Pubblichiamo di seguito un’analisi di grande interesse su cause e conseguenze dell’epidemia Covid-19 in Cina, dove l’attuale crisi sanitaria, ormai globale, si e’ manifestata per prima. E’ un’analisi critica approfondita, che grazie al ricorso alle “scienze dure” e’ capace di mostrare l’intreccio tra dimensione “naturale”, ambientale e micro-biologica, e dimensione sociale, la dinamica del capitalismo contermporaneo cioe’. Quest’analisi e’ stata pubblicata dal gruppo Chuǎng, impegnato in un lavoro di comprensione critica della situazione cinese per tutti coloro che, come scrivono, “vogliono rompere i confini del macello chiamato capitalismo”. Traduzione a cura della redazione del Cuneo rosso.
Fonte: Social Contagion. Microbiological Class War in China (26 febbraio 2020)
La fornace Wuhan
Wuhan è conosciuta volgarmente come una delle “quattro fornaci” (四大 火炉) della Cina per la sua opprimente estate calda e umida, che condivide con Chongqing, Nanchino e alternativamente Nanchang o Changsha, tutte città molto trafficate con una lunga storia, situate lungo o in prossimità della valle del fiume Yangtze. Delle quattro, Wuhan è anche letteralmente ricoperta di fornaci: l’enorme agglomerato urbano costituisce una sorta di nucleo produttivo per l’acciaio, il cemento e altre industrie legate all’edilizia in Cina, il suo paesaggio è punteggiato dagli altiforni a raffreddamento lento delle ultime fonderie di ferro e acciaio di proprietà statale, ora prostrate dalla sovrapproduzione e costrette a un nuovo controverso ciclo di ridimensionamento, privatizzazione e generale ristrutturazione, che negli ultimi cinque anni ha provocato numerosi scioperi e proteste. La città è sostanzialmente la capitale cinese della produzione per l’edilizia, il che significa che ha avuto un ruolo particolarmente importante nel periodo successivo alla crisi economica mondiale, durante gli anni in cui la crescita cinese è stata stimolata dalla concentrazione dei fondi di investimento nella costruzione di infrastrutture e di immobili. Wuhan non solo ha alimentato questa bolla, con un’offerta eccessiva di materiali da costruzione e ingegneri civili, ma, in questo modo, ha avuto essa stessa una rapidissima espansione urbana. Secondo i nostri calcoli, nel 2018-2019 l’area totale dedicata ai cantieri di Wuhan era pari alla superficie dell’intera isola di Hong Kong.
Ma adesso questa fornace, che dopo la crisi [del 2008] è stata il motore dell’economia cinese, sembra che si stia raffreddando, proprio come le fornaci delle sue fonderie di ferro e acciaio. Anche se questo processo era già iniziato, non è più una semplice metafora economica, poiché la città, un tempo così movimentata, è stata isolata per oltre un mese, con le sue strade svuotate da un ordine del governo: “Il più grande contributo che potete dare è di non riunirvi e di non provocare caos ”, è questo che si legge sulla prima pagina del Guangming Daily, un quotidiano gestito dal Dipartimento di propaganda del Partito comunista cinese. Adesso, i nuovi ampi viali di Wuhan e gli scintillanti edifici in acciaio e vetro che li contornano sono tutti freddi e vuoti, mentre l’inverno volge al termine con il Capodanno lunare e la città vegeta a causa dell’imposizione di una vasta quarantena. Isolarsi è un buon consiglio per chiunque si trovi in Cina, dove lo scoppio del nuovo coronavirus (recentemente ribattezzato “SARS-CoV-2” e la sua malattia “COVID-19”) ha ucciso più di duemila persone, più del suo predecessore, l’epidemia di SARS del 2003. L’intero paese è bloccato, come durante la SARS. Le scuole sono chiuse e le persone sono confinate nelle loro case in tutto il paese. Quasi tutte le attività economiche si sono fermate il 25 gennaio per le vacanze del Capodanno lunare, ma la pausa è stata prolungata per un mese per rallentare la diffusione dell’epidemia. Le fornaci cinesi sembrano aver smesso di bruciare, o almeno sono state ridotte a carboni ardenti. In un certo senso, però, la città è diventata un altro tipo di fornace, perché il coronavirus brucia attraverso la massa della sua popolazione ovviamente come una febbre.
A torto, l’epidemia è stata incolpata di tutto, dalla fuoriuscita di un ceppo di virus dall’Istituto di Virologia di Wuhan, a causa di una cospirazione o di un incidente – una affermazione discutibile diffusa dai social media, in particolare tramite messaggi paranoici postati su Facebook da Hong Kong e Taiwan, ma ora sostenuta da organi di stampa conservatori e dagli interessi militari in Occidente – alla propensione dei cinesi a mangiare cibi “sporchi” o “strani”, poiché l’epidemia virale è collegata a pipistrelli o serpenti venduti in un “mercato umido” semi-illegale, specializzato in fauna selvatica e altri animali rari (sebbene questa non sia la fonte ultima dell’epidemia). Entrambe queste spiegazioni sono una testimonianza dell’evidente atteggiamento bellicista e orientalista che caratterizza i rapporti sulla Cina [provenienti da Occidente], e numerosi articoli hanno sottolineato questo fatto fondamentale. Ma anche queste risposte tendono a concentrarsi unicamente sulla questione della percezione del virus in ambito culturale, dedicando molto meno tempo a scavare più a fondo nelle dinamiche di gran lunga più brutali che sottostanno all’accanimento dei media.
Una variante leggermente più complessa include almeno le conseguenze economiche, anche se ne ingigantisce in modo retorico le potenziali ripercussioni sul piano politico. In questo caso, troviamo i soliti sospetti, che vanno dai classici politicanti che partono alla caccia del dragone cinese fino alla finta reazione scioccata dei piani alti del liberalismo: le agenzie di stampa, dalla National Review al New York Times, hanno già insinuato che l’epidemia potrebbe provocare una “crisi di legittimità” per il PCC, nonostante nell’aria ci sia a malapena un soffio di rivolta. Tuttavia in queste previsioni c’è un fondo di verità, che sta nel comprendere le dimensioni economiche della quarantena, qualcosa che difficilmente potrebbe non essere notato da giornalisti con portafogli azionari più grossi dei loro cervelli. Perché il fatto è che, nonostante l’appello del governo a isolarsi, le persone potrebbero presto essere costrette, invece, a “riunirsi” per far fronte alle necessità della produzione. Secondo le ultime stime, già nel corso di quest’anno l’epidemia causerà un rallentamento del tasso di crescita del PIL della Cina, portandolo al 5%, al di sotto del già stagnante 6% dell’anno scorso -il tasso più basso degli ultimi tre decenni. Alcuni analisti hanno affermato che la crescita del primo trimestre potrebbe scendere del 4 percento o anche oltre, e che ciò potrebbe innescare una specie di recessione globale. Da qui è sorta una domanda in precedenza inconcepibile: cosa succederà effettivamente all’economia globale quando la fornace cinese inizierà a raffreddarsi?
Nella stessa Cina, è difficile prevedere quale sarà la parabola finale di questa vicenda, ma quanto sta accadendo ha già prodotto a livello collettivo un processo piuttosto raro: interrogarsi sulle questioni e informarsi sui fatti della società. L’epidemia ha infettato direttamente quasi 80.000 persone (secondo le stime più prudenti), ma ha provocato uno shock nella vita quotidiana sotto il capitalismo per 1 miliardo e 400 milioni di persone, intrappolate in un momento di precaria auto-riflessione. Questo momento, anche se pieno di paura, ha indotto tutti a interrogarsi contemporaneamente su alcune questioni profonde: cosa mi succederà? I miei figli, la mia famiglia e i miei amici? Avremo abbastanza cibo? Verrò pagato? Pagherò l’affitto? Chi è responsabile di tutto questo? In un modo strano, l’esperienza soggettiva è in qualche maniera simile a quella di uno sciopero di massa – ma è un’esperienza che, nel suo carattere non spontaneo, imposto dall’alto verso il basso e, soprattutto, nella sua non volontaria iperatomizzazione, illustra i dilemmi fondamentali del nostro stesso presente politico asfissiato in maniera evidente, così come gli autentici scioperi di massa del secolo scorso hanno messo in luce le contraddizioni della loro epoca. La quarantena, quindi, è come uno sciopero ma svuotato dei suoi caratteri collettivi, e tuttavia in grado di provocare un profondo shock sia a livello psicologico, che economico. Questo fatto già di per sé la rende degna di riflessione.
Naturalmente, le speculazioni sull’imminente caduta del PCC sono delle prevedibili assurdità, uno dei passatempi preferiti di The New Yorker e The Economist. Nel frattempo, i media stanno ricorrendo alle usuali procedure di insabbiamento, in cui editoriali apertamente razzisti pubblicati nei siti degli organi di stampa tradizionali sono avversati da una marea di articoli sul web che polemizzano contro l’orientalismo e su altre questioni ideologiche. Ma quasi tutta questa discussione rimane a livello descrittivo – o, nella migliore delle ipotesi, affronta la politica di contenimento e le conseguenze economiche dell’epidemia – senza approfondire le questioni legate in primo luogo a come tali malattie vengono prodotte, e ancora meno a come si diffondono. Anche questo, tuttavia, non è abbastanza. Ora non è proprio il momento per esercizi stilistici da “marxisti alla Scooby-Doo”, togliendo la maschera ai cattivi per rivelare che, sì, in effetti, è stato il capitalismo che ha causato il coronavirus fin dall’inizio! Non sarebbe molto più acuto di quello che fanno i commentatori stranieri che in maniera altrettanto grossolana vanno alla ricerca di un cambio di regime. Certamente il capitalismo ne ha la colpa – ma in che modo, esattamente, la sfera socio-economica si interfaccia con quella biologica e quali lezioni più profonde si possono trarre da tutta questa esperienza?
In questo senso, l’epidemia offre due opportunità di riflessione. In primo luogo, ci dà la possibilità di riesaminare le questioni sostanziali sul modo in cui la produzione capitalistica si rapporta al mondo non umano a un livello più fondamentale: in breve, come il “mondo naturale”, compresi i suoi substrati microbiologici, non possa essere compreso senza fare riferimento al modo in cui la società organizza la produzione (perché, in effetti, i due ambiti non sono separati). Allo stesso tempo, questo ci ricorda che l’unico comunismo degno di questo nome è quello che include in sé il potenziale di un naturalismo pienamente politicizzato. In secondo luogo, possiamo usare ugualmente questo momento di isolamento per una sorta di nostra riflessione sullo stato presente della società cinese. Alcune cose diventano chiare solo quando tutto si interrompe in modo inaspettato, e un rallentamento di questo tipo può rendere visibili le tensioni fino a quel momento occultate. Andiamo quindi ad esplorare entrambe queste questioni, e a mostrare non solo come sia l’accumulazione capitalistica a produrre tali epidemie, ma anche come il momento della pandemia sia esso stesso un esempio contraddittorio di crisi politica, poiché rende visibili alle persone le potenzialità e le dipendenze invisibili del mondo che le circonda, offrendo allo stesso tempo una scusa ulteriore per estendere ancor più i sistemi di controllo nella vita di tutti i giorni.
Sotto le quattro “fornaci”, quindi, si trova una fornace ancora più importante, che sta alla base degli hub industriali di tutto il mondo: la pentola a pressione evolutiva costituita dall’agricoltura e dall’urbanizzazione proprie del capitalismo.
La produzione di epidemie
Il virus che è all’origine dell’attuale epidemia (SARS-CoV-2), così come il suo predecessore SARS-CoV del 2003, l’influenza aviaria e ancora prima l’influenza suina, è germogliato dall’incrocio tra economia ed epidemiologia. Non è un certo caso che così tanti di questi virus abbiano preso il nome di animali: la diffusione di nuove malattie tra la popolazione umana è quasi sempre il prodotto di quello che viene chiamato trasferimento zoonotico, che è un modo tecnico per dire che queste infezioni passano dagli animali agli umani. Questo salto da una specie all’altra è condizionato da fattori come la vicinanza e la regolarità del contatto, che costruiscono l’ambiente in cui la malattia è costretta ad evolversi. Quando questa interfaccia tra uomo e animale cambia, si modificano anche le condizioni in cui si evolvono queste malattie. Sotto le quattro “fornaci” [le quattro città cinesi, tra cui Wuhan, di cui si è detto all’inizio], quindi, si trova una fornace ancora più importante, che sta alla base degli hub industriali di tutto il mondo: la pentola a pressione evolutiva costituita dall’agricoltura e dall’urbanizzazione proprie del capitalismo. È questo il substrato ideale nel quale le epidemie nascono, si trasformano, compiono dei balzi zoonotici sempre più devastanti, e poi sono veicolate in modo aggressivo attraverso la popolazione umana. A ciò si aggiungono dei processi altrettanto intensi che si verificano ai margini dell’economia, in cui ceppi “selvaggi” vengono più di recente in contatto con persone spinte a incursioni agro-economiche sempre più estese negli ecosistemi locali. Il coronavirus, nelle sue origini “selvagge” e nella sua improvvisa diffusione attraverso un nucleo fortemente industrializzato e urbanizzato dell’economia globale, rappresenta le due dimensioni della nostra nuova era di epidemie politico-economiche.
L’idea di base qui esposta è sviluppata in modo molto approfondito da alcuni biologi di sinistra come Robert G. Wallace, il cui libro Big Farms Make Big Flu, pubblicato nel 2016, spiega in maniera esauriente la connessione tra il settore agroalimentare capitalistico e l’eziologia delle recenti epidemie, che vanno dalla SARS all’Ebola [i]. Queste epidemie possono essere raggruppate in due categorie: la prima trova la sua origine nel cuore della produzione agro-economica, la seconda nel suo entroterra. Nel tracciare la diffusione di H5N1, noto anche come influenza aviaria, Wallace riassume diversi fattori chiave della geografia per quelle epidemie che hanno origine nel cuore della produzione:
“I paesaggi rurali di molti dei paesi più poveri sono ora caratterizzati da attività produttive agroalimentari non regolamentate che premono contro le bidonvilles periubane. La trasmissione non controllata nelle aree vulnerabili aumenta la variazione genetica con cui l’H5N1 può sviluppare delle caratteristiche specifiche per l’uomo. Diffondendosi su tre continenti ed evolvendosi rapidamente, l’H5N1 entra anche in contatto con una crescente varietà di ambienti socio-ecologici, che includono specifiche combinazioni locali di tipologie prevalenti di host, di modalità di allevamento del pollame e di misure per la salute degli animali” [ii].
Ovviamente, questa diffusione è guidata dai circuiti globali delle merci e dalle migrazioni regolari di manodopera che sono propri della geografia economica capitalista. Il risultato è “una sorta di selezione demica sempre più intensificata”, attraverso cui il virus si insedia con un maggior numero di percorsi evolutivi in un tempo più breve, consentendo alle varianti più adatte di superare le altre.
Ma questo è un punto facile da chiarire, ed è già presentato comunemente nella stampa tradizionale: il fatto che la “globalizzazione” consente la diffusione di queste malattie in modo più rapido, anche se con un’aggiunta importante, e cioè che lo stesso processo di circolazione stimola anche una mutazione più rapida del virus. La vera questione, tuttavia, viene prima: prima che la circolazione migliori la resilienza di queste malattie, la logica di base del capitale permette di prendere ceppi virali precedentemente isolati o innocui, e posizionarli in ambienti ipercompetitivi, che favoriscono l’emergere dei fattori specifici che causano le epidemie, come la rapidità dei cicli di vita dei virus, la capacità di compiere salti zoonotici tra le specie portatrici e la capacità di far evolvere rapidamente dei nuovi vettori di trasmissione. Questi ceppi tendono a distinguersi proprio per la loro virulenza. In termini assoluti, sembra che lo sviluppo di ceppi più virulenti avrebbe l’effetto opposto, poiché il fatto di uccidere l’ospite prima fornisce meno tempo al virus per diffondersi. Il comune raffreddore è un buon esempio di questo principio, poiché generalmente mantiene dei livelli di intensità deboli, che ne facilitano una larga propagazione nella popolazione. Ma in alcuni ambienti, funziona molto di più la logica inversa: quando un virus ha numerosi ospiti della stessa specie nelle immediate vicinanze, e specialmente quando questi ospiti possono già avere dei cicli di vita abbreviati, l’aumento della virulenza diventa un vantaggio per la sua evoluzione.
Ancora una volta, il caso dell’influenza aviaria è un esempio saliente. Wallace sottolinea che gli studi hanno dimostrato “l’assenza di ceppi endemici altamente patogeni [dell’influenza] nelle popolazioni di uccelli selvatici, fonte ultima di quasi tutti i sottotipi di influenza”. [iii] All’opposto, le popolazioni domestiche raggruppate insieme in allevamenti industriali sembrano avere una relazione evidente con tali focolai, per ovvi motivi:
“Le monocolture genetiche di animali domestici rimuovono qualsiasi forma di difesa immunitaria in grado di rallentare la trasmissione. Popolazioni più numerose e più dense favoriscono tassi di trasmissione più elevati. Queste condizioni di affollamento deprimono la risposta immunitaria. L’alto rendimento, che è lo scopo di qualsiasi produzione industriale, procura un rinnovo continuo dell’approvvigionamento di soggetti vulnerabili, il carburante per l’evoluzione della virulenza.” [iv]
E, naturalmente, ognuna di queste caratteristiche è una conseguenza della logica della concorrenza industriale. In particolare, il rapido tasso di “throughput” in tali contesti ha una dimensione eminentemente biologica: “Non appena gli animali industriali raggiungono la giusta massa vengono uccisi. Le infezioni da influenza residente devono raggiungere rapidamente la loro soglia di trasmissione in un dato animale […] Più rapidamente vengono prodotti i virus, maggiore è il danno per l’animale”[v].
Ironia della sorte, il tentativo di sopprimere questi focolai attraverso l’abbattimento di massa degli animali – come nei recenti casi di peste suina africana, che ha provocato la perdita di quasi un quarto dell’offerta mondiale di carne di maiale – può avere l’effetto non intenzionale di aumentare ulteriormente questa pressione selettiva, inducendo l’evoluzione di ceppi iper-virulenti. Sebbene storicamente questi focolai si siano verificati nelle specie domestiche, spesso in seguito a periodi di guerra o a catastrofi ambientali che accrescono la pressione sulle popolazioni di bestiame, l’aumento dell’intensità e della virulenza di tali malattie ha innegabilmente seguito la diffusione della produzione capitalistica.
Storia ed eziologia
Le epidemie sono in gran parte l’ombra dell’industrializzazione capitalista, e allo stesso tempo ne fungono da precursore. Il caso del vaiolo e di altre pandemie introdotte in Nord America è un esempio fin troppo semplice da citare, poiché la loro intensità è stata rafforzata dalla separazione delle popolazioni per un lungo lasso di tempo dovuta alla geografia fisica – e queste malattie, nonostante tutto, avevano già acquisito la propria virulenza grazie alle le reti mercantili pre-capitalistiche e all’urbanizzazione precoce in Asia e in Europa. Se, invece, guardiamo all’Inghilterra – il paese che ha visto sorgere il capitalismo prima nelle campagne, attraverso la cacciata dalle terre della massa dei contadini, sostituiti da monocolture di bestiame – vediamo i primi esempi di queste epidemie chiaramente capitalistiche. Tre diverse pandemie si sono verificate nell’Inghilterra del XVIII secolo, dal 1709 al 1720, dal 1742 al 1760, e dal 1768 al 1786. All’origine di ciascuna di queste epidemie c’è stato il bestiame importato dall’Europa, infettato dalle normali pandemie pre-capitaliste che seguivano i periodi di guerra. Ma in Inghilterra la concentrazione del bestiame aveva iniziato ad avvenire in modi nuovi, e l’introduzione di bestiame infetto andava quindi a dilaniare la popolazione in modo molto più aggressivo di quanto avvenisse in Europa. Non è un caso, quindi, che il centro dei focolai di epidemie fossero i grandi caseifici di Londra, che rappresentarono l’ambiente ideale per l’intensificazione del virus.
Alla fine, i focolai sono stati contenuti attraverso l’abbattimento selettivo precoce su piccola scala combinato con l’applicazione di moderne pratiche mediche e scientifiche, in un modo sostanzialmente simile a quello utilizzato oggi per reprimere queste epidemie. Questo è il primo esempio di quello che diventerebbe un modello che imita quello della crisi economica stessa: collassi sempre più intensi che sembrano spingere l’intero sistema verso un precipizio, ma che alla fine vengono superati attraverso una combinazione tra il sacrificio di massa che ripulisce il mercato/la popolazione e l’intensificazione dei progressi tecnologici: in questo caso le moderne pratiche mediche combinate con i nuovi vaccini, che spesso arrivano troppo tardi e in misura non sufficiente, ma che aiutano comunque a spazzare via i danni causati dalla devastazione.
Ma questo esempio proveniente dalla patria del capitalismo deve essere abbinato a una spiegazione degli effetti che le pratiche agricole capitaliste hanno avuto alla sua periferia. Mentre le pandemie di bestiame della prima Inghilterra capitalista erano contenute, altrove i risultati sono stati molto più devastanti. L’esempio che ha avuto il maggiore impatto storico è probabilmente quello dello scoppio della peste bovina in Africa negli anni 1890. La data in sé non è una coincidenza: la peste bovina aveva colpito l’Europa con un’intensità che seguiva da vicino la crescita dell’agricoltura su larga scala ed era tenuta sotto controllo solo dall’avanzata della scienza moderna. Ma la fine del XIX secolo ha visto anche l’apice dell’imperialismo europeo, incarnato dalla colonizzazione dell’Africa. La peste bovina fu portata dall’Europa in Africa orientale dagli italiani, che cercavano di raggiungere le altre potenze imperialiste colonizzando il Corno d’Africa attraverso una serie di campagne militari. Queste campagne si sono concluse per lo più con un insuccesso, ma la malattia si diffuse in seguito tra la popolazione indigena di bestiame e finì per aprirsi un varco per il Sudafrica, dove devastò la prima economia agricola capitalista delle colonie, uccidendo persino le mandrie nelle proprietà del famigerato Cecil Rhodes, auto-proclamatosi suprematista bianco. Non si può negare che, uccidendo fino all’80-90% di tutti i bovini, il più importante effetto storico della peste fu quello di provocare una carestia senza precedenti nelle società prevalentemente pastorali dell’Africa sub-sahariana. Questo spopolamento è stato poi seguito dalla colonizzazione invasiva della savana da parte dei rovi, che hanno creato un habitat per la mosca tse-tse, che porta la malattia del sonno e impedisce il pascolo del bestiame. Questo ha permesso di limitare il ripopolamento della regione dopo la carestia e ha aperto la strada all’ulteriore diffusione delle potenze coloniali europee in tutto il continente.
Queste epidemie, oltre a indurre periodicamente crisi agricole e a produrre le condizioni catastrofiche che hanno permesso al capitalismo di oltrepassare i suoi primi confini, sono state una persecuzione anche per il proletariato nel centro stesso dell’industrializzazione. Prima di venire a numerosi esempi più recenti, vale la pena sottolineare di nuovo che l’epidemia di coronavirus non ha niente di specificatamente cinese. Le ragioni per cui così tante epidemie sembrano avere origine in Cina non sono culturali, sono legate a dei fattori di geografia economica. Questo risulta perfettamente chiaro se confrontiamo la Cina con gli Stati Uniti o con l’Europa dell’epoca in cui Stati Uniti ed Europa rappresentavano il centro nevralgico della produzione globale e dell’occupazione industriale di massa [vi]. E il risultato è sostanzialmente identico, presenta le stesse identiche caratteristiche. Le ecatombi di bestiame che avvenivano nelle campagne, si combinavano nelle città con pratiche sanitarie di pessima qualità e una contaminazione generalizzata. È questo che è stato al centro dei primi sforzi per riformare in senso liberal-progressista le zone abitate dalla classe operaia, come testimonia l’accoglienza del romanzo The Jungle, di Upton Sinclair, scritto originariamente per documentare la sofferenza dei lavoratori immigrati nel settore della lavorazione della carne, ma ripreso dai liberali più ricchi, preoccupati dalle violazioni delle norme sulla salute e dalle condizioni generalmente poco igieniche in cui veniva preparato il loro cibo.
Questa indignazione liberale rispetto alla “sporcizia”, con tutto il razzismo che implica, definisce ancora oggi quella che potremmo considerare come la lettura ideologica adottata automaticamente dalla maggior parte delle persone di fronte agli aspetti politici di qualcosa come le epidemie di coronavirus o di SARS. Ma i lavoratori hanno poco controllo sulle condizioni in cui lavorano. Fatto ancora più importante, se è vero che le condizioni insalubri e scarsamente igieniche escono dalla fabbrica attraverso la contaminazione delle forniture alimentari, questa contaminazione è in realtà solo la punta dell’iceberg. Queste condizioni sono l’ambiente in cui normalmente si lavora o si vive negli insediamenti proletari vicini, e, a livello di popolazione, queste condizioni portano a un declino della salute offrendo condizioni ancora più favorevoli alla diffusione delle molte epidemie del capitalismo. Prendiamo ad esempio il caso dell’influenza spagnola, una delle epidemie più letali della storia. Si tratta di uno dei primi focolai di influenza H1N1 (correlato a focolai più recenti di influenza suina e aviaria) e per lungo tempo si è pensato che in qualche modo questa epidemia fosse qualitativamente differente dalle altre varianti dell’influenza, dato l’elevato bilancio di vittime. Ciò nonostante, questa lettura sembra essere vera solo in parte (a causa della capacità dell’influenza di indurre una reazione eccessiva del sistema immunitario), poiché successive analisi della letteratura scientifica e la ricerca sulla storia dell’epidemiologia hanno fatto scoprire che l’influenza spagnola potrebbe essere stata poco più virulenta di altri ceppi. Al contrario, con ogni probabilità il suo alto tasso di mortalità è stato causato principalmente dalla malnutrizione generalizzata, dal sovraffollamento delle città e dalle condizioni di vita generalmente insalubri nelle aree colpite, che hanno incoraggiato non solo la diffusione dell’influenza stessa, ma anche la coltura di superinfezioni batteriche oltre alla super-infezione virale di fondo. [vii]
In altre parole, il bilancio delle vittime dell’influenza spagnola, sebbene venga rappresentato come un’anomalia imprevedibile per il carattere del virus, ha avuto un “aiuto” altrettanto importante dalle condizioni sociali. L’influenza si diffuse rapidamente grazie al commercio e alla guerra mondiale, a quel tempo legati ai rapidi cambiamenti degli imperialismi che sono sopravvissuti alla prima guerra mondiale. E anche qui ritroviamo ancora una volta una storia ormai familiare sul luogo e sul modo in cui è stato prodotto un ceppo di influenza così mortale: sebbene l’origine esatta sia ancora poco chiara, oggi si presume che il virus abbia avuto origine tra i maiali o il pollame allevati a livello domestico, probabilmente in Kansas. Il tempo e il luogo sono particolarmente degni di nota, poiché gli anni successivi alla guerra furono una sorta di punto di svolta per l’agricoltura americana, che ha visto l’applicazione generalizzata di metodi di produzione di tipo industriale sempre più meccanizzati. Queste tendenze si intensificarono solo negli anni ’20 e l’applicazione massiccia di tecnologie come la mietitrebbia portò sia ad una graduale monopolizzazione [della produzione agricola], che al disastro ecologico, che, combinati insieme, causarono la crisi del “Dust Bowl” [la crisi delle tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti centrali e il Canada tra il 1931 e il 1939] e l’emigrazione di massa che ne seguì. L’intensa concentrazione di bestiame che in seguito avrebbe caratterizzato l’allevamento industriale non era ancora apparsa, ma le forme più elementari di concentrazione e produzione intensiva, che avevano già creato epidemie di bestiame in Europa, erano ormai diventate la norma. Se le epidemie che colpirono il bestiame nell’Inghilterra del XVIII secolo possono essere considerate il primo caso di peste bovina propriamente capitalista, e l’epidemia di peste bovina in Africa nel 1890 il più grande degli olocausti epidemiologici causati dall’imperialismo, l’influenza spagnola può essere considerata la prima delle epidemie del capitalismo che ha colpito il proletariato.
L‘età dell’oro
I parallelismi con l’attuale caso cinese sono particolarmente rilevanti. Il COVID-19 non può essere compreso senza tener conto dei modi in cui gli ultimi decenni di sviluppo della Cina all’interno del sistema capitalistico globale e attraverso di esso, hanno plasmato il sistema sanitario del paese e lo stato della salute pubblica in generale. L’epidemia, per quanto nuova, è quindi simile ad altre crisi della sanità pubblica che l’hanno preceduta, che tendono a prodursi quasi con la stessa regolarità delle crisi economiche e ad essere considerate in modo simile da parte della stampa popolare – come se fossero casuali, degli eventi del tipo “cigno nero”, assolutamente imprevedibili e senza precedenti. La realtà, tuttavia, è che queste crisi sanitarie ricorrono secondo schemi caotici e ciclici, resi più probabili da una serie di contraddizioni strutturali integrate nella natura della produzione e della vita proletaria entro il regime capitalistico. Proprio come nel caso dell’influenza spagnola, il coronavirus è stato originariamente in grado di prendere piede e propagarsi rapidamente a causa di un diffuso degrado dell’assistenza sanitaria di base presso l’insieme della popolazione. Ma proprio perché questo degrado ha avuto luogo nel mezzo di una crescita economica spettacolare, è stato oscurato dallo splendore di città scintillanti e di fabbriche enormi. La realtà, tuttavia, è che in Cina le spese destinate a beni pubblici come l’assistenza sanitaria e l’istruzione rimangono estremamente basse, mentre la maggior parte della spesa pubblica è stata indirizzata verso infrastrutture in “mattoni e malta”: ponti, strade ed elettricità a basso costo per la produzione.
Nel frattempo, la qualità dei prodotti del mercato interno è spesso pericolosamente bassa. Per decenni l’industria cinese ha prodotto esportazioni di alta qualità e di alto valore, realizzate secondo i più alti standard globali per il mercato mondiale, come iPhone e chip per computer. Ma i beni destinati ai consumi sul mercato interno hanno standard incredibilmente scadenti, il che provoca regolari scandali e alimenta una profonda sfiducia da parte della popolazione. In molti casi si avverte un innegabile eco che ricorda The Jungle di Sinclair e altri racconti dell’Età dell’oro americana. Il più grosso caso avvenuto di recente, lo scandalo del latte alla melanina del 2008, ha causato la morte di una dozzina di neonati e il ricovero ospedaliero di decine di migliaia di persone (anche se i colpiti sono stati forse qualche centinaio di migliaia). Da allora, numerosi scandali hanno scosso con regolarità il pubblico: nel 2011, quando è stato scoperto che l’olio recuperato dalle trappole per grassi dei canali di scolo veniva utilizzato nei ristoranti di tutto il paese, o nel 2018, quando dei vaccini difettosi uccisero diversi bambini, e in seguito un anno dopo, quando dozzine di persone sono state ricoverate in ospedale in seguito alla somministrazione di falsi vaccini anti HPV. Storie meno pesanti sono anche più diffuse e costituiscono un panorama familiare per chiunque viva in Cina: preparato per zuppe istantanee in polvere tagliato con sapone in modo da contenere i costi; imprenditori che vendono maiali morti per cause misteriose ai villaggi vicini; pettegolezzi dettagliati su quali negozi di strada hanno maggiori probabilità di farti ammalare.
Un tempo, prima dell’incorporazione pezzo per pezzo della Cina nel sistema capitalistico globale, servizi come l’assistenza sanitaria venivano forniti (perlopiù nelle città) nell’ambito del “sistema danwei”, erano cioè legati all’impresa in cui si lavorava o (principalmente, ma non esclusivamente, nelle campagne) erano forniti gratuitamente da cliniche sanitarie locali gestite da un abbondante personale di “medici scalzi“. I successi dell’assistenza sanitaria dell’era socialista – come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione – furono tanto sostanziali che persino i critici più severi del paese dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, che ha afflitto il paese per secoli, è stata sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, salvo ripresentarsi con vigore nel momento in cui il sistema sanitario socialista ha iniziato a essere smantellato. La mortalità infantile è crollata e, nonostante la carestia che accompagnò il Grande Balzo in avanti, l’aspettativa di vita è salita da 45 a 68 anni tra il 1950 e l’inizio degli anni ’80. Le vaccinazioni e le pratiche sanitarie di base si sono diffuse su scala generale, e così pure le informazioni di base sulla nutrizione e sulla salute pubblica, nonché l’accesso ai medicinali rudimentali – tutto ciò era gratuito e accessibile a tutta la popolazione. Nel frattempo, il sistema dei medici scalzi ha contribuito a diffondere conoscenze mediche fondamentali – sebbene limitate – a una vasta fetta della popolazione, permettendo la costruzione di un solido sistema sanitario dal basso in condizioni di grave povertà materiale. Vale la pena ricordare che tutto ciò è avvenuto in un momento in cui la Cina era un paese più povero, a livello di reddito pro capite, della media dei paesi dell’Africa subsahariana di oggi.
A partire da quel momento [inizio anni ’80] una combinazione di trascuratezza e privatizzazione ha notevolmente degradato questo sistema, proprio mentre la rapida urbanizzazione e una produzione industriale non regolamentata di beni per uso domestico e alimentare rendevano tanto più necessaria la generalizzazione dell’assistenza sanitaria – per non menzionare l’altrettanto importante necessità di stabilire chiare norme in materia alimentare, sanitaria e di sicurezza. Oggigiorno la spesa pubblica cinese per la difesa della salute è, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, di 323 dollari pro capite. Questa cifra è bassa anche in comparazione con quella di altri paesi a “reddito medio-alto”, ed è circa la metà di quanto spendono Brasile, Bielorussia e Bulgaria. La regolamentazione è minima o inesistente, con conseguenti numerosi scandali analoghi a quelli sopra menzionati. Nel frattempo, gli effetti di questa situazione ricadono con maggiore forza sulle centinaia di milioni di lavoratori emigranti interni, per i quali qualsiasi diritto alle cure sanitarie di base svanisce completamente nel momento in cui lasciano la loro città natale rurale (luogo in cui, sotto il sistema hukou, sono residenti permanenti indipendentemente della loro effettiva residenza, il che significa che le risorse pubbliche rimanenti non sono accessibili altrove).
Apparentemente, la sanità pubblica sarebbe dovuta essere sostituita alla fine degli anni Novanta con un sistema più privatizzato (sebbene gestito tramite lo stato), in cui una combinazione di contributi – tanto da parte delle imprese quanto da parte dei dipendenti – avrebbe dovuto sostenere i costi dell’assistenza medica, delle pensioni e dell’assicurazione sulla casa. Ma questo regime di previdenza sociale è stato minato da una sistematica carenza di fondi, nella misura in cui i contributi “dovuti” da parte dei datori di lavoro spesso semplicemente non sono versati, facendo sì che la stragrande maggioranza dei lavoratori debba pagare di tasca propria. Secondo l’ultima stima nazionale disponibile, solo il 22% dei lavoratori emigranti interni aveva un’assicurazione medica di base. Il mancato versamento di contributi al sistema di previdenza sociale non è, tuttavia, un semplice atto malevolo da parte di padroni individualmente corrotti, è invece ampiamente dovuto al fatto che i margini di profitto ridotti non lasciano spazio alle indennità sociali. Nei nostri calcoli abbiamo scoperto che in un hub industriale come Dongguan chiedere di sborsare le somme al momento non pagate necessarie per garantire ai lavoratori la previdenza sociale, dimezzerebbe i profitti industriali e porterebbe molte aziende al fallimento. Per compensare le enormi lacune esistenti, la Cina ha istituito un regime medico supplementare di carattere basilare a copertura di pensionati e lavoratori autonomi, sistema che paga in media solo poche centinaia di yuan per persona all’anno.
Questo sistema medico assediato produce di per sé delle terribili tensioni sociali. Numerosi membri del personale medico vengono uccisi ogni anno e dozzine vengono feriti negli attacchi di pazienti arrabbiati o, più spesso, dei familiari dei pazienti che muoiono durante le cure. L’attacco più recente è avvenuto alla vigilia di Natale, quando a Pechino un medico è stato pugnalato a morte dal figlio di una paziente, che riteneva che sua madre fosse morta per le cure ospedaliere scadenti. Un sondaggio condotto tra i medici ha rilevato che un incredibile 85% di loro aveva subito violenza sul luogo di lavoro e un altro, del 2015, ha rilevato che il 13% dei medici in Cina era stato aggredito fisicamente nel corso dell’anno precedente. I medici cinesi visitano ogni anno il quadruplo dei pazienti rispetto i loro colleghi statunitensi, ma sono pagati meno di $ 15.000 all’anno – in termini relativi si tratta di una cifra inferiore al reddito pro capite (16.760 USD), mentre negli Stati Uniti il salario del medico medio (circa 300.000 USD) è quasi cinque volte più del reddito pro capite (60.200 USD). Prima della sua chiusura (nel 2016) e l’arresto dei suoi creatori, l’ormai defunto blog di censimento dei disordini di Lu Yuyu e Li Tingyu riportava le notizie di diversi scioperi e proteste da parte degli operatori sanitari ogni mese [viii]. Nel 2015 – l’ultimo anno per il quale sono presenti per intero i dati da loro meticolosamente raccolti – erano riportati 43 eventi del genere. Hanno anche registrato dozzine di “incidenti da cure mediche [proteste]” ogni mese, protagonisti familiari di pazienti, con 368 registrati nel 2015.
In tali condizioni di massiccio disinvestimento pubblico dal sistema sanitario, non sorprende che il COVID-19 abbia preso piede così facilmente. In combinazione con il fatto che nuove malattie trasmissibili emergono in Cina al ritmo di una ogni 1-2 anni, sembrano sussistere le condizioni affinché tali epidemie continuino. Come nel caso dell’influenza spagnola, le condizioni generalmente degradate della sanità pubblica per la popolazione proletaria hanno permesso che il virus prendesse piede e, da lì, si diffondesse rapidamente. Ma, ancora una volta, non è solo una questione di distribuzione. Dobbiamo anche capire come il virus stesso sia stato prodotto