A colloquio in occasione degli ottant’anni
a cura di Arturo Colombo – In «Nuova Antologia», a. CXXIV, fasc. 2172, Le Monnier, Firenze, pp. 185-203.
«Sì, Croce per noi ha avuto un’importanza fondamentale, è stato davvero il nostro maestro, la nostra guida spirituale. Non solo, ti dirò, per mantenere viva la lezione di pensiero liberale antifascista, ma perché con la sua serietà, con il suo rigore, ci ha educati a non essere mai dei dilettanti, prima di tutto culturalmente. Eravamo crociani, perché per noi il crocianesimo costituiva, intimamente, una indispensabile lezione di metodo. Non per nulla, fin dal 1925, Gobetti che aveva capito, o almeno aveva intuito tutto, aveva voluto definire Croce con poche parole, ma infallibili, come ‘il più perfetto tipo europeo della nostra cultura’. Solo più tardi, almeno per noi giovani intellettuali non comunisti, che avremmo aderito al movimento di ‘Giustizia e Libertà’ o al liberalsocialismo o al partito d’azione, l’iniziazione a Croce è stata anche la via maestra dell’antifascismo. Ma solo dopo: perché prioritaria, ti ripeto, per ciascuno di noi è stata la lezione di metodo di Croce, che in un ambiente come quello torinese ha avuto un influsso enorme, e duraturo».
Così mi risponde Norberto Bobbio, durante un colloquio che ho avuto con lui il pomeriggio di mercoledì 19 luglio. Siamo a Revigliasco, sulle colline intorno a Torino, fra Pecetto e Moncalieri, dove Bobbio sta trascorrendo alcune settimane tranquille in una specie di personalissimo «buen retiro», lontano dal caldo afoso e dalla «persecuzione» (il termine è suo) delle solite telefonate, spesso insistenti e importune. Qui invece, fuori dal traffico e dai rumori, prima di andarsene al Breuil per il consueto «relax» agostano, Bobbio si abbandona al gusto di una conversazione «libera», informale, off limits, dove i ricordi e gli aneddoti si alternano a quel tipo di riflessioni severe, persino pungenti, in cui si riflette tutta la forma mentis del Bobbio «filosofo».
«Proviamo!» mi aveva risposto, forse con una punta di perplessità, quando gli avevo chiesto che mi sarebbe piaciuto fargli raccontare, attraverso la sua esperienza diretta, almeno qualcuna delle impressioni «dal vivo» su quegli anni bui fra le due guerre, quando il fascismo era in sella, eppure di una vera e propria «cultura fascista» non si poteva affatto parlare. «Reso innocuo Gentile e tenuti a bada i gentiliani – ricordo che ha scritto proprio Bobbio in una pagina del suo Profilo ideologico del Novecento italiano, apparso nel 1969 e riproposto da Einaudi nell’86 – [il fascismo] non ha lasciato tracce, se non di artifici retorici, di gonfiezze letterarie, di improvvisazioni dottrinali, in una storia della cultura italiana».
È un giudizio duro e drastico; ma dev’essere anche il frutto di chi il ventennio nero l’ha vissuto direttamente, «dal di dentro», e quindi può parlarne con ben maggiore cognizione di causa di certi giovani professorini, sbrigativi e manichei. Un motivo di più, dunque, per raccogliere questa testimonianza bobbiana, quasi alla vigilia dei suoi ottant’anni (che ricorrono il 18 ottobre); e inoltre, un modo per proseguire la serie di incontri-interviste, che ho già avuto con altri testimoni del tempo, da Carlo Bo a Leo Valiani. «Ma Leo ha ben più cose da raccontare, rispetto a quanto posso dirti io» replica secco Bobbio, seduto quasi sullo sfondo di una grande finestra aperta, che lascia intravvedere il profilo di un bel paesaggio, degradante fin giù in fondo, nella pianura che sfuma all’orizzonte lontano.
L’Italia civile non è solo il titolo di un suo libro, che risale al ’64; è anche l’immagine-simbolo di quei «chierici che non hanno tradito», sui quali Bobbio ritorna spesso, proprio per dimostrare che nonostante certe bassezze, certi compromessi, persino certe viltà, c’è sempre stata «un’altra Italia» (l’espressione l’ha usata anche Gobetti), che non ha tradito; anzi, che ha saputo, e voluto, assolvere il proprio ruolo, magari a costo di sacrifici, ma con coscienza onesta, senza cedere alle lusinghe, o alle furberie, del solito «italico Arlecchino servo di tutti i padroni», come ha detto Bobbio già in un’altra occasione. Ecco perché mi sembra che la sua confessione autobiografica debba cominciare da lontano, dall’ambiente famigliare in cui è vissuto fin dagli anni liceali, quando la «svolta del ‘22» cominciava già a lasciare il segno.
«Siamo vissuti, a Torino, in un ambiente borghese, direi di borghesia medio-alta. Mio padre era un medico chirurgo, primario all’Ospedale San Giovanni, molto noto in città. Mia mamma, invece, Rosa Caviglia, era di Rivalta Bormida, un paese vicino a Acqui, dove tutt’ora abbiamo una casa. La famiglia paterna era di origine alessandrina, una famiglia di piccola borghesia intellettuale. Mio nonno Antonio era un maestro elementare, poi diventato direttore didattico; e a suo modo aveva dimostrato anche un certo impegno civile, scrivendo su un giornalino alessandrino, che si intitolava ‘La Lega’, di cui conservo le copie coi suoi articoli. Era un cattolico, il nonno Antonio; si era interessato di filosofia, e soprattutto di pedagogia, pubblicando un libro sulla filosofia dell’educazione di Roberto Ardigò, e un altro su Spencer, i due positivisti allora più in voga; anche se mio nonno si trovava, per così dire, sull’altra sponda, perché era un cattolico osservante. Ma ha scritto anche un terzo libro, quello più noto, dedicato a Manzoni, con un titolo che oggi può far sorridere tant’è datato, Il Vero, il Bello e il Buono nei ‘Promessi sposi’».
È raro che Bobbio rida di gusto; eppure, a ricordare quel libro del nonno, anche il suo profilo da Gufo Saggio di stempera in un sorriso spontaneo, che gli illumina ancor più lo sguardo, sempre severo e indagatore (quasi interrogativo) dietro le folte sopracciglia, ancor più massicce oggi che Bobbio non porta gli occhiali. «Ti dirò anzi – aggiunge in vena di confidenze – che con mio fratello Antonio, di due anni maggiore di me, quand’eravamo studenti al liceo e dovevamo svolgere un componimento manzoniano, saccheggiavamo il libro del nonno, pensando che dopo tutto non si trattava di un plagio, perché apparteneva a uno della famiglia, quanto a dire a uno di noi!».
Mentre parla, Bobbio dev’essersi accorto che questi frammenti di vita vissuta sollecitano la mia curiosità. Aguzza lo sguardo, quasi a identificare, fra i libri che riempiono uno degli scaffali più bassi della libreria che gli sta davanti, due grossi tomi rilegati; si alza, va a prenderli e si mette a sfogliarli, dicendomi: «Vedi, anche mio fratello ha seguito le orme poterne e è finito professore di clinica chirurgica all’Università di Parma; ma purtroppo si è ammalato e è morto da tempo. Così, quando ha cominciato a non star bene e a non poter più svolgere la sua attività di medico, ha deciso che ogni domenica noi due ci scrivessimo, in forma di lettera, i ricordi di famiglia: una specie di lessico famigliare. Lui è sempre stato puntualissimo nello scrivermi, io molto meno, anche per i miei impegni. Comunque, prima di andarsene, ha voluto raccoglierle tutte, sessantacinque lettere sue, tredici mie; le ha fatte fotocopiare e rilegare in questi due volumi, molto eleganti anche esteticamente, con le incisioni sul dorso, Lettere di un anno: 1963-64, e i nostri due nomi. Ci ha messo anche un indice-sommario e un indice di tutte le persone citate, da quelle più famose, Dante o Alfieri, a quei tipi, magari oscuri, di gente che girava per casa, il professor Camera, per esempio, o Pio Zuccotti, un notaio di Bosco Marengo, che era autore di una specie di componimento di polemica politica, in cui si leggeva, fra l’altro: ‘Su, o Dante e Machiavelli, che dei prenci avete scritto / su, sorgete dagli avelli / e venite qui a conflitto. / Insegnato, forse, avete / che il ben pubblico indietreggi? / Insegnato, forse, avete / l’adozione d’altre leggi?’».
(...)