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    Predefinito Per una storia del socialismo in Italia (1946)

    di Carlo Morandi - «Belfagor», a. I, n. 2, 15 marzo 1946, pp. 162-168.


    «Un bel lavoro da fare sarebbe quello che raccogliesse le notizie, tutt’altro che scarse, dell’azione socialista in Italia nella prima metà del secolo XIX. Lo raccomandiamo a quei giovanetti di belle speranze che sciupano il loro tempo a discutere di materialismo storico senza sapere dove stia di casa la storia, e ci rompono le scatole con la crisi del marxismo senza sapere neanche chi sia Marx»[1]. Così scriveva il Salvemini nell’anno di grazia 1899. Quasi un mezzo secolo è trascorso, ma la situazione non appare molto mutata: se si eccettuino gli studi intelligenti di Nello Rosselli e di Delio Cantimori, nulla di serio s’è fatto per la storia del socialismo in Italia. Ma la schiera dei «giovanetti di belle speranze», che gonfiano le gote discorrendo pro e contro l’attualità del marxismo, non accenna a diminuire di numero. Su di essa l’esortazione foscoliana alle storie non ha presa: troppa fatica e troppo impegno. Meglio discutere: così non si sciupano gli occhi su l’ingiallite carte delle biblioteche o degli archivi, e il cervello riposa pur avendo l’aria d’essere in continua ebollizione.
    È chiaro che ciò che il Salvemini diceva per un periodo limitato (prima metà dell’Ottocento), oggi va ripetuto ampliando i limiti cronologici fino ad abbracciare tutto il secolo scorso e i primi cinque lustri del Novecento[2]. Ma conviene insistere su l’esigenza di indagini serie e rigorose che non indulgano a fini apologetici o polemici, a ragioni contingenti e prammatiche, ad interessi pseudostorici. Occorre altresì aggiungere che non si tratta di scrivere una storia del marxismo teorico in Italia: tema, com’è noto, già affrontato dal Croce e che indubbiamente merita d’essere proseguito e integrato con ulteriori ricerche sui minori rappresentanti della dottrina e sulle correnti revisioniste o critiche dal Merlino al Mondolfo. Ma, in sostanza (come ha avvertito lo stesso Croce), dopo il Labriola il marxismo teorico non ha avuto in Italia tali sviluppi da giustificare ampie trattazioni, e quel che c’è da dire (non è poco né di scarso rilievo) riguarda piuttosto il modo col quale gli scrittori italiani hanno partecipato o reagito alle vicende del pensiero marxista in Europa. Quel che importa è invece studiare le pagine dei nostri marxisti, sia ortodossi che revisionisti, in stretta connessione con lo sviluppo del movimento socialista nella penisola: qui soccorre una vasta pubblicistica che non assurge a grande importanza per una storia delle dottrine (povera com’è, molto spesso, di note originali e ricca d’imparaticci o di curiosi adattamenti pratici), ma che non si può trascurare in quanto costituisce il veicolo di diffusione del programma socialista. Dunque, meno contemplazione astratta dei «principii» e delle fortune del verbo marxista; maggiore aderenza al concreto vivere del socialismo, che se appare spesso ancorato al momento dogmatico, successivamente – in virtù del suo stesso agire – piega e modifica in varia misura l’originario contenuto dottrinale. Non il mito avvenirista in quanto tale sollecita l’interesse storico, bensì il modo com’è stato sentito e diversamente inteso e sofferto nella quotidiana azione politica d’una élite socialista, nella faticosa ascesa sociale e morale del proletariato: non trascurare la «città del sole», ma soprattutto raccogliere lo sguardo attento sulla «città dell’uomo».
    Un altro pericolo da evitare è rappresentato dalla tendenza (propria di chi non rinuncia ai precursori o alla pretesa scoperta di mille affinità, più apparenti che reali, con altri moti coevi) a dissolvere il vero oggetto della ricerca in un genericismo indifferenziato, in un campo dai labili orizzonti. Tutto, a certuni, sembra rientrare nell’ambito vasto del socialismo: ma, per questa via, si corre il rischio d’allargarne pericolosamente i confini, e quando si vuol troppo abbracciare non si stringe più nulla. È necessario, invece, ridare ai concetti il loro preciso e concreto valore, restituire ai termini il loro storico significato. Cose ovvie, ma che si richiamano solo perché l’entusiasmo dei neofiti talvolta induce a vedere «rosso» dove c’è solo un pallido «rosa» o addirittura un altro colore.
    A questa istanza d’una storia del socialismo nel suo concreto sorgere e svilupparsi in Italia, Nello Rosselli ispirò alcune belle pagine programmatiche, ricche d’indicazioni preziose e di scorci suggestivi[3]. Il Rosselli vagheggiava, in particolar modo, una storia del periodo delle origini, dalla morte di Mazzini alla fondazione del partito o fino alla crisi del ’98-’99. Comunque, egli avvertiva la necessità di ricerche pazienti e puntuali con limiti precisi (spaziali e temporali), con problemi ben definiti. Un lavorio analogo a quel che s’è dovuto compiere nei primi anni del secolo per sottrarre gli studi storici sul Risorgimento alle tradizioni agiografiche, al gusto dell’oleografia, ai pericoli del dilettantismo; ma senza cadere negli stessi limiti ed errori d’una erudizione archivistica o d’una critica documentaria non sorrette dal senso vivo delle questioni, da una ricca problematica, da un consapevole giudizio etico-politico.
    Nel campo del socialismo c’è tutto, o quasi, da fare, a partire dagli studi locali e regionali che devono rappresentare singole tappe d’avvicinamento ad una ricostruzione complessiva, non generica e compilatoria, ma pensata ed articolata nei suoi diversi aspetti concreti. Sappiamo qualcosa di più per alcune città o zone (Genova, con il suo moderno nucleo operaio nello sfondo di tradizioni mazziniane e repubblicane in declino; il Polesine, con il tema del bracciantato, la Brianza e il Biellese, con le aspre contese di lavoro tra le maestranze e l’industria tessile in rapido sviluppo; infine, le provincie «tipiche» di Parma e Reggio Emilia)[4], ma – come altri ha già notato – non esistono lavori sulla Romagna, la Toscana, la Sicilia, tanto per limitarci a regioni di peculiare interesse. Repubblicanesimo, ideali libertari, socialismo, sono i tre motivi che s’oppongono e s’intrecciano nell’ardente terra di Romagna, ma quanto poco sappiamo (oltre le consuete generalità d’ispirazione letteraria) del reciproco agire, interferire e avvicendarsi delle tendenze nelle città e nelle campagne. Per la Toscana, dove intorno al ’60 fiorirono le fratellanze artigiane e le società operaie d’impronta mazziniana e democratica (si pensi a Giuseppe Dolfi), è abbastanza nota la fase bakouniniana internazionalista, ma il successivo passaggio all’organizzazione del socialismo come partito è avvolto dalle ombre; e lo stesso si dica del movimento dei mezzadri, accanto al quale si pone l’altro problema del fluttuante atteggiarsi dei piccoli proprietari di fronte alla diffusione delle forze estremiste. Tema anche più arduo quello della Sicilia, che ha caratteri proprie e inconfondibili, perché l’incontro tra le prime masse insorgenti e il socialismo si attua al di fuori dei nessi tradizionali, quasi per un istintivo ritrovarsi ed uno spontaneo riconoscersi, serbando al socialismo isolano, anche nei decenni seguenti, una fisionomia tipica ed originale.
    Manca, e sarebbe necessaria almeno per l’Italia del nord, una storia del movimento operaio come quella del Dolléans per la Francia. Il libro, in gran parte autobiografico, di Felice Anzi[5], che si riferisce al decennio 1882-1892, dovrebbe servire di stimolo per meglio illuminare il passaggio dall’organizzazione operaia al partito, il distacco dalle tendenze anarchiche, la confluenza nel moto socialista. Manca pure una storia delle plebi rurali e della loro adesione al socialismo; ch’è una pagina atta da sola a caratterizzare il socialismo italiano, a differenziarlo da quello dei grandi paesi prevalentemente industriali. Come la classe contadina sia uscita dall’ombra, come abbia reagito alla predicazione del «nuovo verbo», come abbia accolte le prime esperienze sindacali, assimilando forme organizzative e metodi inconsueti di lotta, come si sia diffusa anche nelle campagne la stampa settimanale di partito, sono tutte questioni che attendono d’essere esaminate con cura e con occhio vigile alle infinite varietà locali della nostra penisola. Per la valle padana occorre rivolgere l’indagine a quel delicato momento che segna, nella proprietà terriera, il graduale sostituirsi al vecchio patriziato della nuova borghesia agraria meno illuminata e più avida, desiderosa d’accrescere rapidamente i propri capitali. Le condizioni del ceto rurale peggiorano: al regime paternalistico, spesso rischiarato da gesti d’umana carità, degli antichi «signori», subentra la pressione vicina e diretta dei nuovi «padroni», rivolta a far produrre di più senza adeguati corrispettivi, e quindi suscettibile d’essere intesa come «sfruttamento» delle classi lavoratrici. In questa fase, lo sguardo dei contadini non si posa più soltanto sul vecchio binomio (il padrone e il prete), abbraccia anche una figura nuova: l’agitatore socialista. Tuttavia, in molti comuni della Bassa, l’azione sindacale e politica fu preceduta dall’opera del maestro elementare e del medico condotto, senza ch’essi fossero discepoli del Marx o nutrissero ambizioni popolari. Sopra tutto il medico, nella sua quotidiana lotta contro il pauperismo e la pellagra, per un risanamento delle case coloniche, per un miglioramento dell’alimentazione con la graduale sostituzione del pane bianco al pane giallo che dominava incontrastato per almeno trecento giorni dell’anno, finì con lo svolgere un’attività socialista «avanti lettera», nel senso di predisporre i primi temi di rivendicazione come istanze della stessa scienza, dell’umano progresso, d’una urgente miglioria delle condizioni elementari di vita.

    (...)


    [1] RERUM SCRIPTOR, I partiti politici milanesi nel secolo XIX, Milano, 1899.

    [2] Per il periodo anteriore al ’48, cfr. D. CANTIMORI, Utopisti e riformatori italiani, Sansoni, Firenze, 1944; per il decennio ’48-’59, cfr. G. ANDRIANI, Socialismo e comunismo in Toscana tra il ’46 e il ’49, in «Nuova Rivista Storica», 1921, e N. ROSSELLI, Carlo Pisacane, Bocca, Torino, 1932. Per il periodo posteriore, fino alla morte del Mazzini, ancora N. ROSSELLI, Mazzini e Bakounine, Bocca, Torino, 1927. Una buona rassegna di quel non molto che s’è fatto fino a questi ultimi anni l’ha offerta E. TAGLIACOZZO, Gli studi storici sul movimento operaio in Italia nel cinquantenario 1861-1915, Vallerini, Pisa, 1937; sono da aggiungere i noti libri recenti del Bonomi e del Perticone. Per altre succinte indicazioni, si veda l’appendice bibliografica al mio volume: I partiti politici nella storia d’Italia, Le Monnier, Firenze, 1945, pp. 115-116.

    [3] N. ROSSELLI, Di una storia da scrivere e di un libro recente, in «Rivista storica italiana», 1937, I, pp. 78-86. (Il libro è quello di IVON DE BEGNAC, Vita di Mussolini, vol. I, Mondadori, Milano, 1936). Mentre correggo le bozze apprendo che fruttuose ricerche archivistiche sono state iniziate a Napoli e altrove da Aldo Romano, su gli esordi del socialismo in Italia. Tra gli altri materiali di studio sono venute alla luce tre lettere dirette da Federico Engels a Carlo Cafiero nel luglio del 1871 (cfr. ALDO ROMANO, Nuovi documenti per la storia del marxismo, in «Rinascita», 1946, I-II, pp. 27 sgg.).

    [4] Rispettivamente: M. BETTINOTTI, Vent’anni di movimento operaio genovese, Associazione Nazionale Studi dei «Problemi del lavoro», Milano, 1932; E. ZANELLA, Dalla barbarie alla civiltà del Polesine, id., Milano, 1931; C. AZIMONTI, Un trentennio di vita sociale nella culla dell’industria tessile, id., Milano, 1931; R. RIGOLA, Il movimento operaio nel biellese, Laterza, Bari, 1930; B. RIGUZZI, Sindacalismo e riformismo nel parmense, Laterza, Bari, 1931; G. ZIBORDI, Saggio di una storia del movimento operaio in Italia (Camillo Prampolini e lavoratori reggiani), 2a ediz, Laterza, Bari, 1930.

    [5] F. ANZI, Il partito operaio italiano, ANS «Problemi del lavoro», Milano, 1933.
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    Predefinito Re: Per una storia del socialismo in Italia (1946)

    Sono poi necessarie biografie, vere biografie storiche e non panegirici o romanzi: alcune figure come quella di Andrea Costa[1], del Gnocchi Viani, del Badaloni[2], per non parlare di un Turati, offrono vaste possibilità di lavoro e segnatamente i giovani, studiandole, ne avvertirebbero tutto il fascino e l’interesse. Insieme con le persone singole (ma la cui azione si sostanzia nella storia della conquista socialista di regioni e provincie o addirittura nelle vicende del partito, dei suoi organi centrali, del suo indirizzo), i gruppi, massime i più antichi, gl’iniziatori, come quello raccoltosi intorno alla «Plebe» di Lodi. Analogamente, accanto al libro troppo famoso sul romantico salotto milanese della contessa Maffei, ne vorremmo un altro (però… meno estrinseco) sul salotto di Anna Kuliscioff, ch’è quanto dire sullo «stato maggiore» del socialismo italiano tra la fine del secolo e il primo decennio del Novecento[3].
    Ma per far questo occorre attingere non ai soli ricordi personali o alle notizie di comune dominio, bensì predisporre ampie indagini come si conviene ad ogni seria ricerca. Un invito alle fonti è il primo appello che conviene rivolgere agli studiosi: bisogna procedere ad uno spoglio dei giornali e dei periodici: non appena dell’«Avanti!» o della «Critica sociale», ma in primo luogo dei vecchi fogli e poi della stampa provinciale e locale. Indagini sistematiche devono essere iniziate negli archivi di grandi e piccoli Comuni, di organismi sindacali, di Camere del Lavoro: con la bufera ch’è passata, non molto sarà forse reperibile, ma vi potranno essere casi fortunati e saranno questi ad illuminare, entro limiti di cautela, gli altri più poveri di testimonianze dirette. Dagli archivi si Stato verrà qualche luce sui primi processi socialisti[4], su l’«Internazionale», sulla nascita dei primi circoli: tutte cose che la polizia sorvegliava anche troppo da vicino. Poi verranno i carteggi privati a consentire giudizi più intimi e approfonditi, ad illustrare legami spirituali e pratici, a colorire gli ambienti, a ravvivare le singole figure. Ma, intanto, è doveroso cominciare dalle fonti più accessibili per impedire che anche queste subiscano maggiori perdite o dispersioni con il passare degli anni. Gli ostacoli non sono pochi: occorrono biblioteche specializzate ed emeroteche; le prime in Italia difettano[5], le seconde mancano affatto. Oggi non è neppure agevole consultare tutti gli atti dei congressi socialisti o le pubblicazioni edite dal Partito, e – per scendere a cosa più modeste ma utili – gli almanacchi che per certi anni sono ricchi di notizie[6]. Distruzioni e mutilazioni hanno pure subito, nel ventennio fascista, raccolte ed archivi di privati, di enti, di Camere del Lavoro; ed anche le collezioni dei giornali in talune pubbliche biblioteche furono sconciate. Ragione di più per raccogliere i materiali superstiti, vagliarli, ordinarli. E col fiorire degli studi e dei ricercatori, la documentazione verrà alla luce, e bisognerà magari raccomandare di non custodire le briciole, di non smarrirsi nella cronaca minuta, di non sciupare il tempo in quisquilie.

    (...)


    [1] Com’è noto, al Costa dedicò belle pagine, storicamente assennate e informate, proprio un romanziere, il Bacchelli.

    [2] Troppo poco quel che ne dice il Zanella nel vol. cit. sul Polesine. Migliore il libro dello Zibordi (cit.) sul Prampolini.

    [3] Un contributo prezioso l’ha già recato, in un suo libro recente, P. Treves.

    [4] Ne promette uno studio N. Cortese per la Biblioteca Storica del «Centro di Studi sociali» sorto a Roma.

    [5] Grave, in tal senso, la perdita dovuta a cause di guerra della biblioteca di Adolfo Zerboglio a Pisa: una miniera preziosa per la storia del socialismo.

    [6] Le condizioni delle biblioteche italiane sono tali che, fatte le debite proporzioni, riesce assai più facile e completa una ricerca sulla rivolta di Masaniello che non sui fasci siciliani, sulla pubblicistica politica della «ragion di Stato» che su quella del periodo umbertino, intorno ai primi giornali del Risorgimento che non ai fogli di cinquant’anni fa.
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    Predefinito Re: Per una storia del socialismo in Italia (1946)

    I temi e i problemi non mancano: si pensi, per cominciare dal poco, o meglio da un’area circoscritta, alla storia d’una Camera del Lavoro, e non solo di quella famosa di Genova, ma d’una qualunque piccola città, od anche d’un semplice borgo: com’è sorta, com’è divenuta la «casa del popolo», quale la sua organizzazione interna, i suoi rapporti col partito, con l’amministrazione cittadina, con la prefettura (e con… la questura).
    Alcuni lavori preparatori (ad es. sulla FIOM e la funzione prevalente ch’essa ha assunto nei grandi scioperi ed il peso indirettamente esercitato sul partito) potrebbero aprire la via ad una storia della «Confederazione generale del Lavoro», ed offrirci così uno strumento di prim’ordine per la conoscenza della vita economico-sociale dell’Italia moderna. Nella sfera più propriamente politica, è necessario soffermarsi su alcune circoscrizioni elettorali: vedere, per esempio, come certi collegi siano passati nel giro di pochi anni dalla democrazia radicale al socialismo (caso tipico, Corteolona, la roccaforte di Cavallotti); come la Lomellina, per lungo tempo feudo di «moderati», divenga un baluardo «rosso»; come nel Mezzogiorno si giunga alle prime vittorie elettorali socialiste. E poi, la storia (o – se vogliamo – appena la cronaca) d’un quartiere urbano come l’Oltretorrente: la sua fisionomia sociale, il vario atteggiarsi e reagire di fronte alla lotta del sindacalismo rivoluzionario nelle campagne parmensi contro la prima organizzazione classista della borghesia agraria (1908). Passo passo, sarà agevole salire a problemi d’ordine più generale: non abbiamo ancora uno studio sui moti del ’98, sul loro significato e sulle loro ripercussioni nell’orientamento di tutti i partiti. Esaminare la crisi del ’98-’99 vuol dire porre in luce il comportarsi del socialismo dinanzi al problema della libertà, perché sotto i colpi della persecuzione (come disse Turati) «il partito dovette imparare a proprie spese la necessità imprescindibile della libertà e della tattica accorta delle alleanze»[1]. Difendere i diritti di libertà, e in essi far gradualmente progredire il socialismo: «fuori di questa via – ammoniva lo stesso Turati – vi è la nostra bancarotta»[2]. Da quella via nasceva però il riformismo, e quindi l’affievolirsi non solo dello spirito rivoluzionario in senso stretto, ma altresì d’una vigile cura alla preparazione tecnica dei futuri quadri dirigenti e, per converso, la persuasione che ormai nessuna seria minaccia sarebbe sorta ad interrompere il sicuro cammino ascensionale del socialismo, che la democrazia borghese non avrebbe tollerato ritorni reazionari, autoritarismi e dispotismi. Per il circolo della «Critica sociale», per Turati non meno che per Bernstein e per Kautsky, la linea della progressiva conquista socialista era ormai segnata: si trattava di promuoverla, di sollecitarla, con una costante pressione sui governi borghesi; ma il periodo eroico, la fase della battaglia più aspra e dei sacrifici cruenti, pareva chiusa per sempre. Di qui una pericolosa indifferenza verso «i problemi di struttura della democrazia politica», quasi che bastasse l’ineluttabile evoluzione economico-sociale a garantire il trionfo finale del socialismo e con esso la futura trasformazione dello Stato.
    A questo problema se ne connettono strettamente due altri: da un lato, il nesso tra il socialismo italiano e quello francese e tedesco (al di fuori dei vincoli ufficiali internazionalistici) che va studiato da cima a fondo se si vuol evitare il pericolo d’isolare il processo storico italiano dal vivo circolo europeo; dall’altro, la sordità e l’agnosticismo dei nostri socialisti (salvo poche eccezioni) per la politica estera, non valutata alla stregua d’una attività vitale del paese che impegnasse anch’essi positivamente, ma solo come una fonte di pericoli, di deviazioni e contaminazioni, d’ambiziose velleità borghesi, da controllare e ostacolare negativamente. Per chiarire questo punto converrà analizzare il concetto di patria dei nostri socialisti e il suo spogliarsi dei motivi risorgimentali e nazionali (così vivi nei primi anni) dopo la nascita della seconda Internazionale; quei motivi che riaffioreranno vigorosi in Bissolati e in Battisti.
    Il distacco dell’ala bissolatiana ci porta a discorrere del partito social-riformista e delle sue scarse fortune. Il Bonomi ha cercato di spiegarne le ragioni; in realtà, la prassi riformista era già stata attuata dal socialismo ufficiale nel decennio precedente, e il nuovo partito nasceva proprio quando il metodo riformista stava per entrare in crisi, travolto dai nuovi problemi suscitati dalla guerra e dalla rivoluzione sovietica. In tal senso, i rilievi del Bonomi su l’attitudine assunta dalla Confederazione generale del Lavoro sarà bene sottoporli a vaglio critico. Bisognerà invece esaminare le ragioni d’un certo professionismo che s’è venuto creando, negli ultimi anni, nelle organizzazioni sindacali; la conseguenza fu un venir meno di quella perfetta sintonia tra azione politica e organizzazione delle «leghe» operaie e contadine ch’era stata un vanto dei primi socialisti. Non che, dopo la guerra, si verifichi un divorzio o si manifesti un’incompatibile convivenza; ma certo è avvertibile un sentire con minore intensità, talvolta con indifferenza, la sorta della lotta politica come tale, e quindi del partito: il che aiuta a capire come molti di quegli organizzatori siano poi passati a «servire» il fascismo, anche se questo li aveva coperti di contumelie.
    «Le masse sono oggi in uno stato di tensione e d’esasperazione violenta, ma l’azione che tendesse all’immediata instaurazione del comunismo non potrebbe raggiungere il suo fine», scriveva R. Mondolfo nel 1920. E allora? Allora cominciava l’arduo dovere di non lasciare isterilire quelle energie, mantenendole operose in un concreto fattivo e «possibile» programma d’azione, e di liberarle dalla «faciloneria d’un massimalismo parolaio e infecondo» o dalla miracolistica attesa di chi preferiva guardare all’esperienza russa così come contempla una sacra icone. Senonché, tra il ’19 e il ’21, in un’Europa travagliata dai problemi angosciosi del dopoguerra, il mito della rivoluzione mondiale a breve scadenza esercitava un fascino altissimo; e, d’altro lato, la validità del vecchio riformismo era gravemente infirmata dal fatto che, per realizzarsi, esso presupponeva un ordine democratico che lo Stato liberale in crisi non era più in grado di garantire. Tra i due corni del dilemma (rivoluzione comunista o riformismo), il massimalismo poteva apparire come l’illusoria soluzione dell’antitesi; nel fatto era, esso stesso, l’indice più eloquente della crisi socialista.

    Carlo Morandi



    [1] F. TURATI, Vent’anni di critica sociale, a cura di A. Levi, Zanichelli, Bologna, 1921, p. 77.

    [2] F. TURATI, op. cit., pp. 94-95.
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