Roma, 12 mar – Povero Covid-19. Ci ha messo settimane per essere preso sul serio, anche perché all’inizio nessuno “gli dava una lira” come si dice a Roma. E così ora che ci ritroviamo praticamente sotto legge marziale, con l’Italia in quarantena e la gente che spera di non essere arrestata se porta il cane a spasso a fare pipì, non solo emergono tutti i limiti politici – o di “governance” come dicono quelli bravi -, le conseguenze di non avere sovranità monetaria o dei tagli alla sanità, ma anche i limiti culturali e di comunicazione della nostra società.
Noi, vittime di metafore, social e comunicazione
Al tempo delle semplificazioni social, dell’agire politico veicolato da improbabili giornate mondiali e flash mob, degli hashtag impegnati, abbiamo affrontato il coronavirus come fosse una delle tante non notizie su cui ormai dibattiamo, un'”epidemia” di svastiche al contrario, una frase fuori posto o un atto di “bullismo”. E la cosa riguarda tutti, non solo i buonisti, globalisti, sinistri, chiamateli come vi pare. Perché il riflesso condizionato da pensiero unico ce l’abbiamo tutti, tutti viviamo in un mondo surreale e tutti abusiamo di sciocche metafore, similitudini o iperboli fuori luogo per veicolare un messaggio, in questa perenne sopravvalutazione e sovraesposizione della comunicazione.
La “sinistra” (concetto allargato) ha le colpe maggiori. Sono loro (buonisti/globalisti/compagni etc) che creano le categorie e il linguaggio. Sono loro che impongono parole come femminicidio, concetti come il sessismo, il focus sui diritti/desideri individuali, che definiscono l’agenda culturale contemporanea. La “destra” insegue, al massimo deride, o reagisce, e pur mantenendo un gancio maggiore con la realtà, sostanzialmente finisce sempre per utilizzare parole, categorie e campo da gioco dell’avversario.
E’ per esempio il gruppo Gedi a creare dal nulla il rischio del ritorno del fascismo in Italia, l’onda nera, i rischi per la tenuta democratica etc. Sono sempre gli stessi media e le stesse figure ad inventare l’emergenza antisemitismo, a farci credere che un commento “razzista” su internet ad opera di uno sconosciuto sia un fatto di una qualche rilevanza. In un mondo popolato da persone sane di mente nessuno darebbe credito al’hate speech, e invece solo pochi mesi fa è stata istituita una commissione politica, la Segre, per “combatterlo”. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, nel discorso di insediamento del governo alla Camera il 9 settembre scorso ha condannato l’hate speech dei social network citando il commento di un signor nessuno contro il ministro Paola De Micheli. Dare risalto oggi ad un simile fatto – con gli ospedali al collasso e i messaggi alla nazione a reti unificate – sarebbe fantascienza.
Ma quel mondo di fantascienza per noi è/era la realtà, distorta ma pur sempre la nostra realtà, almeno del dibattito pubblico. Non era ancora arrivato il coronavirus con il suo contagio, questo sì, così reale e autenticamente democratico, con le misure in grado di modificare in pochi giorni uno stile di vita così radicato, ricordando a tutti che improvvisamente si può anche morire. La pandemia era un terreno sconosciuto per tutti e tutti lo hanno affrontato con gli strumenti culturali a propria disposizione.
“Il vero virus è il razzismo”
A sinistra hanno pensato subito di assimilarlo all’immigrazione: se posso ribaltare la realtà, affermando che la gestione di flussi migratori epocali è una risorsa e non un problema da gestire, posso fare la stessa cosa con il coronavirus. Se il vero problema non è l’immigrazione ma il razzismo degli analfabeti funzionali che vogliono chiudere le frontiere esaltando l’esistenza dei confini, anche per il virus posso dire che “il vero virus è il razzismo”, degli stessi che anche in questo caso propongono chiusura delle frontiere e addirittura “quarantene”.
E così se “il vero problema/virus è il razzismo”, anche la soluzione non può che essere la stessa: l’accoglienza. E anche qui via con i video degli inviati delle Iene a baciare i cinesi, le campagne social con hashstag di ordinanza #abbracciauncinese, le abbuffate di involtini primavera in diretta di Formigli. Inutile anche solo ribadire quanto certi video e certi post siano “invecchiati male” in poche settimane. Alla fine è accaduto il solito bagno di realtà ogni qualvolta viene puntualmente smentito l’allarme razzismo (stile Daisy Oakue) lanciato da un Berizzi o un Formigli della situazione, solo che stavolta la fine delle illusioni degli antirazzisti è stata leggermente più traumatica.
“Il vero virus è la paura”
Simile alla metafora sul razzismo, ma con sfumature un po’ più moderate, c’è stata quella di chi ha visto il vero virus “nella paura” o “nell’ignoranza”. La psicologia parte sempre da una minimizzazione del problema coronavirus e nella condanna dei soliti analfabeti funzionali, ma al posto della chiamata all’azione politica (“abbraccia un cinese”) si introduce il tema della resistenza passiva o del comportarsi come se nulla fosse. Della serie: blasto quegli ansiosi che comprano mascherine in farmacia e continuo ad andare a mangiare al ristorante cinese. Qui siamo nel campo dei fan delle “battaglie facili”, dire “il vero virus è la paura” è un po’ come partecipare ad un corteo di studenti delle superiori organizzato da Libera e urlare “la mafia è una montagna di merda”, o sostenere che il bullismo è un problema ed invitare le vittime a risolvere tutto magari con una bella delazione alla stampa. Insomma, faccio il mio ma non rischio nulla.
Il feticcio della normalità #Milanononsiferma
Meno surreale del “vero virus” è questo o quello, ma pur sempre surreale, c’è poi il riflesso condizionato che conduce all’esaltazione della normalità da opporre alla paura per il virus. Questo tipo di atteggiamento è più trasversale, e si è affermato infatti verso la fine di febbraio, quando la realtà del virus, dopo i primi contagi a Codogno e nel lodigiano, non poteva più essere smentita (tranne che da pochi fanatici come la virologa Gismondo miss “è solo un’influenza”). L’input arriva sempre da “sinistra”, con Beppe Sala a lanciare la campagna #Milanononsiferma e il famoso video – quello con i webmaster con i capelli colorati e i rider senza faccia – ad esaltare l’operosità meneghina 3.0.
Metaforicamente in questo caso “il vero virus era smettere di lavorare”, in una fase dove tutti sembravano preoccupati solo dalle conseguenze economiche e dove anche Salvini si è accodato al grido di “riaprire tutto”. In questo riflesso condizionato da pensiero unico l’impegno è sostituito dalla “normalità”, dalla “nostra quotidianità” e per questo è riuscito a travalicare i confini politici e a diventare bipartisan. Gli studenti di sinistra e le femministe hanno provato a dare vita ad iniziative affermando “il virus non fermerà la lotta”, i giovani non politicizzati hanno invece proseguito nella movida al grido di “non cambieremo le nostre abitudini”. In questo caso la reazione ricorda molto quella post attentati terroristici, dove il mantra è sempre quello di osannare la propria normalità/quotidianità che deve proseguire a ogni costo. Facile quando la paura è passata o è lontana perché il fatto è accaduto da un’altra parte.
Vigliaccheria
In realtà il minimo comune denominatore di tutti queste reazioni automatiche da pensiero unico è la vigliaccheria. Tutte le lotte di massa sono facili (pensiamo ai gretini o alle sardine), non c’è mai un confronto vero, un rischio, oppure sono rituali stantii. Si fa gli antifascisti in assenza di fascismo, o si grida contro la mafia da un posto sicuro. Tutto diventa una metafora perché nulla è reale, è tutto “il vero questo è in realtà quest’altro”, “il vero virus è il razzismo” e “i veri muri sono dentro di noi” etc. Tutto funziona così. Ci sono solo pseudo classi dirigenti e folle disabituate ad una vera emergenza, ad un pericolo reale. In un contesto di individualismo, deresponsabilizzazione, assenza di coraggio.
E’ un fatto soprattutto occidentale. Ricordo a Damasco nel 2013 la sera prima dei previsti bombardamenti americani, gente continuare a stare nei bar a guardare il calcio in tv mentre fuori si udivano i colpi di mortaio. Quello è un modo di non rinunciare alla propria normalità, spontaneo e senza hashtag, di fronte ad un pericolo reale. Accade solo perché è un fatto di abitudine, tutto qui. Il Covid-19 ci ha colto pesantemente impreparati, perché nel mondo creato a nostra misura ci sentivamo in qualche modo immortali, o almeno non così mortali e non in questo modo e in questi termini. E’ bastato solo agitare un pochino lo spettro di un rapporto più stretto con la morte per cambiare tutto. Almeno per ora. In attesa di un risveglio.
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