza verso il preteso liberatore e avversione al dominio punico, e nella coscienza che il loro avvenire non poteva esser preservato se non dalla unione con Roma.
    È poetica immaginazione quella del Carducci che nelle Fonti del Clitunno descrive la convocazione tumultuosa dei popoli umbri alla difesa contro Annibale:

    … minaccia gl’itali Penati
    Annibal diro

    e l’affetto grandioso di questa convocazione, per cui Annibale è messo in fuga sotto le mura di Spoleto. Ma è trasfigurazione simbolica di un grande fatto storico, potentemente intuito dal poeta-vate. E il fatto storico è che la resistenza tenace ad Annibale fu opera romano-italica, preservatrice della nazionalità italiana in formazione[1].
    Un ventennio dopo la fine della seconda guerra punica (nel 183 a. C.) incontriamo il senato romano in funzione di custode dei «confini naturali» dell’Italia. Essendo penetrati gruppi di Galli Carni al di qua delle Alpi, nella zona dove sorse due anni dopo la colonia di Aquilea, il senato inviò una ambasciata ai loro capi transalpini per invitarli a impedire ai loro soggetti di varcare le Alpi, «che sembravano poste dalla stessa natura per separare le due nazioni» (Livio, XXXIX, 53-55)[2].

    (...)


    [1] Ciò non è stato sufficientemente avvertito dal VALGIMIGLI nel suo eccellente commento alle Odi barbare (Zanichelli). Prendendo alla lettera la rappresentazione carducciana della convocazione bellica umbra (con la successiva vittoriosa resistenza di Spoleto), e prima ancora quella dei tre imperi – umbro, etrusco, romano – succedutisi e dei tre popoli riconciliati per opera dell’«indigete comune Italo nume», il V. scrive: «questo patto di unità fra le tre diverse popolazioni, tra vincitori e vinti, e quindi di alleanza contro i Cartaginesi, è fantasia di poeta e non verità storica» (p. 43). Ora, il Carducci non dice parola di un «patto» formale di unità e di alleanza; bensì rappresenta poeticamente un «fatto» fondamentale di quella «storia d’Italia» pregiudizialmente negata dal Croce: il fatto dell’associazione organica formatasi fra romani, italici ed etruschi nell’Italia centrale; e ha esattamente visto – da storico prima ancora che da poeta – l’importanza capitale della resistenza opposta da codesta associazione al vittorioso Annibale, che mirava appunto a disgregare la cosiddetta «confederazione romano-italica». Tanta fu l’importanza di quel fatto, che ad esso è da attribuire in prima linea la vittoria finale di Roma (cioè, del popolo italiano in formazione) sull’invasore punico.

    [2] È veramente curioso che questa intimazione senatoriale, con la relativa motivazione geopolitica, sia stata omessa nella poderosa ed eccellente Storia di Roma di L. PARETI (II, pp. 530-531). Il Pareti riporta invece, senza sottolinearla, la significativa espressione del console Claudio Pulcro in una lettera al Senato (a. 176), «che ormai non rimaneva nemico alcuno di Roma al di qua delle Alpi» (p. 537).
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    Predefinito Re: Luigi Salvatorelli: la formazione storica della nostra unità (1987)

    4. L’unificazione linguistica latina

    Ma già all’indomani della guerra punica si impostò dai soci – e più particolarmente da quelli rimasti fedeli a Roma – la questione della disuguaglianza di trattamento[1], per cui a loro toccava tanta parte degli oneri confederali, e tanto poco dei vantaggi: soprattutto di quelli ad alto livello statale, comandi militari, governi delle province, ambasciate; ma anche dei vantaggi finanziari connessi alle guerre e alle conquiste. Da questi reclami si arrivava naturalmente alla richiesta della cittadinanza romana: non più per concessione speciale, di grazia, ma per disposizione generale di diritto.
    I Gracchi furono ambedue sostenitori degli Italici; e da questo momento data l’alleanza fra Italici e partito democratico. Quando i primi impugnarono le armi (91 a. C.) per raggiungere nella parità dei diritti la trasformazione della repubblica romana in stato italico, ed istituirono uno stato federale con capitale Corfinium ribattezzata Italica, essi stesero l’atto di nascita del popolo italiano.
    Le lotte seguenti fra partito aristocratico e partito democratico, fra Silla e Mario, e poi fra Pompeo e Cesare, possono e anzi debbono esser viste anche come lotte fra chi voleva una Italia romana, e chi voleva una Roma italiana. Ma anteriormente ancora al primo triumvirato il conferimento formale della cittadinanza romana ai soci, pronunciato alla fine della guerra sociale, diviene effettivo; ed è poi esteso da Giulio Cesare ai Traspadani. Cesare dette altresì a tutta l’Italia l’assetto definitivo comune delle autonomie locali, con la «Lex Julia municipalis». Si delineò allora una trasformazione di Roma da stato cittadino in stato nazionale. La successiva ripartizione fatta da Augusto dell’Italia nelle undici regioni fu un quadro amministrativo che non intaccava punto l’autonomia locale dei municipi e delle colonie – destinate, queste seconde, a confondersi ben presto con i primi, rimanendo solo la classificazione a parte per l’origine differente -; ma articolava nel gran corpo italico le relazioni delle membra con il capo, Roma. Si sa bene come Augusto, differente in ciò da Cesare, abbia tenuto a mantenere all’Italia unificata e definitivamente organizzata una posizione nettamente distinta e superiore rispetto a quella delle province.
    All’abbozzo politico-amministrativo di stato nazionale rispose la unificazione linguistica. La lingua latina diviene, nella riduzione a dialetti delle lingue italiche, l’unica lingua letteraria di tutti gli Italiani. La letteratura latina diviene letteratura nazionale, a cui portano il loro contributo scrittori di ogni parte d’Italia, e che di tutta l’Italia è patrimonio spirituale prime di divenirlo di tutto l’Occidente.
    Codesto avviamento raggiunse la sua piena esplicazione nell’età augustea: e allora troviamo nella poesia di Virgilio la piena affermazione di un patriottismo non più soltanto romano, ma italiano. L’Italia è esaltata nelle Georgiche non soltanto quale «magna parens frugum, Saturnia tellus», ma per tutto un insieme di grandezze e di bellezze naturali e umane, culminanti nelle «tot egregias urbes operumque laborem», e nel «genus acre virum Marsos pubemque Sabellam», cioè nei protagonisti della guerra sociale, che precedono qui i Deci e i Camilli. È lo stesso patriottismo italiano che forma lo sfondo dell’Eneide, ove i protagonisti sono di due categorie: Enea e i Troiani come progenitori dei Romani, e i preesistenti popoli della «terra antiqua potens armis atque ubere glebae». Soltanto dal loro accordo, dalla loro libera e paritaria fusione, deriverà la grandezza futura di Roma. Pensiero conservatosi e tramandatosi fino a Dante, che esalta Camilla («decus Italiae virgo» dell’Eneide), Eurialo e Niso come coloro che sono morti per l’«umile Italia».

    (...)


    [1] Si veda, per questo, la recentissima, qui sopra citata, Storia di Roma del PARETI, pp. 516, 803.
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    5. Il «bene di tutta l’Italia»

    Virgilio, però, è anche il poeta del «tu regere imperio populos, Romane, memento». Qui, per il dominio imperiale, è Roma sola che figura, e non l’Italia. L’abbozzo di stato nazionale italiano, dalla guerra sociale al principato augusteo, è un breve intermezzo fra la «polis» romana e l’impero universale.
    Nonostante quell’indirizzo italico augusteo di cui abbiamo parlato, fra l’Italia e le province si andò operando un pareggiamento progressivo; non senza resistenza, almeno all’inizio, della coscienza nazionale romano-italiana, come si vide nella opposizione incontrata da Claudio quando volle aprire sistematicamente il Senato e in genere le alte cariche (il «jus honorum») ai Galli. Ma da Vespasiano in poi si accentuò il livellamento, nel quale rientrano, da Adriano in poi, gli intacchi all’autonomia municipale. Caracalla, estendendo la cittadinanza a tutti gli uomini liberi dell’impero, realizzò la parificazione dell’Italia alle province sul piano politico. Infine, con la riorganizzazione dioclezianeo-costantiniana l’Italia divenne una diocesi della prefettura d’Italia, divisa – come tutto il resto dell’impero – in province, al posto delle regioni augustee.
    «Ex tenebris lux». Lo sgretolamento dell’impero d’Occidente fece sì che nella seconda metà del V secolo d. C. l’Italia, rimanendo isolata, riacquistasse la sua personalità distinta: o, piuttosto, che questa, rimasta sempre nella coscienza degli Italiani, riapparisse anche ai non Italiani, ed emergesse nella realtà politico-territoriale. Quando Odoacre assume in Italia il governo, in cui è poi sostituito da Teodorico, Italia e impero hanno in Occidente presso a poco gli stessi confini. Romani e Italiani ridivengono termini sostanzialmente identici come negli ultimi tempi della repubblica.
    È vero che il pareggiamento formalmente avviene nel senso, che gli Italiani sono romani, soggetti come molti altri popoli non Italiani all’imperatore romano risiedente a Costantinopoli. Ma di fatto l’identificazione, anche nella coscienza dei barbari e perfino dei bizantini, gioca nel senso contrario: i Romani d’Italia fanno figura di un popolo a sé, il popolo degli «Itali».
    Nelle lettere di Cassiodoro (epistole ufficiali della cancelleria gotica) il termine «Italia», usato talora in senso puramente o prevalentemente geografico, in altri casi forse più numerosi indica un organismo sociale unitario, un popolo distinto e uno: si parla del «bene di tutta l’Italia», delle membra tutte d’Italia, del decoro, della quiete dell’Italia. Troviamo anche una distinzione fra «nomen romanum» e Italia; il primo si è diffuso per il mondo partendo dalla seconda. In un caso (unico a mia conoscenza) si parla di «regnum Italiae», mentre Teodorico formalmente era re dei suoi Goti, e non degli Italiani: re etnico, non territoriale. Quel «regnum Italae» (Var., II, 41) potrebbe essere sfuggito alla penna di Cassiodoro venendo su da una oscura subcoscienza che l’Italia si avviasse, come la Gallia, come la Spagna, a formare un nuovo stato a sé, «sui juris»[1].
    Procopio, lo storico bizantino della guerra gotica, ci offre qualcosa di anche più significativo. Egli parla abitualmente di Goti e Italiani, non di Goti e Romani. In lui, cioè, la riduzione di «italiano» a «romano» è abbandonata, al punto che, mentre gli Italiani sono sempre chiamati così, come un popolo (unitario) con propria personalità, l’esercito imperiale è indicato esso col termine: «i Romani».

    (...)


    [1] Meno conta – perché più recente scrittore e vivente al di fuori del mondo romano – Gregorio di Tours, che nella Historia francorum chiama Teodorico «rex italicus» (III, 5; Arndt, 112, 2) e «rex Italiae» (III, 31; Arndt, 134, 17): pur tuttavia, vale la pena di ricordarlo.
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    6. Longobardi e bizantini

    La divisione dell’Italia in «bizantina» e «longobarda», provocata dalla invasione di Alboino e successori, apre una «questione italiana» che sarà risolta solo tredici secoli dopo, il 20 settembre 1870. Lo spezzamento dell’unità territoriale-nazionale non è accettato come fatto compiuto, né dai Bizantini né dai Longobardi, né dagli Italiani. I primi aspirano alla riconquista, i secondi ai completamento della conquista: il «tertius patiens», il popolo italiano, se respinge i Longobardi, non ama gli imperiali, e per quel che può organizza una vita a sé. Non rinnega l’impero, in quanto sotto le sue ali trova più facile conservare la sua personalità, e spera di ritrovare la sua unità. In tutte tre le parti in presenza è ugualmente chiara l’idea che l’Italia è una entità da ricostruire. Si ricordi, per quel che concerne i Longobardi, il gesto simbolico di Autari (Paolo Diacono, III, 32), che percuote con la lancia la colonna sorgente nello stretto di Messina, esclamando: «Fino a qui saranno i confini dei Longobardi».
    Nel periodo gotico il popolo italiano, quando compare – ben raramente – sulla scena, vi figura sostanzialmente passivo. È proprio nel periodo longobardo che esso torna attivo: per la resistenza ai Longobardi, ma all’occorrenza (come s’è accennato) anche ai Bizantini. Resistenza militare: «Italiae milites», scrive una volta (V, 12) Paolo Diacono; e queste milizie italiane locali compaiono frequentemente nella Historia Longobardorum come nel Liber pontificalis del ravennate Agnello. Esse sono milizie cittadine, indicate come tali: subordinate ai «duces» bizantini, ma con propria organizzazione e propri capi, nel quadro delle città più importanti. Siamo all’inizio del particolarismo italiano, che d’ora in poi si manterrà e progredirà. Ma in questo particolarismo c’è un doppio elemento unitario: per l’analogia delle istituzioni, da una città all’altra; e perché, tutte insieme, queste organizzazioni cittadine concorrono a ricostruire la personalità del popolo italiano.
    Questa combinazione di particolarismo e di unitarismo, caratteristica fondamentale di tutta la successiva storia italiana fino alla unità del 1861, fece la sua prima grande prova con la ribellione contro il governo di Leone III l’Isaurico fra il 725 e il 730 all’incirca: quella che è stata detta a ragione «la rivoluzione italiana», estesasi dalla Venezia a Roma. Essa non ebbe un capo politico proprio: lo sarebbe forse potuto divenire Liutprando re dei Longobardi offertosi alleato; ma non fu accettato dagli Italiani, mentre il pontefice, capo religioso, contrastò tanto l’espansionismo di Liutprando quanto il tentativo italiano di darsi un proprio imperatore.
    Così nel gioco del particolarismo e unitarismo entrava un nuovo fattore, il papato: antiunitario doppiamente come quello che combinava il particolarismo del principe locale con l’universalismo del pontefice avviantesi alla teocrazia, e pertanto non favorevole per sé neanche al necessariamente laico particolarismo nazionale; e portato dal suo stesso interesse ad opporsi a egemonie, alle indigene ugualmente, e più, che alle straniere. In questo viluppo rimasero irretiti gli ultimi re longobardi, che pure erano giunti con Astolfo a riconoscere, accanto al loro popolo, la personalità del popolo italiano - «traditum nobis a Domino populum Romanorum», dice Astolfo nel prologo al suo primo editto – e a presentarsi in Ravenna come eredi dell’impero. Divenuto fattore politico primario, il papato temporale dette la spinta alla eliminazione del re longobardo, sostituito da quello franco.
    La sostituzione portò un duplice peggioramento nelle condizioni italiane. L’Italia divenne appendice di un impero straniero; e si accrebbe la sua divisione politico-territoriale. Accanto all’Italia settentrionale, già longobarda e adesso franca, si ebbe nella centrale il dominio pontificio dai limiti non bene determinati, mentre nella meridionale nuclei diversi residuali dell’Italia bizantina si intersecavano con il persistente longobardo ducato di Benevento, che andò ben presto incontro a suddivisioni. A questi peggioramenti dal punto di vista della unità non era sufficiente compenso il consolidamento di nuclei autonomi (Roma, Napoli, Benevento, e soprattutto Venezia). Questi rappresentavano una molto parziale ricomparsa del popolo italiano sulla scena politica, di fronte alla nuova eclissi che, dopo la grande affermazione della rivolta antibizantina, esso aveva subìto nel duello franco-longobardo. Questo era terminato con una vittoria franca che non significò eliminazione dei Longobardi come elemento locale dominante:

    col nuovo signore rimane l’antico;
    l’un popolo e l’altro sul collo vi sta.
    (MANZONI)

    Che tuttavia persistesse, negli Italiani dominati e negli esteri dominatori, la coscienza che l’Italia formava un tutto unitario, e anzi, che questa coscienza si facesse più chiara, ne è prova simbolica il fatto che nel corso del periodo carolingio entra nell’uso il termine di «regnum Italiae», mentre pure re Carlo si era intitolato «rex Francorum et Longobardorum». La sostituzione, nella titolatura del regno, del territorio «Italia» al nome dei popoli stranieri che in quel territorio si erano stabiliti dominatori, indica il passaggio dalla regalità etnica (di etnicità straniera) a quella territoriale, e così un primo ritorno in scena della entità Italia, non soltanto geografica, anche se quel titolo indicasse più specificamente l’Italia settentrionale. Rilievo che va completato col fatto che per l’istituto dei diritti personali appare adesso chiara e incontestata la parificazione di valore della legge romana accanto alla longobarda e alla franca: parificazione destinata a divenire preponderanza, e infine esclusività. Si sa che l’unico elemento etnico importante, accanto a quello romano-italiano, fu il longobardo; ma già nel corso del secolo nono si opera sostanzialmente la fusione del secondo col primo.
    In quanto ai re d’Italia del periodo carolingio e di quello seguente, del cosiddetto – malamente detto – regno italico indipendente, i fatti sono là a dimostrare che essi, anche se non rivendicassero formalmente la sovranità diretta su tutto il territorio della penisola, affermavano tuttavia (e all’occasione esercitavano) un diritto di alta ingerenza: e poco importa per il nostro tema se la rivendicazione avvenisse in forza del titolo regio, o di quello imperiale che essi unirono abitualmente al primo.
    È qui il momento di avvertire che la cosiddetta restaurazione dell’impero di Occidente, mentre non aggiunse nulla al riconoscimento della entità geopolitica unitaria «Italia», compromise permanentemente – per tutta la durata del Sacro Romano Impero – l’autonomia italiana; e con l’artificiale, effimera reviviscenza di una romanità imperiale, tornò altresì a confondere e deviare la coscienza nazionale italiana. E mentre il popolo romano – locale – faceva figura formale e parziale di donatore, o conferitore, della corona imperiale, la corona italica, cioè quella veramente interessante per il popolo italiano, divenne dopo la morte di Ludovico II puro trastullo dei grandi feudatari di stirpe straniera, spartentisi la sovranità effettiva sul territorio della penisola.
    Nel periodo carolingio-feudale, se vogliamo ricercare le tracce di una persistente coscienza nazionale, le troveremo innanzi tutto in talune manifestazioni di vita cittadina, che si riscontrano almeno dalla metà del secolo IX (amministrazione dei beni pubblici, organizzazione per quartieri). Non sarebbe infondato attribuire un valore nazionale al famoso canto delle scolte di Modena: di una nazionalità facente appello alla tradizione romana, sublimata nella luce cristiana:

    dum Hector vigil extitit in Troia
    non cepit eam fraudolenta Graecia

    vigili voce avis anser candida
    fugavit Gallos ex arce Romulea

    Nos adoremus celsa Christi numina

    Ma anche la più diretta coscienza di una nazionalità italiana, comune a tutta la penisola, trova qualche affermazione, specialmente nel Panegyricus Berengarii (Berengario I), ove ripetutamente gli «Itali» figurano in contrapposto a «Galli» e «Barbari».
    Con l’impero della dinastia sassone si stabilisce il legame definitivo fra regno d’Italia e Sacro Romano Impero, e cioè la dipendenza, l’annessione del primo rispetto al secondo. Contemporaneamente, si ribadisce il concetto territoriale unitario dell’Italia: i re-imperatori sassoni, salici, svevi per tre secoli agiscono sistematicamente come sovrani, o alti sovrani, di tutta la penisola, come si vede particolarmente bene nelle tante spedizioni (sia pure effimere) nel Mezzogiorno, contro Greci, Longobardi, Normanni; e soprattutto in Federico II, che sostanzialmente fece del regno di Sicilia la sua base per la sottomissione dell’Italia centrale e settentrionale. Di contro a questo unitarismo imperiale straniero serpeggia, e ogni tanto esplode, l’autonomismo indigeno, anch’esso a tendenza unitaria, come si vede nella candidatura di re Arduino, e nelle insurrezioni popolari di Roma e di Pavia.

    (...)
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  7. #7
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    Predefinito Re: Luigi Salvatorelli: la formazione storica della nostra unità (1987)

    7. Lo splendore dell’età comunale

    Siamo al duodecimo secolo. Attraverso il rifiorire della economia italiana, attraverso la fusione ormai completa degli elementi stranieri (particolarmente longobardi) nell’«etnos» italiano, attraverso la formazione di nuove classi sociali, di nuove élites dirigenti, attraverso la poderosa rinascita culturale, dal diritto romano alle cattedrali romaniche, il popolo italiano – nato con la guerra sociale, organizzato localmente secondo la Lex Julia municipalis alla fine della repubblica, incluso nell’universalismo imperiale, soggetto passivo nel periodo romano-barbarico, bizantino-longobardo, franco-germanico, ma con un inizio di risveglio e di formazioni particolari – rinnova la sua consistenza e la sua vita, in una giovinezza splendidamente gagliarda. «Era il popolo di cento città diverse ed affini, nemiche e sorelle. Parlavano, nella varietà dei dialetti, una stessa lingua; si reggevano con le stesse istituzioni (i consoli a capo, i consigli di cittadini al loro fianco, il parlamento del popolo alla base); un medesimo spirito li animava. Era uno spirito di vita piena e di attività gioiosa, rivolta al possesso del mondo esteriore con freschezza di desiderio» (Salvatorelli, Vita di San Francesco d’Assisi, pp. 13-14).
    Mentre in Italia settentrionale e centrale trionfa il Comune, nel Mezzogiorno il «bellum omnium contra omnes» sbocca nella unità del regno di Sicilia. Uno sviluppo comunale, accanto alle formazioni campane di altra origine, si ebbe anche nel Mezzogiorno (basti ricordare il comune di Bari); ma il regno normanno arrestò questo sviluppo, e gli Svevi succeduti ai Normanni sostanzialmente lo annullarono. Se nell’Italia regia del Sud si afferma – con precedenza sugli altri paesi d’Europa – la unificazione statale, nell’Italia comunale l’apparente sminuzzamento non deve celare la unità profonda costituita dalla analogia delle istituzioni, dalla identità della coltura, dai rapporti strettissimi economici e politici, infine dalla tendenza confederativa, che ebbe la sua manifestazione massima nella Lega lombarda del 1167 – dotata anche di norme giuridiche per regolare gli interessi reciproci e le eventuali controversie -, rinnovata al tempo di Federico II. Rimane il fatto, che non si arrivò a confederazioni stabili come in Svizzera o nei Paesi Bassi. «La molteplicità dei centri cittadini, l’intreccio degli interessi, la mancanza delle condizioni naturali per una delimitazione cantonale impedirono lo sviluppo del principio confederativo, e mantennero tutta la vita politica italiana in una condizione di fluidità» (Salvatorelli, Sommario della storia d’Italia, p. 197).
    Ciò nonostante, i Comuni italiani sapevano perfettamente di appartenere alla stessa nazione; e di questa coscienza nazionale unitaria troviamo ampie testimonianze nella letteratura del tempo, prima ancora di arrivare alle veementi apostrofi di Dante e di Petrarca. Ed è proprio questo il tempo in cui sorgono una letteratura e un’arte italiane, con qualche ritardo sulle altre nazioni occidentali, ma con il rapido raggiungimento di cime da queste non toccate. Né un Dante né un Giotto si ritrovano al di là delle Alpi. E non dimentichiamoci il diritto romano, che da Bologna si estese a tutta Italia – più tardi anche fuori – come suprema norma giuridica comune.
    Il tema dell’unificazione politica d’Italia si pone adesso ben più chiaramente che non nell’alto medioevo. Gli imperatori svevi – più di ogni altro, come s’è già accennato, Federico II – compiono sforzi straordinari per raggiungerla a loro pro, e falliscono, per insufficienza di mezzi, ma più ancora perché il popolo italiano tutto – Italia comunale e Italia regia, Guelfi e Ghibellini – non voleva quella unità, che sarebbe stata tirannica compressione della splendidamente molteplice fioritura nazionale. Questa resistenza comune rappresenta essa stessa una volontà politica unitaria; mentre il fatto che i comuni italiani non rinnegarono mai integralmente in radice, l’autorità imperiale, è una conferma della esigenza unitaria presente nella loro coscienza. E se ai partiti guelfo e ghibellino dobbiamo riconoscere una consistenza ideale, al di là della contingenza politica immediata e locale, noi la ritroveremo appunto nelle due soluzioni contrapposte del problema politico unitario, affermanti sopra a tutto, l’una le autonomie singole, pur nella unità della nazione; l’altra, la necessità di una norma superiore comune.
    Soluzioni contrapposte, ma non escludentesi totalmente. Anche il partito guelfo portava in sé una tendenza unificatrice, almeno nel senso di una egemonia direttiva. Carlo e Roberto d’Angiò mirarono anch’essi a raggiungere in Italia una preminenza che, conseguita, avrebbe dato loro la posizione (con o senza il titolo) di re d’Italia.
    Non sarebbe una grande esagerazione quella di chi dicesse che il problema dell’unità domina tutta la storia italiana del Trecento. Si ripensi: la spedizione di Enrico VII, la Divina Commedia e il De Monarchia di Dante; Petrarca, che vagheggia la costituzione di una monarchia nazionale, e crede che Roberto d’Angiò – di cui abbiamo richiamato la politica egemonica panitaliana – possa esserne il titolare[1]; la messa in scena di Cola di Rienzo, che invita le città italiane a stringere «una santa unione» con Roma; l’aspirazione di Mastino della Scala a farsi «re di Lombardia», seguìta dal quella di Gian Galeazzo Visconti a farsi re d’Italia[2]. E ancora, Firenze che si fa paladina della indipendenza e libertà d’Italia – dell’Italia come un tutto – con la penna dell’umanista Salutati e con la spada; Urbano VI, che esalta Alberico di Barbiano – vincitore a Marino delle truppe straniere dell’antipapa Roberto di Ginevra – regalandogli uno stendardo papale col motto «Italia dai barbari liberata».

    (...)


    [1] Direi che più impressionante del Petrarca è la testimonianza dell’aspirazione a una monarchia nazionale unitaria dataci da un versificatore di terz’ordine, Bindo di Cione del Frate, il quale però attende codesto re dall’imperatore (Carlo IV): «che preghi quel Buemmo, che ‘l può fare, / ch’a lor deggia donare / un vertudioso re che ragion tegna / e la ragion dello ‘mperio mantegna» (v. Poesia del Duecento e del Trecento, Einaudi, p. 600). Combinazione dell’ideale imperiale e di quello nazionale, a cui, mi sembra, né Dante, né Petrarca erano arrivati in forma così precisa. Interessante anche, nella stessa canzone «Quella virtù che ‘l terzo cielo infonde», la delimitazione geopolitica dell’Italia: «Canzon mia, cerca il talian giardino / chiuso d’intorno dal suo proprio mare, / e più là non passare» (ivi, p. 601).

    [2] Occorre ricordare che «le muse stipendiate, volgari e latine, si levarono in coro ad augurare riunita in un sol corpo tutta l’Italia sotto la signoria del Biscione» (ROSSI, Storia della letteratura italiana, I, 312). «Stipendiate» quanto si vuole; ma esse non avrebbero intonato quel ritornello, se non ci fossero state orecchie numerose disposte ad ascoltarlo. La più famosa serie di quella poesia propagandistica è la corona di otto sonetti tessuta nel 1388 da Francesco di Vannozzo, in cui il Visconti è invocato dalle città dell’Alta e Media Italia.
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    Predefinito Re: Luigi Salvatorelli: la formazione storica della nostra unità (1987)

    8. Egemonia principesca e libertà cittadina

    La lunga battaglia italiana fra egemonia principesca e libertà cittadina terminò a mezzo il secolo XV (pace di Lodi del 1454) con i cinque principali stati equilibrantisi fra loro. Voleva essere, coscientemente, una soluzione del problema unitario, congiungente la «libertà d’Italia» (cioè l’autonomia dei diversi stati) con l’unione: e la «santissima lega» allora conclusa aspirava ad assicurarne la stabilità con lo strumento della confederazione.
    Si sa come il quarantennio intercorso fra la pace di Lodi e la discesa di Carlo VIII rispondesse assai imperfettamente a queste aspirazioni, le quali tuttavia rimasero un motivo conduttore di tutto quel periodo. Non è possibile in esso far la storia di uno qualsiasi dei cinque stati senza farla contemporaneamente degli altri quattro: l’intreccio fra loro è strettissimo, e sullo sfondo della comune cultura e civiltà rinascimentale costituisce veramente, per chi non sia sordo e cieco, la storia di una sola nazione.


    9. La fine dell’indipendenza italiana

    Il funzionamento imperfetto, inorganico, «a singhiozzi», del sistema paraconfederativo fu travolto dalle preponderanze straniere. Le due nazioni occidentali che avevano realizzato la unificazione statale, dall’Italia non raggiunta, adoperarono la forza così acquistata per espandersi nella penisola italiana, contendendosene il possesso di questa o quella parte, e l’egemonia sul tutto. La lotta finisce con la vittoria della Spagna: e abbiamo i quasi due secoli di «preponderanza spagnola»; una preponderanza, tuttavia, sistematicamente contrastata, e parzialmente neutralizzata, dalla Francia.
    Il periodo delle «dominazioni straniere» è proprio quello in cui il problema di un assetto unitario italiano diviene una questione europea, costituendo uno degli assi intorno a cui gira la politica delle grandi potenze. Quando tramonta il periodo delle lotte egemoniche e succede quello dell’equilibrio europeo, si comprende man mano anche dalle potenze straniere che un ragionevole equo assetto d’insieme dell’Italia è un elemento essenziale di quell’equilibrio. Al giuoco politico delle grandi potenze il popolo italiano assiste prevalentemente passivo, in quanto ad azione politico-militare; ma, dal principio del Cinquecento alla seconda metà del Settecento – dal Machiavelli all’Alfieri -, l’esigenza nazionale unitaria è sempre presente a una élite italiana politica e culturale; e se ne studiano e discutono i modi di soddisfacimento. Chi propugna fin d’ora – di fronte alla Spagna dominatrice – una confederazione dei principi rimasti formalmente liberi; chi crede, a ragione, che per fare la confederazione ci voglia la precedente cacciata della Spagna; ma v’è anche, già al tempo di Emanuele Filiberto, chi preconizza «un ben unito ovile, e un sol pastore»; voce alla quale altre voci seguiranno, auspicanti l’unione d’Italia sotto Carlo Emanuele I. V’è anche chi avverte realisticamente (Zuccolo) che solo la conquista potrà risolvere la questione[1].

    (...)


    [1] Rimando al notissimo lavoro di V. DI TOCCO, Ideali d’indipendenza in Italia durante la preponderanza spagnola.
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    Predefinito Re: Luigi Salvatorelli: la formazione storica della nostra unità (1987)

    10. Verso la nuova Italia

    L’Italia illuministica non ci presenta, rispetto ai due secoli precedenti, un maggiore interesse indigeno per il riassetto politico-territoriale, che pure costituisce più che mai una questione internazionale: ma uno tanto più intenso per il progresso interiore, per la vittoria dei «lumi», della civiltà, della umanità: integrazione, o piuttosto preparazione necessaria della rigenerazione politica e altresì rafforzamento ed elevazione unitaria della coscienza nazionale. Su questo terreno si prepara l’associazione indissolubile del trinomio «indipendenza, libertà, unità»: edizione italiana di quello rivoluzionario francese «liberté, égalité, fraternité».
    Non per questo l’idea della unità territoriale-statale manca al Settecento italiano: la troviamo in Genovesi, Baretti, Galiani, fino alla ipotesi dell’Alfieri del condensamento – il termine è mio – dell’Italia in due soli stati, uno dei quali potrà assorbire l’altro.
    Perché l’ideale millenario della unificazione politica divenisse programma concreto e immediato di azione, occorreva una scossa di fondo al sistema politico-territoriale europeo. La scossa venne con la rivoluzione francese.
    Alla fine dell’agosto 1796, l’insurrezione di Reggio Emilia – celebrata dai patrioti del tempo come inizio del moto risorgimentale – provocava una canzonetta popolare cantata per le vie di Milano:

    Vieni in seno ai tuoi fratelli,
    Bravo popolo reggiano;
    Una madre, un suolo istesso
    Ci dié vita e ci sostiene:
    È nemico al comun bene
    Chi è nemico all’unità.

    Il 27 settembre 1796 la provvisoria «Amministrazione generale di Lombardia» indisse un concorso sul tema: «Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia», considerando così come acquisito che si dovesse trattare di un governo abbracciante tutta l’Italia. Vinse, come si sa, il concorso, Melchiorre Gioia, che nel suo saggio propugnava la repubblica «una indivisibile».
    Così lo stato unitario italiano si trova, come programma di immediata attuazione, all’inizio del ciclo risorgimentale, anziché (come molti ancora s’immaginano) al suo termine.
    Considerato sotto l’aspetto della unità statale, il Risorgimento costituisce la fase finale, risolutiva, di un problema postosi – non solo nella materialità dei fatti, ma nella coscienza dei loro protagonisti – all’indomani stesso della invasione longobarda, dodici-tredici secolo indietro; e, con alti e bassi, in forme e vicende svariate, non più scomparso dal teatro della storia. Dietro quel problema stava la coscienza nazionale italiana, di cui abbiamo registrato l’atto di nascita al ribattezzamento di «Corfinium» in «Italica», e da allora in poi mantenutasi, incrementatasi, talora anche oscuratasi, ma nell’insieme della traiettoria storica sviluppatasi continuamente, in circolo con la comunanza di vita sempre più larga e profonda, fino al meriggio risorgimentale. E quella esigenza italiana era divenuta sempre più nettamente, nel periodo rivoluzionario-napoleonico e nel corso successivo del secolo decimonono, parte integrante dell’equilibrio e concerto europeo, e più ancora della necessaria trasformazione di tutta l’Europa in senso nazionale e liberale.

    Luigi Salvatorelli

    https://www.facebook.com/notes/giova...7796376978616/
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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