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    Predefinito Perché autunno del Risorgimento




    Post-fazione a Giovanni Spadolini, “Autunno del Risorgimento. Miti e contraddizioni dell’unità”, Edizioni della Cassa di Risparmio di Firenze, 1986, pp. 421-430.


    Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Pio IX, a braccetto, sullo sfondo della Roma da brevi anni capitale, nel gennaio del 1875, alla vigilia dell’arrivo nell’Urbe dell’Eroe dei due mondi eletto da poco deputato del primo collegio romano. La fantasia di Casimiro Teja adombra sul Pasquino, con l’immagine ammiccante e ironica da noi scelta per la sopraccoperta di questo volume, il superamento dei contrasti del Risorgimento, l’abbandono delle intolleranze e delle «guerra di religione» che avevano diviso liberalismo e cattolicesimo, che avevano contrapposto le due stesse versioni e interpretazioni, moderata e radicale, del nesso unitario.
    «In qual città del mondo si può, come a Roma, godere uno spettacolo molto simile a questo?» È la didascalia che accompagna il disegno emblematico, diventato, in breve giro di mesi, popolarissimo. Ma è una didascalia in cui la nota amara e quasi di accorato ripiegamento prevale su ogni «trionfalismo».
    I protagonisti della grande stagione risorgimentale stanno per uscire di scena. Il Re che risiede controvoglia a Roma, che abita pochissimo le stanze del Quirinale, che si rifugia quando può nei grandi boschi di Castelporziano, il Re, che ricorda la sua Torino con una vena di pungente nostalgia e forse rimpiange per un attimo le stesse stanze di palazzo Pitti, non è più il Sovrano guerriero e corrusco di una certa iconografia risorgimentale, non ha più, nella stessa vita dello Stato, l’incidenza diretta e talora paralizzante che ha avuto nel decennio fra il ’60 e il ’70.
    La vecchia Destra, che comprende i notabili di più stretta obbedienza monarchica, sta per abbandonare il timone del potere: vittima dei suoi logoranti contrasti intestini, incapace di ritrovare, dopo la conquista della capitale, la linea di austerità sacerdotale e di dedizione ascetica alla causa unitaria che ne aveva caratterizzato i momenti di più intensa vibrazione, da Cavour in avanti.
    E il generale? È un po’ l’ombra di se stesso. Piegato dal male, isolato nella sua Caprera, Garibaldi rivive, nella tarda fantasia senile, i grandi momenti di una vita impareggiabile, rimasta misteriosa a lui stesso. La presenza di Garibaldi si sente più nei convegni per il libero pensiero, o nella grandi fiaccolate anticlericali, che nel vivo della battaglia politica e civile volta ad allargare le basi dello Stato appena nato, gracile, malfermo, insidiato da tutte le parti. In quel viaggio, che Teja ci ha simbolicamente tramandato, il Re vincerà tutti i rigori del protocollo – quasi a pagare il debito di Teano – recandosi incontro all’antico comandante delle camicie rosse semi-infermo, ad esprimere quasi plasticamente il tributo della Monarchia verso la Rivoluzione, stancamente e malamente incanalata nei binari del processo nazionale e unitario.
    Sennonché Monarchia e Rivoluzione non sono più quelle che avevano dominato gli stessi anni, tempestosi e roventi, del triennio cavouriano. Le grandi lotte si sono spente; i grandi contrasti si sono appannati. Con la breccia di Porta Pia, sono entrate in Roma, un po’ di soppiatto, e la tradizione monarchica e quella garibaldina: Raffaele Cadorna, il generale del vecchio Piemonte un po’ chiuso e arcigno e cattolico, a fianco di Nino Bixio, il simbolo del garibaldinismo confluito nelle file dell’esercito regio. La legge delle Guarentigie ha chiuso, almeno per sessant’anni, l’aspra polemica fra moderati e «ultras» dell’anticlericalismo: ha prevalso una soluzione cavouriana a metà, separatista a metà, non tale da soddisfare la sinistra e il vecchio partito d’azione ma tale comunque da imporre, ai radicali di una volta, quando diventeranno classe dirigente e di governo, un dovere di obbedienza ogni giorno meno perplessa, ogni giorno più convinta.
    E il Papa? Pio IX è chiuso ormai, nel Vaticano, nella rocca della sua intransigenza: presidiato dalle frontiere del Sillabo e del Concilio vaticano primo, difeso dal dogma dell’infallibilità. In apparenza, ogni porte con la civiltà laica e moderna è rotto; ogni possibilità di distensione o di compromesso con lo Stato italiano, consacrato dalla scomunica, è svanita nelle nebbie di una protesta infiammata e collerica.
    Ma la maggioranza del popolo italiano non ha dimenticato il Papa, amletico e innocente, dello Statuto e del «benedite gran Dio l’Italia», il Papa di Gioberti e del neoguelfismo, il Papa che ha acceso la prima grande passione nazionale del «Primato», a sfondo romantico e quasi archeologico, e mandato perfino le sue truppe a combattere per Carlo Alberto sui piani padani del ’48: i frammenti di quell’immagine lontana riaffiorano nel disegno di Teja, si riflettono in quella specie di tardiva riconciliazione che quasi sembra gettare un colpo di spugna sul dilaceramento del 1870 e sul profondo turbamento di coscienza che ha rappresentato il punto più alto della classe dirigente, insieme liberale e cattolica del Risorgimento.
    Pio IX e Vittorio Emanuele II usciranno presto di scena: a distanza di neppure un mese l’uno dell’altro, nel gelido inverno del 1878 (invano l’ultraclericale Giuseppe Sacchetti, invocando come don Bosco la mano vendicatrice della provvidenza sugli artefici del sacrilegio unitario, aveva scritto, alla notizia del decesso del Sovrano: «il Re è morto, il Papa sta bene»). Quattro anni dopo, in quel 1882 che segnerà l’avvento del trasformismo e della legge elettorale allargata – quasi vagito di una democrazia appena moderna -, seguirà l’addio di Garibaldi, la fine gloriosa del mito che Carducci celebrerà davanti all’angusta platea del bolognese teatro Brunetti, la scomparsa dell’ultimo protagonista del «tripartito» leggendario che d’ora in avanti si rifletterà nelle cartoline illustrate o nelle evocazioni della memoria.
    Ma già nella caricatura di Teja si sente il brivido dell’addio. È l’autunno del Risorgimento che comincia: la prosa che prende il posto della poesia; la legge severa dello Stato, e di uno Stato tormentato e roso da mille contraddizioni e da mille insufficienze, che prevale sui sogni della giovinezza lontana, sogni dov’è ormai difficile separare la generosità dalla retorica. Nasce una nuova classe dirigente, che non avrà partecipato alle battaglie del Risorgimento, che non avrà vissuto né il neoguelfismo né la Repubblica romana: il simbolo più compiuto ne sarà, dieci anni più tardi, col primo e non felice ministero, Giovanni Giolitti. La realtà di un paese travagliato da profondi squilibri e da quasi insanabili ingiustizie sociali finirà per apparire più grande, e più drammatica, dei prodigiosi e tanto spesso immeritati epiloghi risorgimentali: si diffonderà il socialismo, in una dimensione che non sarà più quella garibaldina o post-mazziniana, si organizzerà l’opposizione cattolica, oltre le catacombe del «non expedit», si trasformeranno le stesse basi della borghesia attraverso la lenta e stentata, ma inesorabile, rivoluzione industriale che si delinea all’orizzonte, che avanza alla fine del secolo.

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    Predefinito Re: Perché autunno del Risorgimento

    Abbiamo scelto quella caricatura di Teja per simboleggiare il tramonto di un’epoca, un tramonto con una forte vena di malinconia; ma l’abbiamo scelta anche per indicare un secondo «autunno», quello che accompagna negli anni settanta del nostro secolo, la religione del Risorgimento che rifiorì, all’indomani della sconfitta e della liberazione, in una parte non piccola degli italiani. Cosa dicono, quelle tre immagini, separate o a braccetto, alla maggioranza dei giovani di oggi, dopo la gran tormenta della contestazione, dopo la dissacrazione di tanti valori che è soprattutto colpa nostra, colpa delle nostre inadempienze e delle nostre insufficienze?
    Poco o niente. Garibaldi sopravvive quasi esclusivamente in virtù di una dimensione populista e retorica: per quel tanto di Che Guevara che è in lui, che tocca le vene di una protesta insieme libertaria e nichilista, che sollecita fermenti di volontarismo e di irrazionalismo che sono permanenti nella storia italiana e che spiegano tante degenerazioni e falsificazioni del garibaldinismo, dallo sfruttamento fascista a quello del Fronte popolare nel 1948. È la vena più esteriore, e diciamolo pure più inquietante, del personaggio problematico e contraddittorio che oscilla fra Washington e Buffalo Bill; piuttosto il piglio dell’avventura che non il tormento della passione nazionale o dello slancio per la libertà o della religione dell’umanità. Ma gli altri due «eroi», il vincitore e lo sconfitto, del moto risorgimentale? I baffi, e il cipiglio, e l’orgoglio montanaro e allobrogo di Vittorio Emanuele II - «fa pensare a un re unno, a un capo barbarico», aveva detto un contemporaneo, lo scultore Carlo Marochetti – non dicono quasi più niente ai giovanissimi, per cui il Risorgimento è un moto lontano e fastidioso, quasi quanto le guerre di successione, per cui la Monarchia è oggetto di ironia o di scherno politico, legittimato dagli ultimi epigoni, piuttosto che di un serio e rigoroso esame storico. Coi valori della Corona liberale e plebiscitaria dell’epoca prefascista, rischiano di perdere smalto anche quelli del liberalismo cavouriano, del liberalismo come mediazione di forze vive e feconde, come sintesi di contrari, come fede paziente nella storia, come operante «genio dell’azione» nel rifiuto di ogni estremismo, di ogni intolleranza: quali sono oggi la suggestione, e il richiamo vero, di Cavour?
    Quanto a Pio IX, il travaglio della Chiesa post-conciliare ha dissolto le ultime vestigia di un mito già logoro, cent’anni fa. Il dramma del rapporto fra cattolicesimo e patria, un dramma che pure rivisse, con accenti contraddittori ma non privi di grandezza, nel «cittadino Mastai» tende a spostarsi in un dramma ben più lacerante, la possibilità di far convivere la religione rivelata con le esperienze del pensiero moderno, l’antinomia fra una fede, che perde la poesia della tradizione, e una nuova forma di impegno cristiano, che si esaurisce nell’azione, e quasi sempre nell’azione sociale, nuova forma di conoscenza: che dispensa, alla lunga, da Dio.
    È l’autunno dei valori risorgimentali che incombe ormai sulla nostra generazione, un quarto di secolo dopo la vicenda della liberazione che pure aveva risuscitato, nei suoi tormentosi contrasti, sulle soglie della guerra perduta, tanti miti risorgimentali: dal volontarismo garibaldino alla Costituente, alla autodeterminazione dei popoli, alla Repubblica in senso mazziniano e rigeneratore. È lo scetticismo crescente sulla libertà, sulle garanzie dello Stato di diritto, sul valore della tolleranza, e del rispetto delle opinioni altrui. È un certo ritorno ai miti della «violenza» purificatrice, una violenza che unisce le sponde contrastanti dell’opposizione extraparlamentare, con accenti di irrazionalismo che riportano a pose dannunziane, a deteriori residui superomisti e nietzschiani.
    E la stanchezza della democrazia: una stanchezza che si traduce nel logoramento delle istituzioni, nella ricerca di alleanze di vertice capaci di colmare le insufficienze dei partiti, di aggirare gli ostacoli della storia e dell’ideologia. È il mito dei partiti di massa, con la perpetua riammiccante illusione, o speranza, dell’intesa fra rossi e neri, l’intesa tanto paventata dalle classi dirigenti del liberalismo post-risorgimentale: a tutto danno delle forze di opinione, dei gruppi di qualificato dibattito culturale o politico, appena appena sopportati, quando ripropongono etichette – i repubblicani, i liberali, parte del mondo socialriformista – che si richiamino a esperienze o a scaturigini risorgimentali.

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    Predefinito Re: Perché autunno del Risorgimento

    Il vecchio Stato, lo Stato centralistico e napoleonico sorto dalle armature improvvisate, e obbligate, della soluzione unitaria, è inceppato e praticamente in via di sgretolamento: non funziona più, sopravvive solo a livello di una burocrazia stanca, ogni giorno più svuotata e vanificata dalla classe politica. Premono nuove forme giuridiche e istituzionali, dalle regioni ai sindacati, che dovrebbero creare nuovi equilibri ma per ora, per un complesso di ragioni storiche profonde o di recenti inadempienze politiche, riescono solo a compromettere i vecchi, a sovrapporre i fermenti di una società civile in sviluppo e in crescita, anche tumultuosi, a quelli di una struttura statale che non è più in grado di accoglierli, di incanalarli e di disciplinarli. Con le conseguenze, dilaceranti e sconcertanti, che vediamo ogni giorno intorno a noi.
    Questo libro avrebbe dovuto intitolarsi «Risorgimento senza eroi»: se non ci fosse stato il precedente gobettiano, tanto ammonitore quanto paralizzante. È un tentativo di smitizzare il Risorgimento, senza rifiutare l’eredità, richiamandone i valori perenni, di libertà, di civiltà, di umanità. È la sintesi di quasi un quarantennio di studi, e di ricerche, sulla storia italiana: dalle posizioni originarie, ed acerbe, del gobettismo e dell’orianesimo storiografici, caratteristici del ragazzo inquieto e cercante degli anni quarantasette e quarantotto, fino agli approdi di una «religione della libertà», vissuta come esperienza di vita, dalla cattedra del «Cesare Alfieri» non meno che dalla congiunta, faticosa, sofferta milizia civile.
    Dovevamo chiedere in ideale prestito a Gobetti, al «nostro» Gobetti, quel suo titolo fascinatore delle vecchie favolose edizioni del «Baretti», quell’insegna di suggestione storiografica che lievitò nei nostri giovanissimi anni, accanto alle pagine della orianesca Lotta politica; ma non abbiamo osato. Abbiamo preferito richiamarci ad un classico della nostra storiografia contemporanea, ad uno dei maestri stimolanti della nostra adolescenza, a Johan Huizinga, trasferire il suo Autunno del Medioevo, in olandese Herfsttij der Middeleeuwen, in questo nostro e più casalingo Autunno del Risorgimento, simbolo di un ripiegamento del Risorgimento su se stesso ma anche del ritorno amaro di noi, che al culto del Risorgimento fummo educati, sui temi di fondo, più che mai aperti e brucianti, della nostra composizione unitaria.
    Libro sognato fin dagli anni cinquanta: abbozzato, cominciato, ripreso in mano, poi sempre rinviato. Prima: un impegno con l’indimenticabile Leo Longanesi, primo editore del Papato socialista, di dedicare una galleria di ritratti, anti-oleografici e anti-accademici, agli «Uomini che fecero l’Italia». Non solo i grandi, ma anche i minori: non solo Pellico ma anche Salgari, non solo Manzoni ma anche Stoppani. E poi l’abbandono dell’iniziativa per inseguire le piste dell’Opposizione cattolica, del Giolitti e i cattolici, dei rapporti fra le due rive del Tevere destinati a culminare nell’auspicio, o nella speranza, del Tevere più largo. I dieci e più anni dedicati allo studio del movimento cattolico: dai saggi lontani del Mondo di Pannunzio nel ’51 sull’Azione cattolica alle ricerche nei documenti inediti degli archivi giolittiani. E lo schema riproposto poi ancora sospeso: una volta discusso con Arnoldo Mondadori, quando, diventato all’improvviso direttore del Carlino agli inizi del ’55, dovetti abbandonare l’idea di scrivere, per la grande storia illustrata della casa milanese, L’Italia contemporanea, quella che mi ero già impegnato a redigere per contratto e che passò a Perticone (ed era mio desiderio giustificare l’inadempienza, riparare in qualche modo). Proposte di titoli che si succedevano le une alle altre: una volta «I padri della patria», una volta il sottotitolo di oggi, gli «Immortali di ieri». Sempre con un sottinteso di ironia, che era amore; sempre con una sfumatura di malizia, che nasceva dalla lunga, sofferta, immedesimante partecipazione.
    Libro riassuntivo ed emblematico di tutta una vita, in questo senso. Pagine che riassumono una curva di interessi costante e quasi struggente, dal periodo dell’adolescenza. Un incontro col Risorgimento che rimonta agli anni trentasette o trentotto, al ragazzo dodicenne o tredicenne che frequenta la libreria Giorni di via Martelli e scopre il primi libri di Gobetti e legge la Lotta politica di Oriani e via via arriva a Salvatorelli, a Omodeo, poi a Croce, in un rapporto complesso e singolare che non manca di essere condizionato dai tempi, dalle influenze del nazionalismo fascista dominante, ma sempre cerca una sua voce, una sua caratterizzazione. Che poi troverà nella «revisione» ereticale del Risorgimento, nello spirito contestatore e libertario da cui partiranno tutte le successive ricerche, e tutte le più mature conclusioni.
    Un Risorgimento insieme amato e respinto, insieme coltivato nei particolari dell’erudizione e superato nelle facili generalizzazioni degli schemi armati di sciabola. Il Risorgimento nella misura patetica e quasi elegiaca della vecchia, solida borghesia toscana: ma con sogni di evasione e di grandezza, con qualche vibrazione papiniana, da «uomo finito». Il Risorgimento scoperto in casa, nei libri gelosamente conservati da mio padre, in un filone di tradizione familiare che arrivava fino alla «camicia rossa» del nonno materno, invano e sempre ricercata nelle vecchie casse polverose delle cantine: frammenti, ricordi, immagini che esercitavano singolari suggestioni sull’adolescente lettore infaticabile e spesso disordinato, tanto avido di libri da subire le sanzioni paterne per i rischi alla vista, per il timore di complicazioni agli occhi. Il Risorgimento frugato nelle vecchie caotiche raccolte della casa di campagna di Santa Margherita a Montici, occhieggiante dai vecchi volumi dell’oleografia post-unitaria o dalle collezioni disordinate e frammentate di giornali o da quelle interminabili «Storie dei papi» o «Storie d’Italia» di cui non si riusciva mai a mettere insieme le serie esatte di tomi, nei solai della villa estiva (quando andare da Firenze a Pian de’ Giullari era un viaggio, e mezza casa si smobilitava, e si partiva il 28 giugno per tornare il giorno dei morti, e quasi era inconcepibile fare incursioni a Firenze; distanza, in tutto, cinque o sei chilometri). Il Risorgimento riaffiorante dalle stampe incorniciate nei corridoi, nelle stanze di servizio, nelle soffitte: stampe ingiallite, con l’arresto di Giuditta Tavani Arquati o qualche scena della Repubblica romana o il Re galantuomo al centro del campo di San Martino o l’immancabile sbarco dei Mille a Marsala.

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    Predefinito Re: Perché autunno del Risorgimento

    Ricordi che si affollano nella memoria: la prima asta libraria cui assistetti, con mio padre, neppure tredicenne, il 5 maggio 1938, nella vecchia libreria Gonnelli di via Ricasoli, quasi accanto al palazzo dell’antica Nazione, col dono – per me prezioso e indimenticabile – di un’edizione completa di Foscolo, modestissima nei caratteri – editore Lubrano di Napoli, 1887 – ma bella nella legatura, adornata dall’ex-libris dell’avvocato e deputato Giovanni Rosadi, una volta inquilino di casa nostra: il tutto aggiudicato per cinque lire, cinque lire di quel tempo. Oppure, qualche mese dopo, l’acquisto presso una bancarella di piazzetta Belle Arti, per venti lire, dei due grandi tomi usati della Storia della Repubblica di Firenze di Gino Capponi: edizione Barbèra, per il centenario dell’assedio, con richiamo alla tradizione risorgimentale della grande casa in via di dissoluzione e ricordo delle feste per l’uscita nel 1875 dell’opera del marchese vegliardo e cieco, quasi alle soglie della morte. E gli scritti di quegli anni, in una rivistina che «tiravo» in un solo esemplare, per i compagni del ginnasio Galileo: scritti dove affioravano molti ingenui e disarmati temi risorgimentali, e un capitolo sulla «letteratura garibaldina», e uno schizzo di Giuseppe Montanelli, e un tentativo di biografia di Pellegrino Rossi, e pagine su D’Azeglio e Tommaseo, perfino un opuscolo – sospeso fra letteratura e storia – su «Leopardi e l’Italia». E, naturalmente, molta Casa Savoia, ma concepita piuttosto come correttivo, in senso liberale e risorgimentale, alla magniloquenza conturbante dell’epoca: col culto un po’ trepido di Carlo Alberto, quale affiorava dalla visione di Rodolico, quasi punto d’incontro fra tutte le contraddizioni nazionali, eredità cattolica e inquietudini liberali, fedeltà al vecchio Stato e ansia del nuovo.
    Senza quelle radici lontane, senza quegli incontri familiari, senza quelle ansiose e tormentose e contraddittorie letture, questo libro non sarebbe mai nato. Pur col suo titolo malinconico, e commisurato alle malinconie dell’ora, quasi a riflettere l’attuale fase torbida e drammatica di trapasso della vita italiana, questo Autunno del Risorgimento rappresenta un atto di fede nella libertà, e nella sua finale vittoria contro tutte le insidie che la minacciano. Per chi, come me, è partito da una posizione di critica e quasi di contestazione del mito risorgimentale, da una vibrazione gobettiana di rivoluzione tradita o mancata, da una rielaborazione dei temi della protesta orianesca e repubblicana, l’approdo alla concezione della storia come «storia delle libertà» ha assunto un carattere definitivo: garanzia contro ogni seduzione di miti millenaristi, di religioni della «terra promessa».
    No: non ci sarà nessuna promessa di soluzioni dogmatiche o definitive per chi saprà restare fedele all’insegnamento dei padri, per chi vorrà attuare tutte le future trasformazioni della nostra società ma nel segno della democrazia e della tolleranza. La libertà sopravviverà in Italia nella misura in cui riuscirà a sopravvivere in ognuno di noi, quasi in scrinio pectoris. È questa la rivoluzione silenziosa, l’incontro fra la coscienza individuale e la coscienza collettiva, l’aderenza fra la libertà di ognuno e la libertà di tutti, la vera patria italiana inserita nella più grande patria europea: la rivoluzione sempre inseguita e sempre mancata nel corso di un secolo. E la sola che si conquista, e si fa avanzare, un po’ ogni giorno: con la discrezione, e con l’umiltà, e con la quotidiana fedeltà al proprio compito, molto più che con i manifesti o i messaggi delle vecchie e delle nuove retoriche.

    Giovanni Spadolini

    https://www.facebook.com/notes/giova...2799041145016/
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