Rosario Romeo (Giarre, Catania, 1924 - Roma, 1987)
di Rosario Romeo – In «Nuova Antologia», a. CXXIV, fasc. 2172, ottobre-dicembre 1989, Le Monnier, Firenze, pp. 120-132.
Sono tutte annotazioni, e suggestioni, e commenti di Rosario Romeo in rapporto alla revisione storiografica della Rivoluzione francese: il grande storico che ha lasciato, accanto alle opere costruite e definitive come il suo Cavour, una vasta serie di scritti che sono in via di raccolta e di ordinamento.
Queste pagine che «La Nuova Antologia» si onora di pubblicare fanno parte di due volumi fra di loro collegati, Scritti storici, Scritti politici (1974-1987), che l’editore Mondadori lancerà entro il 1990 con prefazione di Giovanni Spadolini[1]. Raccolta di tutti gli scritti di quotidiani, che in larga misura coincidono con la collaborazione di Romeo al «Giornale» di Montanelli, dopo gli anni in cui la sua firma era comparsa sul «Corriere della Sera» e prima ancora sulla «Stampa».
Sono cinque pensieri e giudizi sulla rivoluzione: pubblicati tutti sul «Giornale» nel corso di cinque anni dal 18 gennaio 1975 al 26 agosto 1980.
Il primo, Rivoluzione demitizzata prende spunto dal libro di François Furet e Denis Richet, La rivoluzione francese, tr. ital., Laterza, Bari, 1974.
Il secondo, Il terrore contraffatto, si rifà al testo di Marc Bouloiseau, La Francia rivoluzionaria, La Repubblica giacobina, 1792-94, Laterza.
Nell’articolo Una spada nel cuore, Romeo si sofferma sul metodo storiografico di Richard Cobb.
L’articolo La vigilia dell’89 si esprime in termini elogiativi sul lavoro di Paolo Alatri Parlamenti e lotta politica nella Francia del ‘700, Laterza, Bari, 1977.
Infine, l’articolo E la diga crollò analizza il saggio di François Furet, Critica della Rivoluzione francese, Laterza, Bari, 1980.
Valga quest’antologia di brani, mai raccolti in volume, come omaggio commosso alla memoria di Rosario Romeo.
1. Rivoluzione demitizzata
Il libro di François Furet e Denis Richet (La Rivoluzione francese, tr. ital., Laterza, Bari, 1974), che appare adesso in italiano, con un singolare ritardo rispetto alle traduzioni che ne sono già comparse in tutte le lingue principali, propone una visione della storia rivoluzionaria che si distacca da quella che fino a qualche decennio fa ha dominato quasi senza contrasto.
La rivoluzione dell’89, sino al suo coronamento nella costituzione del 1791, riacquista il posto preminente che già ebbe nella grande storiografia liberale dell’era romantica. Ai girondini, pur con tutti i limiti della loro azione politica, viene riconosciuta una creatività intellettuale senza pari nello schieramento rivoluzionario.
Soprattutto il Terrore, che cinquant’anni di storiografia marxista avevano collocato al vertice del processo rivoluzionario viene invece abbassato a risultante di uno «slittamento», prodotto «della contingenza e dell’emergenza», a vantaggio della rivincita antigiacobina del Termidoro: che non fu una reazione, nel senso politico oggi corrente, ma piuttosto lo sforzo con il quale il movimento rivoluzionario si ricollocò nel proprio alveo, e «superò se stesso cercando di consolidare le proprie conquiste essenziali: le libertà fondamentali e la proprietà disgiunta dal privilegio».
In francese l’opera era apparsa, per la prima volta, nel 1965. E si trattava di una deviazione troppo vistosa dall’ortodossia dominante, anche per i legami degli autori col gruppo influentissimo delle «Annales», perché i custodi più autorevoli di quella ortodossia, che fa capo alle «Annales historiques de la Révolution française», potessero lasciarla senza risposta. Si ebbe così un ampio saggio di Claude Mazauric, sviluppato poi nel volumetto polemico Sur la Révolution française (Paris, 1970): che suscitò, da parte dei due autori, repliche vivaci e argomentate, e dichiaratamente rivolte ad allargare l’àmbito del dissenso. Nella stessa direzione si muoveva intanto una serie di studi americani. Si è così sviluppato un ampio dibattito internazionale che ha scosso gravemente le basi stesse della visione marxista dominante negli studi rivoluzionari, al di là persino di quanto non fosse accaduto nell’opera generale di Furet e Richet, che ora viene presentata al pubblico italiano.
È infatti la stessa ispirazione originaria dell’indirizzo storiografico che si riallaccia all’insegnamento di Albert Mathiez ad esser messa in causa. Fin dal 1920 Mathiez aveva affermato che «giacobinismo e bolscevismo sono allo stesso titolo due dittature, nate dalla guerra civile e dalla guerra contro lo straniero, due dittature di classe, operanti con gli stessi mezzi, il terrore, la requisizione e le tasse, e che si propongono, in ultima analisi, uno scopo simile, la trasformazione della società, e non solo della società russa o della società francese, ma della società universale».
Appunto questo télescopage tra le due rivoluzioni, chiamate a fornirsi reciprocamente una giustificazione storica e una convalida politica, viene risolutamente denunciato da François Furet, additando il carattere «ideologico», nel senso specifico di rispecchiamento della coscienza che dei fatti ebbero i protagonisti, della storiografia che ne deriva. Insomma, per questa via la Rivoluzione è stata giudicata per ciò che i suoi attori credettero che fosse, e la coscienza che essa ebbe di se stessa è stata eretta a giudizio storico: col risultato di una distorsione di prospettive che conduce, al limite, a identificare pensiero storico e azione rivoluzionaria.
Furet non nega di essere gli stesso condizionato da una propria scala di valori, in stretta relazione con l’atteggiamento, assai diverso da quello di un Soboul, ch’egli ritiene di dover prendere nella realtà politica di oggi: ma insiste con vigore sulla insufficienza delle mediazioni culturali che hanno condotto i fautori dell’interpretazione ortodossa a posizioni nelle quali essi finiscono per far figura di «giacobini» in ritardo di due secoli piuttosto che di storici marxisti, quali si dichiarano e vorrebbero essere.
Ritorna, in questa polemica, un atteggiamento che già parecchi decenni or sono aveva indotto Lucien Febvre a chiedere, con aperta ironia, che gli storici rivoluzionari si decidessero a tralasciare la rissa ideologica e a «dirci, per pietà, che cosa è stata la Rivoluzione». Ma il significato di questi dibattiti più recenti sta soprattutto nell’aver messo in discussione lo stesso concetto della Rivoluzione francese come rivoluzione della borghesia: che è la categoria mentale con la quale essa si inserisce nella visione generale che il marxismo propone dello sviluppo della società moderna, ma che ha finito per avere cittadinanza anche in seno a orientamenti intellettuali assai diversi.
Nel 1965 quel concetto era tuttora presente nella storia rivoluzionaria di Furet e Richet: ma adesso essi avvertono, nella presentazione della edizione italiana, che «l’ulteriore orientamento delle nostre ricerche ci spinge a rifiutare il concetto di rivoluzione borghese come chiave dell’esplosione liberatoria del 1789». Quando Alfred Cobban, nel 1954, aveva osato affermare che non di un concetto si trattava, ma di un mito, Georges Lefebvre aveva replicato che negare la Rivoluzione come rivoluzione borghese significava negarne addirittura la realtà. E tuttavia, le prove sempre più estese di movimenti non già antifeudali ma anticapitalistici nelle campagne; la distinzione che si viene delineando tra borghesia di antico regime, redditiera e improduttiva, e borghesia imprenditoriale, che nel ceto politico rivoluzionario ha una parte nettamente minoritaria; la evidente continuità del «modo di produzione» e delle strutture prima e dopo la tempesta rivoluzionaria, rendono assai difficile proprio la sopravvivenza di quel concetto. Va anzi sottolineato che ad un analogo rifiuto del concetto di rivoluzione borghese è anche pervenuto un recente lavoro italiano (R. Zapperi, Per la critica del concetto di rivoluzione borghese, De Donato, Bari, ’74, che si fonda peraltro su riferimenti soprattutto culturali), in nome, stavolta, di una più rigorosa applicazione dei criteri di analisi marxista.
Si delinea in tal modo una visione più articolata del processo rivoluzionario in cui, sotto l’egida della nuova legittimità creata dalla cultura aristocratico-borghese dell’illuminismo, vengono a trovar posto le spinte diverse e talora contrastanti di ceti e forze assai varie, sviluppatesi nel corso di tutto un secolo di espansione della società francese, e di cui il capitalismo borghese è solo una, e non la maggiore, delle componenti. E tutto ciò fornisce una ulteriore riprova, su un terreno di decisiva importanza, della insufficienza e dei rischi che derivano dall’uso indiscriminato di concetti come quelli di feudalismo, capitalismo, borghesia, troppo estesi e di significato troppo equivoco perché l’indagine storica possa trarne una reale utilità.
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[1] ROSARIO ROMEO, Scritti politici (1953-1987), Scritti storici (1951-1987), 2 voll., Il Saggiatore, Milano 1990 (N. d. R.).