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    Predefinito Re: Articoli di Cesare Battisti su CarmillaOnLine e approfondimenti

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    [B·68 o anni di piombo? L’anomalia italiana 1/3[/b·
    Pubblicato il 28 Marzo 2006 · in Il caso Battisti ·
    di Cesare Battisti

    Cesarepensoso.jpg
    [Questo testo, datato 30 gennaio 2006, è il primo fatto pervenire da Cesare Battisti dopo l’esilio. Lo abbiamo suddiviso in tre parti. Terminata la pubblicazione, aggiorneremo i nostri lettori sui più recenti quanto vacui tentativi di linciaggio dello scrittore, nonché sull’imminente uscita in Francia del suo nuovo libro, Ma cavale (“La mia fuga”).] (V.E.)

    1. Premessa. Quale Verità?

    Non ho alcuna intenzione di fornire l’ennesima analisi degli anni di piombo. Non potrei farlo. Perché sono una parte in causa, perché non sono uno storico e soprattutto perché mi è oggettivamente impossibile raccontare una ferita che non si è ancora cicatrizzata nel corpo sociale italiano. Ma se mi avventuro su questo terreno sdrucciolevole è perché dopo che sono fuggito dall’Italia nel 1981, durante i miei ventiquattro anni d’esilio politico e con l’attività letteraria che ne è seguita, ho dovuto continuare a rispondere alle stesse domande: “Perché sei un rifugiato? Come è possibile trent’anni dopo? Che cosa è successo nell’Italia del 1968?”

    Cercando di rispondere a queste domande, ho sempre avuto l’impressione di non riuscire a dare la spiegazione giusta. Non riuscivo a formularla bene e sicuramente la mia condizione di rifugiato mi impediva di essere obiettivo. In piena corsa, è difficile vedere distintamente.
    Adesso che non ho più nulla da difendere e che nessuno mi fa più certe domande, provo ancora a dare una risposta, consapevole che la natura di questo passato recente è troppo complessa per essere riassunta in pochi elementi. Molti artisti e intellettuali hanno cercato di comprendere e di spiegare questo periodo ma, nonostante il vantaggio dello scarto temporale, hanno tutti fallito. Gli uni perdendosi in contraddizioni, gli altri cedendo alla parzialità. Film, libri, documentari e dibattiti… si è fatto di tutto intorno a questi incomprensibili anni ’70. Ma il rumore sordo di un tassello mancante ci riporta sempre alla questione primaria: “Cos’è questa anomalia italiana del ’68?” Un conflitto le cui problematiche si trascinano, mentre la Storia attende di conoscere le ragioni che l’hanno causato. Perciò, per quelli che vogliono sapere, è necessario confrontarsi con le testimonianze di chi c’era, e credere che costoro si sforzassero sinceramente di guardare i fatti con obiettività. E’ questo che sto cercando di fare. Ma non da solo.
    In questa rapida rassegna del panorama politico italiano che partorì, nel seno dell’Europa post-sessantottina, l’anomalia conosciuta col nome di “anni di piombo”, farò riferimento a tre argomenti. Il mio impegno nel movimento degli anni ’70, e il ruolo che vi ha giocato il mio ambiente familiare (una famiglia comunista, militante della prima ora con mio fratello maggiore eletto nelle liste del PCI). Farò soprattutto riferimento ad alcune argomentazioni di autori che non hanno mai nascosto il loro rifiuto netto e determinato delle scelte politiche, armate o meno, operate dalla ribellione che dilagava nelle strade italiane. Tra questi, Pier Paolo Pasolini, Sandro Penna, Mario Tronti. Mi dispiace di non poter citare con precisione le date di edizione dei loro articoli o dei loro discorsi, ma non sono in condizione di procurarmi tali dati. Posso pertanto contare solo sulla mia memoria. Spero che gli interessati possano perdonarmi. Se ho scelto questi autori è innanzi tutto perché ho sempre ammirato la loro capacità critica. E’ anche perché, in virtù delle loro posizioni francamente ostili alla nostra avventura armata, con ciò mi metto del tutto al riparo da ogni tentazione di parzialità.
    Lo ripeto, non sono in condizione di fornire dei dati bibliografici. Innanzi tutto, sono un evaso e i bibliotecari hanno un’eccellente memoria visiva. E poi dubito che qui dove sono troverei i documenti che mi interessano. Ma soprattutto non mi va di trovarmi davanti uno scaffale interamente consacrato alla ricchissima produzione di questi autori. Finirei per perdere di vista i miei propositi iniziali passando di titolo in titolo, seguendo gli autori da un’epoca all’altra, dalla parola che dice alla riflessione che interroga. Il piacere della rilettura. Tutto questo è bello e interessante ma non mi faciliterebbe il compito di parlare senza timore e di raccontare tutto ai miei amici lettori. Sappiamo bene che solo quando non ci prendiamo sul serio diciamo una verità che tutti possono comprendere. Per questa ragione, invece di tuffarmi nell’opera della riflessione, considero più efficace mantenermi sui toni più diretti che caratterizzano gli articoli e qualche discorso improvvisato all’epoca da parte di questi stessi autori. L’analisi comportamentale non è il mio campo. Sono un romanziere e mi limito a esplorare i sentimenti. Sono consapevole che non è facile per me affrontare gli anni ’70 con i propositi che ho appena spiegato, ma mi sento più che mai libero di parlare a chi vuol conoscere. Non avrò timore, a beneficio della chiarezza, di ricorrere a discorsi facili e superficiali. Se scelto con intenzione, questo può rivelarsi un formidabile mezzo espressivo, quando si ha qualcosa da dire. A che scopo riempire pagine e pagine di cui l’una non è che la spiegazione dell’altra? Se questa fosse letteratura, scriverei un romanzo al giorno. Io amo scrivere, abbandonarmi alla perversione della scrittura, gioire di un piacere osceno quando agguanto infine la parola che va e viene come una mosca, per strapparle abilmente le ali e tutto quanto eccede la sua primaria nudità. E’ così che voglio affrontare la spiegazione di quest’epoca per condividerla con chi amo e con chi, e sono i più, non ho mai incontrato. Non aspettatevi dunque discorsi eloquenti o asserzioni assiomatiche. Qui non c’è posto per verità indiscusse.
    Lasciamo che la Verità alimenti la forza prodigiosa della gioventù o che fori con la sua luce la cecità dei più maturi. Tranne i fanatici che la dispensano continuamente e gli illuminati che la negano per principio, la verità si ritrova spesso disoccupata. Francamente, ho fatto fatica a concepire una società senza verità. Essa è indispensabile. E non si butta la verità nella spazzatura solo perché c’è un bel numero di imbecilli che la vorrebbero Una, Sola, Assoluta e barbuta come Dio. E’ possibile che tre quarti dei viventi non siano mai stati toccati dalla bontà divina, ma chi potrebbe dire sinceramente di non avere mai avuto il proprio piccolo attimo di verità?
    Infine, abbiamo tutti gustato quel favoloso momento in cui il mondo ci pareva nostro perché avevamo trovato la nostra verità. Salvo, forse, qualche sfortunato, nato ed “educato” da un guru della piana del Larzac che, poveretto, per toccarla un istante ha dovuto seppellire suo padre. Niente di grave, non c’è età per saltare sulla verità e galoppare con lei il tempo di un giro di un giro del maneggio.
    La Verità non esiste ed è questa la sua forza. Un sentimento, delle emozioni, un’idea, essa è tutto questo al medesimo tempo, e si lascia modellare secondo il volere e la necessità di ciascuno. E’ allora che essa smette di essere un’astrazione, che agisce sul soggetto, esiste in lui, ma possiede una forza propria. Certe volte capita che, presa dalla velocità, perda di vista il soggetto della sua esistenza e cada di schianto a terra. Ecco perché talvolta accade di trovare dellaa verità morta un po’ dappertutto, in un libro di storia, tra i petali di una rosa, nel bel mezzo di un codice penale o di una rivista dimenticata su una panchina.
    E così, parlando di Verità, vi ho rifilato la prima menzogna.

    2. Il potere democristiano.

    Non voglio risalire troppo a monte, ma mi è impossibile affrontare gli anni di piombo senza dire due parole sulla Democrazia Cristiana. Un partito che, dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha governato l’Italia senza interruzione per mezzo secolo.
    Bisogna sapere che negli anni ’20, lo Stato fascista di Mussolini era fondato sulla piccola borghesia e sulla classe contadina che nutriva aspirazioni borghesi. E’ su questa stessa base elettorale che si è venuto a creare lo Stato democristiano alla fine della seconda guerra mondiale. Molto prima, quando l’ex socialista Mussolini aveva tentato la prima reale unificazione del giovane stato italiano, questa piccola borghesia e questi pii contadini formavano un mondo unito, fondato su una stessa morale e una medesima retorica. Questo universo, ben ancorato al suo contesto culturale, non produceva necessariamente dei valori negativi. Esprimeva un modello di vita senz’altro criticabile ma almeno reale. In seguito, strappato al suo contesto e proiettato brutalmente in una dimensione nazionale, darà vita al discorso negativo e repressivo che fu alla base del successo mussoliniano prima e della Democrazia cristiana poi.
    I Democristiani (DC, partito nato dal giorno alla notte per opera delle forze alleate al fine di impedire l’avanzata dei comunisti oltre la cortina di ferro) hanno sempre assicurato di non avere niente in comune con i fascisti del passato. Se ciò era vero da un punto di vista formale, le stesse basi della loro politica contribuivano a smentirlo. Dopo la legge riguardante l’amnistia, approvata da Togliatti, il capo del PCI di allora, i più insigni rappresentanti del popolo non dovettero fare altro che barattare la loro camicia nera con una camicia bianca dal colletto inamidato. Mentre l’amministrazione pubblica sbiancava i prefetti manganellatori, il potere centrale metteva in prima fila qualche “umanista” (come De Gasperi, pilastro della DC) per coprire e riciclare gradualmente i più fedeli collaboratori del vecchio regime. Alcuni di questi collaboratori resteranno alla testa del governo italiano fino agli anni ’90. Questi cambiamenti di casacca, corroborati dall’inesauribile finanziamento degli USA, ha permesso loro di prendere il potere e in tal modo di fare onore all’infame accordo di Yalta. Il regno democristiano non era un blocco omogeneo con un progetto chiaro che avrebbe fatto dell’Italia un Paese libero e solido. Soltanto la loro versatilità politica e la loro formidabile capacità di muoversi tra le alleanze più disparate ha permesso loro di restare al potere fino all’alba del XXI secolo. E tutto ciò malgrado la forte opposizione della sinistra. Ecco la cosa veramente impressionante.
    Con il Paese ormai nelle proprie mani, si sono creduti imbattibili. La loro schiacciante potenza elettorale negli anni ’50 e l’appoggio incondizionato del Vaticano li portarono a perseguire, sotto le sembianze di una democrazia formale e l’apparenza di un antifascismo verbale, una politica ereditata dal periodo fascista in cui venivano mantenuti i privilegi corporativi mascherati da una sorta di populismo double-face: uno sguardo all’Europa del futuro e l’altro, mai confessato, rivolto alla “necessità” di uno stato democratico di polizia.
    Forte di una base elettorale inesauribile imbottita di falsi valori, il potere democristiano estese audacemente la sua rete clientelare e criminale, lasciando da parte gli scrupoli ogni volta che ne valeva la pena. Grazie alla garanzia del Vaticano, questo stato di cose sembrava acquisito e definitivo. In qualità di partito che esprimeva gli interessi della piccola borghesia, la DC nutriva un profondo disprezzo per la cultura, percepita come un fenomeno praticamente inutile e spesso pari a un germe di sovversione. Così, a causa della loro fin troppo evidente arroganza, della corruzione divenuta regola di Stato e delle loro potenti organizzazioni mafiose, nel giro di qualche anno i democristiani si ritrovarono come il Re nudo. Il loro elettorato si era disperso e il Vaticano, l’eterno alleato, non aveva più argomenti per contenere da un lato le stragi di Stato e dall’altro le orde della nuova generazione insorta. A questo punto ci troviamo nel bel mezzo degli anni ’70. I democristiani, senza mai ammetterlo pubblicamente, sono ormai coscienti che il loro potere storico e concreto non coincide più col potere reale. Però tengono duro, cercano una soluzione.

  2. #12
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    Predefinito Re: Articoli di Cesare Battisti su CarmillaOnLine e approfondimenti

    68 o anni di piombo? L’anomalia italiana 2/3
    Pubblicato il 29 Marzo 2006
    di Cesare Battisti

    3. La dissoluzione del sottoproletariato e le sue conseguenze

    Ma da dove venivano quelle orde selvagge di giovani che volevano tutto e subito? Anche la risposta a questa domanda esige un passo indietro.
    All’inizio degli anni ’60 i più poveri tra i poveri in Italia avevano ancora il comportamento archetipico della società dei miserabili. La purezza della povertà che li contraddistingueva valeva loro l’appellativo di “sottoproletari” Erano portatori di valori antichi, di vecchie culture regionali e di un modello di relazioni sociali privo di qualsiasi legame con le regole urbane. Vivevano nelle loro grandi riserve ove dimoravano ancora usanze feudali, dimenticati da Dio e visitati dai candidati politici durante la campagna elettorale.

    Erano poveri ma totalmente liberi. L’unico elemento che li condizionava era la loro stessa povertà: un elemento che li marcava e che era parte integrante del loro mondo (Pier Paolo Pasolini, 1976). A differenza degli operai, questi sottoproletari si erano mantenuti ai margini della storia borghese. Rimanevano degli estranei. I più poveri tra i poveri, i nomadi, i figli di ragazze madri, gli uomini e le donne abbandonati, chiunque avesse un marchio di nascita finiva per radunarsi ai margini dei margini della società Per tali ragioni, e fino alla fine degli anni ’60, chi sapeva adattarsi trovava velocemente un posto in questa struttura prevista da un ordine sociale quasi immemorabile, preciso e fatale. In questo universo, ciascuno cercava di adattarsi ad attività ineluttabili ben stabilite e identificate fin dall’inizio, in certo modo. Diventava un bandito, un delinquente o semplicemente un miserabile.
    Ma ecco che durante il boom economico degli anni ’60, la massiccia emigrazione dall’Italia profonda, questa riserva di voti e di manodopera, spazza via i recinti che contenevano la massa dei poveri rinchiusa nelle vecchie riserve Dalle brecce aperte, fiotti di giovani miserabili si riversavano in altri territori, popolando il mondo proletario o borghese. Tale flusso generale darà origine a un nuovo tipo di disadattato, privo di un proprio modello di vita, senza alcun punto di riferimento.
    Simultaneamente, lo spirito della classe dominante, fino ad allora contenuto entro le frontiere delle cittadelle urbane, finì per penetrare l’intera società fino agli anfratti più remoti. In pochissimo tempo si diffuse in tutto il paese un diverso modello di vita, conosciuto fino ad allora soltanto dai privilegiati, annullando le antiche culture locali, rendendole bruscamente inutili e grottesche, annichilendo le tradizioni, fossilizzando i dialetti, ridicolizzando i particolarismi. I poverissimi si trovarono così brutalmente privati della propria cultura, spossessati della propria libertà e dei modelli di vita che attestavano la loro esistenza nel mondo. In questo modo emergeva un secondo genere di disadattati, che finì per aggiungersi a coloro che avevano lasciato le riserve e a chi ancora ci viveva.
    Ed è qui che si pone la domanda cruciale: che faranno questi giovani per i quali, ormai, l’appellativo di “disadattati” è divenuto intollerabile? Be’, faranno quello che fanno i figli dei ricchi, gli studenti, modello di realizzazione sociale. Si pone a questo punto il problema dei mezzi. Hanno bisogno di un alloggio, di vestiti, di musica, di una Vespa per uscire la domenica. Ma il furto, un tempo “riconosciuto” nelle riserve sottoproletarie, non è più la soluzione giusta. Non ne vogliono più sapere, si sono integrati in un altro ambiente, hanno accesso all’istruzione: ormai il furto è malvisto. Senza contare che con la nuova legge Reale (dal nome del ministro della Giustizia che, nel 1975, autorizzò i poliziotti ad aprire il fuoco anche in assenza di legittima difesa) l’opzione criminale è divenuta una professione qualificata, un privilegio da brivido riservato al grande banditismo.
    Nel frattempo qualcos’altro vibra nell’aria, un nuovo territorio da esplorare verso cui volgere lo sguardo. Questi marginali hanno degli amici studenti che parlano di contestazione, di riappropriazione. La loro lingua è senza dubbio complicata, ma la rabbia e l’obiettivo sono gli stessi. Gli studenti vengono nei quartieri ghetto accompagnati da professori coi capelli lunghi. Miraggio favoloso, sembra non esserci più differenza tra poveri e studenti. E tutti sembrano volere la stessa cosa.
    Questo riavvicinamento diviene via via più frequente. Per strada, nei posti di lavoro, a scuola, questi nuovi disadattati assetati di vita frequentano quotidianamente i giovani borghesi, lanciati in una violenta polemica contro la loro stessa classe. Con loro appaiono anche i nuovi diseredati del Partito Comunista Italiano, ex militanti, operai, sindacalisti, membri del corpo insegnante e anche qualche quadro di partito, che si organizzano in gruppi, teorizzano e predicano una nuova via rivoluzionaria. Da questo triplo incontro nascerà l’onda di violenza politica che sommergerà l’Italia negli anni ’70.

    4. Il “patto del silenzio”, o compromesso storico

    In quest’epoca si crea un abisso tra il Partito Comunista Italiano e l’Italia. Il grande e potente PCI non è altro che un paese separato (Pier Paolo Pasolini), un’isola popolata da politici di professione il cui unico scopo è di mettere le mani sulle leve del comando centrale. Questa nuova situazione lo porta a instaurare, come non era mai successo prima, delle relazioni serrate col potere reale della DC. Relazioni sotto forma di rapporti democratici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali non avevano nulla in comune. Da un lato una DC corrotta e dall’altro un PCI con le mani pulite. Ma è precisamente a partire da queste inedite basi che diviene possibile progettare un compromesso realistico capace forse di salvare l’Italia dal disastro. Un compromesso non diverso da un’alleanza tra due Stati vicini, o incastrati l’uno nell’altro.
    Un paese diviso in due schieramenti così differenti, come la DC e il PCI, non può sperare nella pace e nello sviluppo. Di fronte a questa impasse, gli uomini del PCI, anch’essi uomini di potere, cercano naturalmente una saldatura con lo schieramento opposto, per quanto diverso esso sia. Questo spiega il fatto, stupefacente a prima vista, ma in realtà profondamente coerente, che gli uomini politici dell’opposizione, pur avendo tutte le prove, non denunciarono mai le stragi di Stato e i colpi di Stato che iniziarono nel ’69, con il massacro di Piazza Fontana. fino agli ottanta morti della stazione di Bologna alla fine degli anni ’70. Perché questi uomini, a differenza degli intellettuali, distinguono tra verità politica e pratica politica. In tale logica, non si parla nemmeno di condividere questo genere di informazioni destabilizzanti, se non con chi è votato alla ragione della politica e soltanto con costoro. Insieme, DC e PCI sanno e tacciono. Insieme, proteggono innanzi tutto il governo italiano.
    La scelta della legge del silenzio da parte del PCI, quasi una complicità passiva, non fu operata senza previa riflessione. Si trattò di un rischio calcolato. Il PCI rinunciò deliberatamente all’etica che lo distingueva dagli altri partiti, e quindi all’appoggio incondizionato della base operaia, in nome di una ferma fiducia nella strategia politica e nei principi formali della democrazia, al fine di raggiungere una possibile partecipazione al potere centrale. Non si può escludere che, in quest’ottica, gli uomini del PCI si riservassero la possibilità di tornare pubblicamente sui fatti di sangue una volta conseguita una posizione di forza all’interno del governo. Si tratta dell’applicazione pura e semplice del detto secondo il quale “il fine giustifica i mezzi”. I risultati di questa strategia si fecero attendere e non giunsero mai.
    Avvolti da questo mutismo, i numerosi settori sociali che subiscono da molto tempo la sanguinosa presenza delle potenti organizzazioni criminali, che assistono allo scoppio delle bombe di Stato, così come alla violenza politica spesso praticata dai loro stessi figli, non arrivano a comprendere cosa stia realmente accadendo nel Paese. Non resta loro dunque che la semplice reazione di accusare la totalità della classe politica italiana. Fu in questa situazione che, seppure con molte reticenze, una minoranza di italiani, senza distinzione di classe (in un primo momento), soffiarono sul vento della rivolta che spazzava le strade. Non era tanto raro che un vecchio membro della Resistenza, spesso deluso dal PCI, dissotterrasse il suo arsenale di guerra per donarlo a qualche gruppo armato.
    Tra questi giovani, e anche meno giovani, che verranno chiamati prima “Angeli” e poi “Terroristi”, molti possiedono un meccanismo raffinato che mescola reazioni sentimentali e intellettuali. Non si fermano alle “armi della critica e critica delle armi”. Essi coltivano già l’idea di “poesia delle armi e armi della poesia”. Sono individui, fra molti altri, che lavorano sul campo. Sono numerosi e largamente sostenuti dal malcontento generale. Distruggere per ricostruire, aprire gli spazi per poi riempirli, lavoro creativo e non più alienato, centri socioculturali e non più università concepite come fabbriche per l’allevamento della forza lavoro, più officine a misura umana e meno colossi multinazionali, più cultura e meno polizia. Essi parlano e spiegano. Se necessario si battono contro i fascisti o i poliziotti, oppure contro i manici di piccone impugnati all’occasione dal servizio d’ordine del PCI. Questi giovani sono abituati a lottare contro gli assalti fascisti. Resistono ai manganelli della polizia e non arretrano davanti al sibilo delle pallottole di caucciù. Ma quando, al posto del caucciù, appare del piombo, credono, a torto, che non vi sia che una scelta: le armi o la poesia. Questa è l’anomalia italiana.

  3. #13
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    Predefinito Re: Articoli di Cesare Battisti su CarmillaOnLine e approfondimenti

    68 o anni di piombo? L’anomalia italiana 3/3
    Pubblicato il 30 Marzo 2006 ·
    di Cesare Battisti

    5. Una classe politica cieca

    Dopo il ’68, i valori del vecchio universo agricolo si svuotarono improvvisamente del loro significato. La sinistra italiana non seppe comprendere questo fenomeno e per questo continuò sul vecchio cammino. Come se la Chiesa, l’ordine, la moralità, il dovere del lavoro, fossero ancora al loro posto e come se i vecchi ingranaggi facessero girare ancora la macchina. Divenuti obsoleti, questi valori sopravvivessero in un clerico-fascismo divenuto oramai marginale.
    In compenso sorsero altri valori, lasciando intravedere una nuova era. Il sussulto degli anni ’70, vissuto da molti altri Paesi, prende una connotazione molto particolare in Italia. Si potrebbe arrivare a dire, parafrasando ancora Pier Paolo Pasolini, che il post ’68 celebrò la prima unificazione del Paese attorno a nuovi modelli. Al contrario, nelle altre nazioni, la nuova situazione si giustappose a una struttura radicata in unificazioni antiche, dalla monarchia alle rivoluzioni borghesi e industriali. In Italia vi fu realmente un pre e un post ’68.

    Non esiste pertanto alcuna continuità tra il vecchio e il nuovo “fascismo” italiano. L’unico legame forse individuabile è solo l’aggressività contro una società dei consumi costruita selvaggiamente dal sistema della corruzione. La “rivoluzione” degli anni ’60 e ’70 in Italia non si inscrive in un movimento di lotta di classe, ma in una reale mutazione antropologica. La classe politica non capisce di essere improvvisamente divenuta uno strumento di potere residuo attraverso cui un nuovo potere reale stava distruggendo il Paese. In dieci anni di vuoto di potere, governi corrotti e politici incompetenti avevano lasciato le redini del Paese ad alti finanzieri senza scrupoli, o a mafiosi spesso ex complici del potere che venivano a reclamare il bottino. La Democrazia Cristiana faceva sempre atto di presenza, ma era ormai consapevole che il suo potere storico concreto non coincideva più con il potere reale.
    La società italiana degli ultimi tre decenni non era più clerico-fascista. Era divenuta bruscamente consumista e permissiva. Ma niente permetteva allora di distinguere tra benessere e sviluppo. Uno sviluppo che avrebbe dato vita a un genocidio culturale senza precedenti in Italia, e di cui gli anni ’70 non sono che la conseguenza.
    In questo nuovo stato di cose, con una destra e un sinistra cieche ai cambiamenti del paese, e per le quali tutto questo sconvolgimento confermava la validità del ricorso ad una criminalità di Stato che taceva il suo nome, un dialogo tra i poteri DC-PCI e il movimento contestatario era divenuto impraticabile. Questa incomunicabilità fu uno dei punti di partenza della tragica corsa alle armi. Perché ormai il movimento di contestazione sapeva che il mantenimento della classe politica alla testa del Paese non era più cosa possibile.

    6. Il governo inesistente

    Quanto è successo in Italia a partire dagli anni ’70 si configura come un drammatico vuoto di potere. Non un vuoto legislativo, ma un vuoto nella maniera di governare. C’erano sì dei ministri, ma non avevano più niente e nessuno da amministrare. La miniera si era esaurita e i minatori scavavano già altrove, mentre i governanti democristiani continuavano a spartirsi le casse dello Stato. Ma poiché il vuoto non esiste, un altro potere, quello del consumo più sfrenato, prendeva il suo posto. Questo nuovo potere, senza Dio né ideologia, frustrava anche la possibile partecipazione al governo da parte del potente comunismo nato sulle rovine italiane. Il famoso “compromesso storico”, vale a dire il patto tra Moro, presidente della DC, e Berlinguer, segretario generale del PCI, che avrebbe dovuto dare vita a un governo di coalizione, non fallì in seguito all’assassinio di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse. Questa non è che la comoda versione che si volle spacciare al mondo intero. La cecità politico-militare delle Brigate Rosse, cadendo a puntino, consentì di mascherare la vera causa dello scacco del compromesso: una paralisi progressiva della politica la cui responsabilità ricade esclusivamente sull’inverosimile incompetenza dell’opposizione e della maggioranza. Non ci fu mai un “compromesso storico” né mai avrebbe potuto esserci. Perché ormai non si trattava più di governare realmente, ma di fare solamente atto di presenza e di limitarsi ad amministrare le leggi di mercato. Ecco il grande appuntamento mancato del PCI.
    Ciò che stupisce, durante tutto questo decennio di assenza di governo, è che né i vecchi democristiani né la sinistra abbiano osato dire una parola su una situazione che tutti conoscevano e vivevano di giorno in giorno. Si sarebbe detto che l’intera classe dirigente si fosse trasferita in un altro mondo. In quel mondo, la classe politica dirigente chiamava “fantasmi” i giovani contestatori.
    Per quanto riguarda l’opposizione, se tale termine aveva ancora un significato, si raggiungeva la caricatura. I feroci attacchi dei dirigenti del PCI verso tutti quelli che si muovevano alla loro sinistra, sembravano essere altrettanti richiami all’ancien régime. Il loro rifiuto ostinato della realtà li spingeva ad argomentazioni simili a quelle della destra democristiana. Vale a dire alla totale negazione del cambiamento sociale che invece era divenuto realtà.
    In questo quadro, la questione dello Stato, il programma politico del Governo, cedevano regolarmente il passo a problemi secondari. E questi cosiddetti “problemi” posti dalla DC e dal PCI servivano solo a rassicurare una base elettorale, a difendere dei mandati. In breve, a esibirsi in abilità oratoria per cercare di nascondere il vuoto politico. L’Italia della DC e del PCI aveva trovato la formula, un bipartitismo di transizione che sarebbe stato il primo a cavalcare il Muro con una quindicina d’anni di anticipo sulla storia. Era fattibile: un piccolo Paese largamente sovvenzionato, avamposto della NATO nel Mediterraneo, il più cattolico d’Europa, con la potenza elettorale della DC ma anche con il più importante e ragionevole partito comunista dell’Occidente. Senza contare il dominio del Vaticano! Se si fosse cercato un Paese per tentare l’esperienza e aprire così il più grande mercato del mondo correndo il minore dei pericoli, questo era senz’altro l’Italia.
    Un progetto appetibile, che senza dubbio sedusse varie personalità del mondo politico e finanziario dell’epoca. Se ciò fu il sogno di pochi o un’operazione su grande scala, non saprei dire. Per certo, ciò fu realmente progettato, senza tenere conto della crisi politica e della nuova composizione sociale che si stava formando in Italia.

    7. Occultare, semplificare, sopire

    Lasciamo stare. Ciò che importa qui è il comportamento cinico e irresponsabile del duo DC-PCI davanti ai problemi che scuotevano il Paese. E’ certamente possibile che, accecati dal potere, essi abbiano sopravvalutato le proprie forze, ma certamente non fino al punto di dimenticare la resistenza degli altri partiti d’opposizione. DC e PCI dichiararono dunque guerra all’opposizione extraparlamentare di qualsiasi tendenza, occultando in tal modo l’esistenza stessa della frattura sociale.
    Lo spettacolo che maggioranza e opposizione diedero al Paese nella seconda metà degli anni ’70 fu tale che nessun aggettivo potrebbe qualificarlo. Si aveva l’impressione che la classe dirigente italiana non avesse mai sentito parlare dell’urbanizzazione caotica, del degrado dei servizi sanitari, del racket generalizzato, dell’impunità dei criminali di alto livello e degli abusi della polizia… Per limitarmi qualche esempio! Proprio quando il movimento di contestazione si estendeva da ogni parte e le molteplici organizzazioni armate contavano già migliaia di militanti, gli uomini politici si aggrappavano ostinatamente a una sola teoria: si trattava soltanto di un pugno di provocatori finanziati dal KGB o dalla CIA. Nel frattempo, le pallottole facevano centro, le bombe di Stato esplodevano tra la folla, le prigioni si riempivano di detenuti politici, la pratica della tortura diveniva banale e i conti bancari svizzeri di chi era tenuto a raddrizzare il Paese si ingrossavano.
    Perché destra e sinistra, ormai intercambiabili fino a meritare l’appellativo di pseudo “compromesso storico”, non hanno fatto nulla per evitare gli anni ’70? Perché di comune accordo era necessario nascondere al mondo libero che uno dei suoi membri soffriva di una crisi politica tale da generare un conflitto sociale di dimensioni inaccettabili e quasi indecenti, in grado di gettare discredito di fronte alla comunità internazionale. Non era accettabile ammettere che l’Italia intera stava andando alla deriva. Era senz’altro più conveniente minimizzare l’ampiezza della contestazione e ridurla all’azione di un semplice pugno di terroristi. Presentata in questi termini, la situazione cessava di essere un’anomalia italiana, una vergogna storica, ma diveniva una ripugnante fatalità che poteva capitare alle migliori democrazie. In Italia non c’era altro da vedere che pochi criminali da condannare.
    In realtà, la totalità della classe politica e molti sociologi sono rimasti ancorati a questa logica dell’esclusione e a questo rifiuto della differenza, apparentandosi così ad alcuni aspetti del fascismo o dell’estremismo rosso. Tutti hanno voluto credere che si trattasse solo di condotta antisociale, da considerare come una semplice patologia. Che esistesse soltanto qualche tarato contro cui non c’era alcun rimedio.
    Sarebbero bastati una parola, un segno da parte di chi era tenuto a comprenderci, perché tutto ciò non avvenisse. Ma chi, quale mente politica o intellettuale illuminata ha cercato di discutere in modo serio con questi “diversi” che occupavano le strade e agitavano le armi? La diagnosi, giunta quando era ormai troppo tardi, non lasciava più adito a dubbi: da una parte i buoni, dall’altra i cattivi.
    A cose fatte, è stato detto che era impossibile discutere con loro poiché erano clandestini e si confondevano col resto della gente. Ciò è vero e falso allo stesso tempo. Falso perché, quando si trattava di mettere la museruola all’espressione pubblica di questi giovani in movimento, il governo e l’opposizione sapevano sempre dove colpire. Vero perché realmente somigliavamo a chi ci stava intorno. Il che significa anche che questi “diversi” erano molto numerosi e che non potevano essere individuati per una qualche malformazione. Né si trattava di “marziani caduti sulla terra”, come dirà, venticinque anni più tardi, Nanni Moretti pavoneggiandosi sulla Croisette di Cannes. Questi “diversi”, queste migliaia di giovani vestiti secondo il costume dell’epoca, con capelli lunghi, berretti indiani, la barba portata come il Che o con sottane a fiori, stavano semplicemente immaginando delle cose. Erano a favore del divorzio e dell’aborto, per la riforma universitaria, contro il codice fascista, contro il lavoro nero, a favore degli spazi culturali, contro la militarizzazione delle strade, contro le città dormitorio, la ricchezza che fa bella mostra di sé nelle vetrine di fronte alla miseria della gente, contro il vuoto di potere e l’onnipresenza della mafia. E’ dunque vero che era impossibile distinguerli. Erano proprio come tutti e ciascuno. Sognavano un mondo migliore.

    8. Italiano? No, grazie. Non più

    E’ questo quello che ho vissuto. Facevo parte di questi giovani e mi faceva paura. Mi guardavo intorno e non vedevo altro che adolescenti che, come me, sapevano solo che qualcosa là fuori non andava, e si gettavano senza riserve nella lotta armata.
    Questo ’68 italiano, non lo si ripeterà mai abbastanza, non fu né l’inizio né la fine di una rivoluzione. Perdoniamo gli esperti che continuano ad affannarsi per difendere i loro rispettivi campi. Ma il terreno di discussione è altrove. E’ quello di una mutazione antropologica, ancora in corso, per giungere all’unificazione di un giovane Paese. Ed è difficile immaginare una reazione peggiore di quella avuta dagli italiani di fronte a questo trauma storico, ivi compresa quella dei giovani rivoluzionari che sognavano di fare meglio di tutti gli altri. Nel giro di qualche anno gli italiani sono divenuti un popolo ridicolo e criminale.
    Per quanto mi riguarda, questo punto di vista si arresta alla fine degli anni ’70. Oggi, per poter sapere cosa sono diventati gli italiani, bisognerebbe prima di tutto amarli. In passato li ho amati. Oggi non ne sono più capace. Sono in fuga. Ho dovuto fuggire dai loro lanci di pietre. Quando per giudicare un uomo si scorpora dal contesto una sola delle sue idee, un solo momento della sua vita, che si manipola a piacere per fare di quest’uomo un bersaglio per l’odio e la vendetta, ciò si chiama linciaggio. E’ a questo che gli italiani mi sottopongono.
    Ma questo modo di fare, detestabile per un paese che pretende di camminare verso il futuro, non è un atteggiamento condiviso da tutti. E’ importante dire che non sono affatto l’unico italiano a non vestire con abiti firmati, a detestare Oriana Fallaci, a trovare indigesti gli spaghetti al nero di seppia in cui si annegano le differenze politiche per concludere buoni affari, a considerare pietoso il servilismo di quegli artisti, di quegli intellettuali rinomati che non hanno mai niente da dire ma che spesso lo dicono bene…
    Tuttavia, in quanto straniero fra gli stranieri, mi prendo la libertà di esprimere le mie impressioni. Mi pare che in questo lento movimento di mutazione antropologica, in questi ultimi anni si assista a un fenomeno sociologico di abiura. Dimenticandosi la sua povertà, il popolo italiano vuole anche rigettare la sua autentica tolleranza. Non vuole più ricordare i due tratti distintivi della sua storia. L’Italia di oggi vuole consegnare all’oblio quella di ieri e in definitiva negare la sua vicenda. Resa ebbra dal suo sogno di ricchezza, si vergogna di un passato di povertà. Essa vuole, parola di straniero, dimenticare quel gusto di Terzo Mondo che il fascismo e in seguito la democrazia poliziesca e mafiosa le hanno lasciato.

    9. Conclusione (amara)

    Per finire, vi racconterò un aneddoto.
    Qualche tempo fa, in occasione di un evento letterario a Parigi, ho rivisto una vecchia conoscenza di quel periodo. Era diventato un uomo importante, vicino al potere, ma la sua posizione non gli impediva di stringere la mano a un ex compagno, anche se esiliato. Parlando del più e del meno, e senza farlo apposta, tornai su un episodio della nostra comune militanza: un giorno in cui entrambi avevamo rischiato di compiere una grossa stupidaggine. La reazione di quel vecchio amico mi lasciò stupefatto. A bocca aperta, si fece ripetere l’aneddoto e poi, gentilmente, mi disse che non era possibile, che certamente lo confondevo con un’altra persona e che all’epoca non aveva mai preso in mano un’arma. Non ho insistito. Era evidente che in quel momento l’uomo era sincero. Aveva veramente cancellato dalla sua memoria un’intera parte della sua giovinezza. In altri termini, era come ricordare a un nuovo ricco il suo passato di povero.
    Ecco. Sono solo delle domande che mi pongo, e a cui avrei potuto rispondere se la Francia di Jacques Chirac non avesse mercanteggiato per me, coi suoi omologhi italiani, un esilio programmato.
    “Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia“, scriveva Pasolini nel 1974.

  4. #14
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    Predefinito Re: Articoli di Cesare Battisti su CarmillaOnLine e approfondimenti

    Quando mi sono stabilito a Parigi
    Pubblicato il 18 Agosto 2004
    di Cesare Battisti

    da Paris Match del 22 luglio 2004

    Cesarematrimonio.jpgSono arrivato proveniente dal Messico, munito di un passaporto falso intestato a un mio antico compagno di classe, Ezio De Santis. Mia moglie, rientrata otto mesi prima, mi attendeva all’aeroporto. Posato il piede allo Charles de Gaulle, ho saputo che ero seguito da poliziotti. Su di me pendeva un mandato di cattura internazionale. Gli italiani mi accusavano di aiutare a finanziare la guerriglia nel Salvador. In pratica, della prima cosa che era passata loro per la mente. Ma io me ne infischiavo. Niente poteva colpirmi, a quell’epoca. Ero venuto per consegnarmi e recuperare finalmente la mia identità. Cosa che i poliziotti francesi hanno compreso in fretta.
    La prima sera sono andato ad alloggiare presso mia moglie, che abitava con sua mamma in un piccolo appartamento del XIII, rue de l’Amiral-Mouchez. Mia suocera aveva organizzato una bicchierata, una cosa simpatica. I miei fratelli, che mi avevano accompagnato sull’aereo del ritorno, erano presenti. Ero felice, anche se sapevo che il mio arresto era inevitabile. Passeggiavo, andavo a prendere a scuola Valentina, la mia bambina di sei anni, mi godevo Parigi.

    Siamo rimasti una quindicina di giorni da mia suocera, prima di passare da un albergo all’altro, in attesa di trovare un alloggio. Con la bambina e senza libretto degli assegni non era così facile, ma per me resta un buon ricordo. Un giorno, mentre facevo visita a un ex compagno rifugiato a Malkoff e osservavo la distesa sconfinata di tetti da un appartamento cadente, all’ultimo piano, mi sono sorpreso a dire questa idiozia: “Quanto è bello!”. Ero contento. Stavo terminando un romanzo, ritrovavo i vecchi amici del mio primo soggiorno a Parigi, nel 1981, quando ero fuggito dall’Italia a piedi, attraverso le Alpi. Trenta giorni di cammino!
    Fu durante quel primo anno di clandestinità a Parigi che incontrai la giovane francese che sarebbe diventata mia moglie. Laurence lasciò poi tutto per seguirmi nella mia fuga in Messico, dove avremmo trascorso nove anni e dove sarebbe nata Valentina. Oggi, anche se siamo separati, la nostra complicità resta intatta ed educhiamo assieme Charlena, la nostra piccola di dieci anni, mentre la grande, Valentina, abita con lei. Con Valentina parlo solo francese…
    Dunque, nel 1990, come nel 1981, passeggiavo per la Butte-aux-Cailles, anche se in dieci anni il quartiere era cambiato e si era riempito di bar alla moda. Mi sono fatto degli amici. Tra loro, il gestore del bar di place Jeanne d’Arc, un caffè minuscolo chiamato Le Bistro de la Poste: lui e sua moglie erano due personaggi! Mi piaceva anche aggirarmi per l’antica piccola cinta del XIII e del XIV: nessuno in giro, solo vegetazione e gatti abbandonati nutriti da vecchiette. E poi facevo la spesa. Si realizzava finalmente un sogno coltivato per nove anni: mangiare del buon camembert al latte non pastorizzato. Naturalmente, il formaggiaio è divenuto per me un amico. Ricordo anche Valentina che mi diceva, durante quei giri: “Papà, ecco il tuo piccolo vinaio!”
    Sono tanti i ricordi che mi riportano a lei. Avevo lasciato l’esilio in America Latina perché non sopportavo più di starle lontano. I rapporti tra me e mia moglie erano entrati in crisi, e Valentina era tornata in Francia con lei. Per di più il mio migliore amico, quasi un fratello, mi aveva tradito facendo pubblicare col suo nome il mio primo romanzo. Ero completamente distrutto ma non potevo fare niente, né citarlo in giudizio, né lamentarmi, perché non avevo documenti. Non ero più nulla.
    La mia ultima risorsa era la Francia, dopo la dichiarazione di Mitterrand del 1985, in cui si era detto pronto ad accoglierci anche se fossimo imputati di fatti di sangue. In ogni caso, non ho mai pensato di andare in altro luogo che a Parigi. Nel mio immaginario significava la Comune, il maggio ’68, la Rivoluzione francese. Michel Foucault era stato il guru della mia militanza giovanile, così come Deleuze, Baudrillard o Guattari.. Erano questi i nostri maestri. Pur provenendo da una famiglia “religiosamente comunista”, appartenevo a un gruppo antistalinista, anti-organizzazione, e dunque opposto alle Brigate rosse, la cui base militante era reclutata nel PCI staliniano. Non ci vestivamo come loro, non ascoltavamo la stessa musica, non compravamo gli stessi libri. Mi chiedo anche se capitasse ai brigatisti di leggere dei romanzi! Ci separava un universo intero. Ciò spiega l’odio di certe personalità dell’ex PCI nei nostri confronti, ancora oggi.
    E’ grazie alla scrittura che ho potuto sopravvivere. Traducevo in italiano dei racconti di Didier Daeninckx, di Manchette. Ma facevo fatica a riadattarmi alla civiltà europea, alle sue norme, alle sue regole. Qui la burocrazia occupa il 50% della vita di un uomo. Io non vi badavo, sebbene mia moglie mi ripetesse di continuo: “Bada che non sei più in Messico”. Me lo ha detto miliardi di volte.
    Di colpo, nell’aprile 1991, dopo che sono stato rilasciato dal carcere di Fresnes, in cui avevo trascorso quattro mesi dietro le sbarre, e sono tornato a essere ufficialmente Cesare Battisti, ho capito che bisognava pure che mi mettessi a lavorare. Alla ricerca di un lavoro che mi lasciasse il tempo per scrivere, mi sono trovato alla testa di una lavanderia automatica, acquistata con l’aiuto della mia famiglia, in una zona “difficile” di porte de Vanves. Andavo tutte le sere a vuotare gli essiccatoi, ma naturalmente ho fatto fallimento. Tuttavia non ho incrociato le braccia. C’erano Valentina e Charlena…

    (a cura di Aurélie Raya – Trad. di Valerio Evangelisti)

  5. #15
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    Predefinito Re: Articoli di Cesare Battisti su CarmillaOnLine e approfondimenti

    Valerio Evangelisti (a cura di)
    Il caso Battisti: tutti i dubbi sui processi e le condanne, esposti punto per punto
    05 GENNAIO 2011

    Questa nuova versione delle nostre [articolo tratto da Carmilla on line] FAQ sul caso Battisti, già lette da centinaia di migliaia di utenti e tradotte in molte lingue, cadono in un momento di isteria collettiva mai visto in Italia dai tempi di Piazza Fontana e della colpevolizzazione di Pietro Valpreda. Battisti si trova da quasi due anni, mentre scriviamo, in un carcere brasiliano. Ha ottenuto asilo politico in Brasile, concesso dal ministro della giustizia Tarso Genro e ripetutamente avvallato dal presidente Lula. La stampa italiana, a fronte di un’opinione pubblica sostanzialmente indifferente, si è scatenata con toni da linciaggio. Battisti è tornato a essere il mostro, l’assassino per vocazione, il serial killer. Il Brasile è stato dipinto (per esempio da Francesco Merlo, su La Repubblica del 15 gennaio) come una democrazia da operetta, abitato da una popolazione quasi scimmiesca. Persino il presidente Napolitano, che non brilla per attivismo, si è mobilitato a sostegno della richiesta di estradizione del criminale del secolo. Seguito ovviamente dal PD di Walter Veltroni, in perfetta armonia con le componenti più reazionarie del governo e delle presunte “opposizioni”.

    Va notato che tanto furore non era mai stato esercitato nei confronti, per esempio, di Delfo Zorzi, quando era sospettato di essere coautore della strage di Piazza Fontana e riparato in Giappone. Per non dire dei membri delle Forze dell’ordine uccisori, dagli anni Settanta a Genova 2001, di oltre un centinaio di militanti di sinistra, tutti quanti assolti da giudici compiacenti e da politici complici. O degli autori del massacro del Circeo, uno dei quali poté espatriare con il passaporto italiano in tasca.
    Urgeva aggiornare le nostre FAQ, anche alla luce di un’indiretta replica del sostituto procuratore di Milano Armando Spataro, apparsa su Il Corriere della Sera del 23 gennaio 2009, nella rubrica delle lettere. Nonché di un articolo in cui era intervistato il pentito Pietro Mutti, massimo accusatore di Battisti (“specialista in giochi di prestigio” nell’attribuire ad altri le proprie responsabilità, lo definisce una sentenza citata più sotto; ma ne vedrete delle belle), pubblicato da Panorama del 25 gennaio 2009.
    Confidiamo che una lettura pacata di quanto segue faccia sorgere, in chi è in buona fede, molti dubbi sull’effettiva colpevolezza di Battisti.
    Comunque, a noi non preme dimostrare che Battisti sia innocente. Ci interessa, piuttosto, denunciare le distorsioni che la cosiddetta “emergenza” provocò, negli anni Settanta, nelle procedure processuali italiane, fondate, come ai tempi dell’Inquisizione, su “pentimenti” veri o fasulli (1).

    Perché Cesare Battisti fu arrestato, nel 1979?

    Fu arrestato nell’ambito delle retate che colpirono il Collettivo Autonomo della Barona (un quartiere di Milano), dopo che, il 16 febbraio 1979, venne ucciso il gioielliere Luigi Pietro Torregiani.

    Perché il gioielliere Torregiani fu assassinato?

    Perché, il 22 gennaio 1979, assieme a un conoscente anche lui armato, aveva ucciso Orazio Daidone: uno dei due rapinatori che avevano preso d’assalto il ristorante Il Transatlantico in cui cenava in folta compagnia. Un cliente, Vincenzo Consoli, morì nella sparatoria, un altro rimase ferito. Chi uccise Torregiani intendeva colpire quanti, in quel periodo, tendevano a “farsi giustizia da soli”.

    Cesare Battisti partecipò all’assalto al Transatlantico?

    No. Nessuno ha mai asserito questo. Si trattò di un episodio di delinquenza comune.

    Cesare Battisti partecipò all’uccisione di Torregiani?

    No. Anche questa circostanza – affermata in un primo tempo – venne poi totalmente esclusa. Altrimenti sarebbe stato impossibile coinvolgerlo, come poi avvenne, nell’uccisione del macellaio Lino Sabbadin, avvenuta in provincia di Udine lo stesso 16 febbraio 1979, quasi alla stessa ora.

    Eppure è stato fatto capire che Cesare Battisti abbia ferito uno dei figli adottivi di Torregiani, Alberto, rimasto poi paraplegico.

    E’ assodato che Alberto Torregiani fu ferito per errore dal padre, nello scontro a fuoco con gli attentatori.

    I media insistono nell'indicare Cesare Battisti come l'uccisore di Torregiani, spesso addirittura dicono che è stato lui a ferire Alberto e a ridurlo in sedia a rotelle. Alberto non rettifica mai, nemmeno per amore di precisione. Non rettifica mai nemmeno Spataro. Perché?

    Ciò è inspiegabile. Gli assassini reali (Sebastiano Masala, Sante Fatone, Gabriele Grimaldi e Giuseppe Memeo) furono catturati poco tempo dopo l’agguato, e hanno scontato condanne più o meno lunghe.

    Il procuratore Armando Spataro, ne Il Corriere della Sera del 23 gennaio 2008, dice che Battisti “giustiziò” Luigi Pietro Torregiani, reo di avere reagito con le armi a una rapina che aveva subito.

    Anche questo è inspiegabile. La dinamica dei fatti è molto diversa, Spataro stesso la spiegò altre volte: Torregiani e un collega fecero fuoco, con revolver di grosso calibro, su chi stava rapinando la cassa del ristorante Transatlantico in cui cenavano con amici.

    Perché dunque Cesare Battisti viene collegato all’omicidio Torregiani?

    Anzitutto perché, per sua stessa ammissione, faceva parte del gruppo che rivendicò l’attentato, i Proletari Armati per il Comunismo. Lo stesso gruppo che rivendicò l’attentato Sabbadin.

    Cos’erano i Proletari Armati per il Comunismo (PAC)?

    Uno dei molti gruppi armati scaturiti, verso la fine degli anni ’70, dal movimento detto dell’Autonomia Operaia, e dediti a quella che chiamavano “illegalità diffusa”: dagli “espropri” (banche, supermercati) alle rappresaglie contro le aziende che organizzavano lavoro nero, fino, più raramente, a ferimenti e omicidi.

    I PAC somigliavano alle Brigate Rosse?

    No. Come tutti i gruppi autonomi non puntavano né alla costruzione di un nuovo partito comunista, né a un rovesciamento immediato del potere. Cercavano piuttosto di assumere il controllo del territorio, spostandovi i rapporti di forza a favore delle classi subalterne, e in particolare delle loro componenti giovanili. Questo progetto, comunque lo si giudichi (certamente non ha funzionato), non collimava con quello delle BR.

    Il procuratore Spataro ha detto che gli aderenti ai PAC non superavano la trentina.

    Gli indagati per appartenenza ai PAC furono almeno 60. La componente maggiore era rappresentata da giovani operai. Seguivano disoccupati e insegnanti. Gli studenti erano tre soltanto. La sigla PAC fu comunque usata da altri raggruppamenti.

    Trenta o sessanta fa poca differenza.

    Ne fa, invece. Cambiano le probabilità di partecipazione alle scelte generali dell’organizzazione, e anche alle azioni da questa progettate. Teniamo presente che, se le rapine attribuite ai PAC sono decine, gli omicidi sono quattro. La partecipazione diretta a uno di questi diviene molto meno probabile, se si raddoppia il numero degli effettivi.

    Cesare Battisti era il capo dei PAC, o uno dei capi?

    No. Questa è una pura invenzione giornalistica. Né gli atti del processo, né altri elementi inducono a considerarlo uno dei capi. Del resto, non aveva un passato tale – come ex ladruncolo e teppista di periferia, privo di formazione ideologica - da permettergli di ricoprire un ruolo del genere. Era un militante tra i tanti.

    In sede processuale Battisti fu però giudicato tra gli “organizzatori” dell’omicidio Torregiani.

    In via deduttiva. Secondo il dissociato Arrigo Cavallina, avrebbe partecipato a riunioni in cui si era discusso del possibile attentato, senza esprimere parere contrario. Solo con l’entrata in scena del pentito Mutti – dopo che Battisti, condannato a dodici anni e mezzo, era evaso dal carcere e fuggito in Messico – l’accusa si precisò, ma ancora una volta per via deduttiva. Poiché Battisti era accusato da Mutti di avere svolto ruoli di copertura nell’omicidio Sabbadin, e poiché gli attentati Torregiani e Sabbadin erano chiaramente ispirati a una stessa strategia (colpire i negozianti che uccidevano i rapinatori), ecco che Battisti doveva essere per forza di cose tra gli “organizzatori” dell’agguato a Torregiani, pur senza avervi partecipato di persona.

    Eppure, di tutti i crimini attribuiti a Battisti, quello cui si dà più rilievo è proprio il caso Torregiani.

    Forse si prestava più degli altri a un uso “spettacolare” (si veda l’impiego ricorrente nei media di Alberto Torregiani, non sempre pronto, per motivi anche comprensibili, a rivelare chi lo ferì). O forse – visto chi ci governa e le proposte formulate qualche anno fa dal ministro Castelli, in tema di autodifesa da parte dei negozianti – era l’episodio meglio capace di fare vibrare certe corde nell’elettorato di riferimento.

    Comunque, chi difende Battisti ha spesso giocato la carta della “simultaneità” tra il delitto Torregiani e quello Sabbadin, mentre Battisti è stato accusato di avere “organizzato” il primo ed “eseguito” il secondo.

    Ciò si deve all’ambiguità stessa della prima richiesta di estradizione di Battisti (1991), alle informazioni contraddittorie fornite dai giornali (numero e qualità dei delitti variano da testata a testata), al silenzio di chi sapeva. Non dimentichiamo che Armando Spataro ha fornito dettagli sul caso – per meglio dire, un certo numero di dettagli – solo dopo che la campagna a favore di Cesare Battisti ha iniziato a contestare il modo in cui furono condotti istruttoria e processo. Non dimentichiamo nemmeno che il governo italiano ha ritenuto di sottoporre ai magistrati francesi, alla vigilia della seduta che doveva decidere della nuova domanda di estradizione di Cesare Battisti, 800 pagine di documenti. E’ facile arguire che giudicava lacunosa la documentazione prodotta fino a quel momento. A maggior ragione, essa presentava lacune per chi intendeva impedire che Battisti fosse estradato.

    La simultaneità fra il delitto Sabbadin e quello Torregiani dimostra un’unica ideazione.

    Ma andrebbe provato che Battisti partecipò effettivamente all’uccisione di Sabbadin. Inizialmente, il pentito Mutti incolpò Battisti di avere sparato al macellaio. Purtroppo per lui, il militante dei PAC Diego Giacomin si dissociò e rivelò di essere stato lui stesso a uccidere il negoziante. Non fece altri nomi. Una complice, non menzionata da Mutti, fu condannata all'ergastolo. Vive oggi in Francia

    Comunque, quello a Cesare Battisti e agli altri accusati del delitto Torregiani fu un processo regolare.

    No, non lo fu, e dimostrarlo è piuttosto semplice.

    Perché il processo Torregiani, poi allargato all’intera vicenda dei PAC, non fu regolare?

    Precisiamo: non fu regolare se non nel quadro delle distorsioni della legalità introdotte dalla cosiddetta “emergenza”. Sotto il profilo del diritto generale, il processo fu viziato da almeno tre elementi: il ricorso alla tortura per estorcere confessioni in fase istruttoria (2), l’uso di testimoni minorenni o con turbe mentali, la moltiplicazione dei capi d’accusa in base alle dichiarazioni di un pentito di incerta attendibilità. Più altri elementi minori.

    I magistrati torturarono gli arrestati?

    No. Fu la polizia a torturarli. Vi furono ben tredici denunce: otto provenienti da imputati, cinque da loro parenti. Non un fatto inedito, ma certo fino a quel momento insolito, in un’istruttoria di quel tipo. I magistrati si limitarono a ricevere le denunce, per poi archiviarle.

    Forse le archiviarono perché non si era trattato di vere torture, ma di semplici pressioni un po’ forti sugli imputati.

    Uno dei casi denunciati più di frequente fu quello dell’obbligo di ingurgitare acqua versata nella gola dell’interrogato, a tutta pressione, tramite un tubo, mentre un agente lo colpiva a ginocchiate nello stomaco. Tutti denunciarono poi di essere stati fatti spogliare, avvolti in coperte perché non rimanessero segni e poi percossi a pugni o con bastoni. Talora legati a un tavolo o a una panca.

    Se i magistrati non diedero seguito alle denunce, forse fu perché non c’erano prove che tutto ciò fosse realmente accaduto.

    Infatti il sostituto procuratore Alfonso Marra, incaricato di riferire al giudice istruttore Maurizio Grigo, dopo avere derubricato i reati commessi dagli agenti della Digos da “lesioni” a “percosse” per assenza di segni permanenti sul corpo (in Italia non esisteva il reato di tortura, e non esiste nemmeno ora), concludeva che la stessa imputazione di percosse non poteva avere seguito, visto che gli agenti, unici testimoni, non confermavano. Dal canto proprio il PM Corrado Carnevali, titolare del processo Torregiani, insinuò che le denunce di torture fossero un sistema adottato dagli accusati per delegittimare l’intera inchiesta.

    Nulla ci dice che il PM Carnevali avesse torto.

    Almeno un episodio non collima con la sua tesi. Il 25 febbraio 1979 l’imputato Sisinio Bitti denunciò al sostituto procuratore Armando Spataro le torture subite e ritrattò le confessioni rese durante l’interrogatorio. Tra l’altro, raccontò che un poliziotto, nel percuoterlo con un bastone, lo aveva incitato a denunciare un certo Angelo; al che lui aveva denunciato l’unico Angelo che conosceva, tale Angelo Franco. La ritrattazione di Bitti non fu creduta, e Angelo Franco, un operaio, fu arrestato quale partecipante all’attentato Torregiani. Solo che pochi giorni dopo lo si dovette rilasciare: non poteva in alcun modo avere preso parte all’agguato. Dunque la ritrattazione di Bitti era sincera, e dunque, con ogni probabilità, anche le violenze con cui la falsa confessione gli era stata estorta. Sisinio Bitti riportò lesioni permanenti ai timpani. Se le era procurate da solo?

    Ammesso il ricorso alle sevizie in fase istruttoria, ciò non assolve Cesare Battisti.

    No, però dà l’idea del tipo di processo in cui fu implicato. Definirlo “regolare” è a dir poco discutibile. Tra i testi a carico di alcuni imputati figurarono anche una ragazzina di quindici anni, Rita Vitrani, indotta a deporre contro lo zio; finché le contraddizioni e le ingenuità in cui incorse non fecero capire che era psicolabile (“ai limiti dell’imbecillità”, dichiararono i periti) (3). Figurò anche un altro teste, Walter Andreatta, che presto cadde in stato confusionale e fu definito “squilibrato” e vittima di crisi depressive gravi dagli stessi periti del tribunale.

    Pur ammettendo il quadro precario dell’inchiesta, c’è da considerare che Cesare Battisti rinunciò a difendersi. Quasi un’ammissione di colpevolezza, anche se, prima di tacere, si proclamò innocente.

    Può sembrare così oggi, ma non allora. Anzi, è vero il contrario. A quel tempo, i militanti dei gruppi armati catturati si proclamavano prigionieri politici, e rinunciavano alla difesa perché non riconoscevano la “giustizia borghese”. Battisti vi rinunciò perché disse di dubitare dell’equità del processo.

    Tralasciate violenze e testimonianze poco attendibili in fase istruttoria, il processo fu però condotto a conclusione con equità.

    Non proprio. Accusati minori furono colpiti con pene spropositate. Il già citato Bitti, riconosciuto innocente di ogni delitto, fu ugualmente condannato a tre anni e mezzo di prigione per essere stato udito approvare, in luogo pubblico, l’attentato a Torregiani. Era scattato il cosiddetto “concorso morale” in omicidio, direttamente ispirato alle procedure dell’Inquisizione. Il già citato Angelo Franco, pochi giorni dopo il rilascio, fu arrestato nuovamente, questa volta per associazione sovversiva, e condannato a cinque anni. Ciò in assenza di altri reati, solo perché era un frequentatore del collettivo autonomo della Barona.

    Secondo Luciano Violante, una certa “durezza” era indispensabile a spegnere il terrorismo. E Armando Spataro sostiene che, a questo fine, l’aggravante delle “finalità terroristiche”, che raddoppiava le pene, si rivelò un’arma decisiva.

    Spezzò anche le vite di molti giovani, arrestati con imputazioni destinate ad aggravarsi in maniera esponenziale nel corso della detenzione, pur in assenza di fatti di sangue.

    Ciò non vale per Cesare Battisti, condannato all’ergastolo per avere partecipato a due omicidi ed eseguito altri due.

    Di Torregiani e Sabbadin si è detto. Veniamo a Santoro e Campagna. Mutti accusa Battisti di essere l’omicida di Santoro, ma poi le prove lo costringono ad ammettere di essere stato lui, l’assassino. L’uccisione dell’agente Campagna avviene dopo che i PAC sono stati sciolti, e un gruppetto di quartiere ne perpetua le gesta. L’assassino si chiama Giuseppe Memeo, reo confesso. Ha sparato con la stessa pistola che aveva ucciso Torregiani. Mutti ne parla per sentito dire. Memeo aveva un complice biondo, altro 1,90. Battisti? Ne parleremo tra poco.
    Al termine del processo di primo grado Battisti, arrestato in origine per imputazioni minori (possesso di armi, che peraltro risultarono non avere mai sparato), si trovò condannato a dodici anni e mezzo di prigione. Le condanne all’ergastolo giunsero cinque anni dopo la sua evasione dal carcere. Ma qui è tempo di parlare dei “pentiti” e, soprattutto, del principale pentito che lo accusò. Per poi entrare nel merito degli altri tre delitti.

    Vediamo di capire che cos’è un “pentito”.

    Se ci riferiamo ai gruppi di estrema sinistra, vengono così chiamati quei detenuti per reati connessi ad associazioni armate che, in cambio di consistenti sconti di pena, rinnegano la loro esperienza e accettano di denunciare i compagni, contribuendo al loro arresto e allo smantellamento dell’organizzazione. Di fatto una figura del genere esisteva già alla fine degli anni ’70, ma entra stabilmente nell’ordinamento giuridico prima con la “legge Cossiga” 6.2.1980 n. 15, poi con la “legge sui pentiti” 29.5.1982 n. 304. Manifesta i pericoli insiti nel suo meccanismo sia prima che dopo questa data.

    Quali sarebbero i “pericoli”?

    La logica della norma faceva sì che il “pentito” potesse contare su riduzioni di pena tanto più elevate quante più persone denunciava; per cui, esaurita la riserva delle informazioni in suo possesso, era spinto ad attingere alle presunzioni e alle voci raccolte qui e là. Per di più, la retroattività della legge incitava a delazioni indiscriminate anche a distanza di molti anni dai fatti, quando ormai erano impossibili riscontri materiali.

    Esistono esempi di questi effetti perversi?

    Il caso più clamoroso fu quello di Carlo Fioroni, che, minacciato di ergastolo per il sequestro a fini di riscatto di un amico, deceduto nel corso del rapimento, accusò di complicità Toni Negri, Oreste Scalzone e altre personalità dell’organizzazione Potere Operaio, sgravandosi della condanna. Ma anche altri pentiti, quali Marco Barbone (oggi collaboratore di quotidiani di destra), Antonio Savasta, Pietro Mutti, Michele Viscardi ecc. seguitarono per anni a spremere la memoria e a distillare nomi. Ogni denuncia era seguita da arresti, tanto che la detenzione diventò arma di pressione per ottenere ulteriori pentimenti. Purtroppo ciò destò scandalo solo in un secondo tempo, quando la logica del pentitismo, applicata al campo della criminalità comune, provocò il caso Tortora e altri meno noti.

    Pietro Mutti fu l’accusatore principale di Cesare Battisti. Chi era?

    Fu, per sua stessa confessione, il fondatore dei PAC. Figurò tra gli imputati del processo Torregiani, sebbene latitante, e l’accusa chiese per lui otto anni di prigione. Fu catturato nel 1982 (dopo che Battisti era già evaso), a seguito della fuga dal carcere di Rovigo, il 4 gennaio di quell’anno, di alcuni militanti di Prima Linea. Mutti fu tra gli organizzatori dell’evasione. Era stato compagno di cella di Battisti, quando questi era in carcere per reati comuni, e autore della sua politicizzazione (un ruolo curiosamente poi rivendicato dal dissociato Arrigo Cavallina).

    Di quali delitti Mutti, una volta pentito, accusò Battisti?

    Tralasciando reati minori, per tre omicidi. Battisti (con una complice e con lo stesso Mutti, che sulle prime cercò di negare la sua presenza) avrebbe direttamente assassinato, il 6 giugno 1978, il maresciallo degli agenti di custodia del carcere di Udine Antonio Santoro, che i PAC accusavano di maltrattamenti ai detenuti. Avrebbe direttamente assassinato a Milano, il 19 aprile 1979, l’agente della Digos Andrea Campagna, che aveva partecipato ai primi arresti legati al caso Torregiani. Tra i due delitti avrebbe preso parte, senza sparare direttamente ma comunque con ruoli di copertura, al già citato omicidio del macellaio Lino Sabbadin di Santa Maria di Sala. Di tutto ciò si è già discusso.

    L’omicidio Sabbadin è tra quelli di cui più si è parlato. In un’intervista al gruppo di estrema destra francese Bloc Identitaire, il figlio di Lino Sabbadin, Adriano, ha dichiarato che gli assassini del padre sarebbero stati i complici del rapinatore da questi ucciso.

    O la sua risposta è stata male interpretata, o ha dichiarato cosa che non risulta da alcun atto. Meglio tralasciare le dichiarazioni dei congiunti delle vittime, la cui funzione, nel corso degli ultimi quattro anni, è stata essenzialmente spettacolare.

    Cesare Battisti è colpevole o innocente dei tre omicidi di cui lo accusò Mutti?

    Lui si dice innocente, anche se si fa carico della scelta sbagliata in direzione della violenza che, in quegli anni, coinvolse lui e tanti altri giovani. Qui però non è questione di stabilire l’innocenza o meno di Battisti. E’ invece questione di vedere se la sua colpevolezza fu mai veramente provata, nonché di verificare, a tal fine, se l’iter processuale che condusse alla sua condanna possa essere giudicato corretto. In caso contrario, non si spiegherebbe l’accanimento con cui il governo italiano, con il sostegno anche di nomi illustri dell’opposizione, ha cercato di farsi riconsegnare Battisti prima dalla Francia e oggi dal Brasile.

    A parte le denunce di Mutti, emersero altre prove a carico di Battisti, per i delitti Santoro, Sabbadin (sia pure in ruolo di copertura) e Campagna?

    No. Quando oggi i magistrati parlano di “prove”, si riferiscono all’incrocio da loro effettuato tra le dichiarazioni di vari pentiti (Mutti e altri minori) e gli indizi indirettamente forniti dai “dissociati”, tipo Cavallina.

    Armando Spataro continua ad asserire che prove e riscontri vi sarebbero.

    Continua a dirlo, ma non specifica mai quali.

    Cosa si intende per “dissociato”?

    Chi prenda le distanze dall’organizzazione armata cui apparteneva e confessi reati e circostanze che lo riguardino, senza però accusare altri. Ciò comporta uno sconto di pena, anche se ovviamente inferiore a quello di un pentito.

    In che senso un dissociato può fornire indirettamente indizi?

    Per esempio se afferma di non avere partecipato a una riunione perché contrario a una certa azione che lì veniva progettata, pur senza dire chi c’era. Se nel frattempo un pentito ha detto che X partecipò a quella riunione, ecco che X figura automaticamente tra gli organizzatori.

    Cosa c’è che non va, in questa logica?

    C’è che sia la denuncia diretta del pentito, che l’indizio fornito dal dissociato, provengono da soggetti allettati dalla promessa di un alleggerimento della propria detenzione. La loro lettura congiunta, se mancano i riscontri, è effettuata dal magistrato che la sceglie tra varie possibili. Inoltre è comunque il pentito, cioè colui che ha incentivi maggiori, a essere determinante. Tutto ciò in altri paesi (non totalitari) sarebbe ammesso in fase istruttoria, e in fase dibattimentale per il confronto con l’accusato. Non sarebbe mai accettato con valore probatorio in fase di giudizio. In Italia sì.

    Nel caso di Battisti mancano altri riscontri?

    Vi sono solo dei riconoscimenti di testi che lo stesso magistrato Armando Spataro ha definito poco significativi.

    Eppure dice che “le confessioni di Mutti (…) sono state convalidate da molte testimonianze e dalle successive dichiarazioni di altri ex terroristi” (Il Corriere della Sera, 23 gennaio 2009).

    Si tratta sempre di Mutti e di Cavallina. Quanto ai testi, basti dire che l’autore del delitto Santoro aveva la barba (e qui ci siamo, Mutti parla di una barba finta), era biondo (Battisti avrebbe potuto tingersi i capelli) ed era alto 1,90 (qui non ci siamo più: Battisti supera di poco l’1,60).

    Ma il pentito Pietro Mutti non può essere ritenuto credibile? Vi sono motivi per asserire che sia mai caduto nel meccanismo “Quanto più confesso, tanto meno resto in prigione”?

    Emerge dal dibattimento che condusse a una sentenza di Cassazione del 1993. Citiamo testualmente:
    “Questo pentito è uno specialista nei giochi di prestigio tra i suoi diversi complici, come quando introduce Battisti nella rapina di viale Fulvio Testi per salvare Falcone (…) o ancora Lavazza o Bergamin in luogo di Marco Masala in due rapine veronesi”.
    Più sotto:
    “Del resto, Pietro Mutti utilizza l’arma della menzogna anche a proprio favore, come quando nega di avere partecipato, con l’impiego di armi da fuoco, al ferimento di Rossanigo o all’omicidio Santoro; per il quale era d’altra parte stato denunciato dalla DIGOS di Milano e dai CC di Udine. Ecco perché le sue confessioni non possono essere considerate spontanee”.
    Teniamo inoltre conto che Mutti, colpevole di omicidi e rapine, ha scontato solo otto anni di prigione. Un privilegio condiviso con l'uccisore di Walter Tobagi (anche quel caso, su cui permangono molti dubbi, fu istruito da Armando Spataro), con il pluri-omicida Michele Viscardi e con molti altri pentiti.

    Ci sono altri motivi per dubitare della sincerità di Mutti?

    Sì. Le denunce di Pietro Mutti non riguardarono solo Battisti e i PAC, ma furono a 360 gradi, e si indirizzarono nelle direzioni più svariate. La più clamorosa riguardò l’OLP di Yasser Arafat, che avrebbe rifornito di armi le Brigate Rosse. In particolare, elencò Mutti, “tre fucili AK47, 20 granate a mano, due mitragliatrici FAL, tre revolver, una carabina per cecchini, 30 chilogrammi di esplosivo e 10.000 detonatori” (mica tanto, a ben vedere, a parte il numero incongruo dei detonatori; mancava solo che Arafat consegnasse una pistola ad aria compressa). Il procuratore Carlo Mastelloni poté, sulla base di questa preziosa rivelazione, aggiungere un fascicolo alla sua “inchiesta veneta” sui rapporti tra terroristi italiani e palestinesi, e chiamò persino in giudizio Yasser Arafat. Poi dovette archiviare il tutto, perché Arafat non venne e il resto si sgonfiò.

    Ciò ha a che vedere con le armi, provenienti dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, mercanteggiate nel 1979 da tale Maurizio Follini, che Armando Spataro dice essere stato militante dei PAC?

    Questo Follini era mercante d’armi e, secondo alcuni, spia sovietica. Fu tirato in ballo da Mutti, ma in relazione ad altri gruppi. Meglio stendere un velo pietoso. Dopo avere notato, però, quanto le rivelazioni di Mutti tendessero al delirio.

    Mutti non sarà attendibile per altre inchieste, ma nulla ci garantisce che, almeno sui PAC, non dicesse la verità.

    Nulla ce lo dice, infatti, se non un dettaglio. Nel 1993, la Cassazione ha mandato assolta una coimputata di Battisti (nel delitto Santoro), anche lei denunciata da Mutti. Parlo del 1993. Per dieci anni la magistratura aveva creduto, a suo riguardo, alle accuse del pentito. Ciò dovrebbe commentarsi da solo.

    Anche ammesso che il processo che ha portato alla condanna di Cesare Battisti sia stato viziato da irregolarità e imperniato sulle deposizioni di pentiti poco credibile, è certo che Battisti ha potuto difendersi nei successivi gradi di giudizio.

    Non è così, almeno per quanto riguarda il processo d’appello del 1986, che modificò la sentenza di primo grado e lo condannò all’ergastolo. Battisti era allora in Messico e ignaro di ciò che avveniva a suo danno in Italia.

    Il magistrato Armando Spataro ha detto che, per quanto sfuggito di sua iniziativa alla giustizia italiana, Battisti poté difendersi in tutti i gradi di processo attraverso il legale da lui nominato.

    Ciò è vero solo per il periodo in cui Battisti si trovava ormai in Francia, e dunque vale essenzialmente per il processo di Cassazione che ebbe luogo nel 1991. Non vale per il processo del 1986, che sfociò nella sentenza della Corte d’Appello di Milano del 24 giugno di quell’anno. A quel tempo Battisti non aveva contatti né col legale, pagato dai familiari, né con i familiari stessi.

    Questo lo dice lui.

    Be’, lo dice anche l’avvocato Giuseppe Pelazza di Milano, che si assunse la difesa, e lo dicono i familiari. Ma certamente si tratta di testimonianze di parte. Resta il fatto che Battisti non ebbe alcun confronto con il pentito Mutti che lo accusava. Si era sottratto al carcere, d’accordo; però il dato oggettivo è che non poté intervenire in un procedimento che commutava la sua condanna da dodici anni di prigione in due ergastoli (nessun altro imputato nel processo ebbe una condanna simile, inclusi gli assassini di Torregiani!), e gli attribuiva l’esecuzione di due omicidi, la partecipazione a svariato titolo ad altri due, alcuni ferimenti e una sessantina di rapine (cioè l’intera attività dei PAC). Questo era ed è ammissibile per la legge italiana, ma non per la legislazione di altri paesi che, pur prevedendo la condanna in contumacia, impone la ripetizione del processo qualora il contumace sia catturato.

    Ma Battisti sottoscrisse delle deleghe ai suoi legali, perché lo rappresentassero, lui contumace.

    E’ stato ampiamente dimostrato, dai periti di parte, però scelti tra quelli della Corte di Parigi, che le firme furono falsificate (forse a fin di bene). Le deleghe erano in bianco, e furono redatte nel 1981.

    Battisti asserisce la propria innocenza, salvo fatti minori attribuibili ai PAC, senza fornire prove concrete.

    Ma Battisti non è tenuto a provare nulla! L’onere della prova spetta a chi lo accusa. Quanto alla sostanza della questione, vediamo di ricapitolarla: 1) un’istruttoria che nasce da confessioni estorte con metodi violenti; 2) una serie di testimonianze di elementi incapaci per età o facoltà mentali; 3) una sentenza esageratamente severa; 4) un aggravio della stessa sentenza dovuta all’apparizione tardiva di un “pentito” che snocciola accuse via via più gravi e generalizzate. Il tutto nel quadro di una normativa inasprita e finalizzata al rapido soffocamento di un sommovimento sociale di largo respiro, più ampio delle singole posizioni.

    Ciò non toglie che gran parte della sinistra sia compatta nel sostegno a un magistrato come Armando Spataro, e sia unanime nel richiedere al Brasile l’estradizione.

    Questo è un problema della sinistra, appunto. C’è da chiedersi se sia a conoscenza di ciò che non il solo Spataro, ma altri magistrati che come lui furono tra i protagonisti della repressione dei movimenti degli anni ’70 e dei primi anni ’80, pensano dei casi di Adriano Sofri o di Silvia Baraldini. Immagino – o forse spero – che non pochi esponenti della “sinistra” (chiamiamola così) ne resterebbero un po’ scossi. Per non parlare del “malore attivo” (?) a cui Gerardo D’Ambrosio ha attribuito la morte di Giuseppe Pinelli. O del rimbalzo di un proiettile contro un sasso volante che ha ucciso Carlo Giuliani. La denigrazione dei magistrati ha il suo contraltare nella santificazione dei magistrati.

    Inutile menare il can per l’aia. Cesare Battisti non ha mai manifestato pentimento.

    Il diritto moderno – l’ho già detto - reprime i comportamenti illeciti e ignora le coscienze individuali. Reclamare un pentimento qualsiasi era tipico di Torquemada o di Vishinskij. Il rigetto da parte di Battisti dell’ipotesi di lotta armata è esplicito nei suoi romanzi Le cargo sentimental e Ma cavale, non tradotti in Italia. Essendo uno scrittore, si esprime tramite la scrittura.

    Ha persino esultato quando, in Francia, è stato momentaneamente liberato.

    Lo farebbe chiunque.

    Da perfetto vigliacco, si è sottratto all’estradizione ed è riparato in Brasile, dove è andato a vivere nientemeno che a Copacabana.

    Chi conosca Copacabana, sa che oltre la spiaggia e gli alberghi si estendono caseggiati popolari. Lì viveva Battisti. Ma adesso basta con queste stronzate. Battisti è stato tutto ciò che volete, salvo una cosa: non è mai stato ricco. Non è mai stato il prediletto dei salotti di cui favoleggia Panorama. Era il portinaio dello stabile in cui abitava. Si permetteva ogni tanto un caffè al bar di immigrati sotto casa.

    Armando Spataro dice, sul numero citato del Corriere della Sera, che Battisti non è mai stato un criminale politico, bensì un delinquente comune, assetato di denaro.

    Spataro sovrappone il percorso di Battisti prima della politicizzazione, quando era un semplice delinquente di periferia, a quello successivo. Nessuna delle azioni che gli sono attribuite quale “terrorista”, vere o fasulle, obbediva a fini di lucro personale. Battisti fu un militante dei settori armati di quella che era chiamata “autonomia operaia”. Lo sanno tutti, Spataro incluso. Negare la natura politica dei suoi atti, per indurre il governo brasiliano a concedere l’estradizione, è la menzogna più colossale che circondi la vicenda Battisti. Un delinquente comune non rivendica la sua affiliazione ai “Proletari Armati per il Comunismo”. Del resto, i fascisti, i parafascisti, i post-fascisti dell’Italia odierna citano di continuo la sua posizione di “comunista” quale aggravante. Mentre gli ex-comunisti manifestano nei confronti di Battisti identico orrore, visto che incarna le idee che hanno rinnegato. Non c’è mai stato caso più “politico”, da Valpreda a oggi.

    Non si può liquidare così, in una battuta, un problema più complesso.

    Esatto. Non si può liquidare così il problema più generale dell’uscita, una buona volta, dal regime dell’emergenza, con le aberrazioni giuridiche che ha introdotto nell’ordinamento italiano. Ma ciò può essere oggetto di altre FAQ, che prescindano dal caso specifico fin qui trattato. Quanto agli accusatori, che gridano a squarciagola “dagli all’assassino!”, osservino le proprie mani. Sono abbondantemente macchiate di sangue. Hanno applaudito un poco tutto, a cominciare dai bombardamenti su Belgrado, fino ad arrivare alle stragi in Libano e a Gaza. Si sono arrossate negli applausi a “missioni umanitarie” condite da massacri. Hanno dato il via libera all’eliminazione sociale dei soggetti deboli, sul mercato del lavoro. Davvero, oggi, i “nemici dell’umanità” si chiamano Battisti o Petrella?


    NOTE 1) Cfr. I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa. Sorvegliare e punire, l’Inquisizione come modello di violenza legale, Bompiani, 1988. 2) L’uso della tortura, nei processi contro i terroristi di sinistra fra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, è scrupolosamente documentato nel volume Le torture affiorate, coll. Progetto Memoria, ed. Sensibili alle foglie, 1998. 3) Su Panorama del 25 gennaio 2009 il giornalista Amadori, sentita la famiglia, mette in dubbio la labilità della memoria di Rita Vetrani - chiamata a testimoniare, lei minorenne, contro lo zio. I referti dei periti, poco contestabili, sono riportati testualmente in L. Grimaldi, Processo all’istruttoria, Milano Libri, Milano, 1981. ***
    APPENDICE
    Le domande assurde di Panorama a cui Battisti non rispondeLe domande assurde di Panorama a cui Battisti non risponde
    Su Panorama del 12 febbraio 2009, il giornalista Giacomo Amadori ha elencato una serie di domande, raccolte tra i magistrati e gli ex compagni, cui Cesare Battisti non saprebbe o non vorrebbe rispondere. Ebbene, ci proviamo noi, quale appendice alle nostre FAQ. Qualche considerazione in chiusura.


    Pubblicato Gennaio 30, 2009

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    Predefinito Re: Articoli di Cesare Battisti su CarmillaOnLine e approfondimenti

    LA SUA BATTAGLIA. Il dottor Cruciani, l’impunito Battisti e le menzogne del culturame
    Pubblicato il 15 Giugno 2010 · in Il caso Battisti ·
    della Redazione di Carmilla

    Un intero libro contro Carmilla! (1) Accidenti, che onore! Noi, secondo l’autore (il dottor Giuseppe Cruciani, titolare della rubrica La Zanzara su Radio 24, collaboratore di Panorama e di La 7), saremmo una lobby di inaudita potenza, capace di mobilitare fior di intellettuali di destra e di sinistra (da Erri De Luca a Tiziano Scarpa a Marco Müller, da Bernard Henri-Lévy a Philippe Sollers a Gabriel Garcîa-Márquez) in giro per il mondo. Il tutto a partire dalla “lista della vergogna”, cioè dalla nostra raccolta di firme (del 2004) a sostegno di Cesare Battisti. Uno spietato assassino responsabile di tre, anzi quattro delitti trent’anni fa, oggi titolare di una vita agiata in una prigione brasiliana.
    Come mai, disponendo di simile potere, lo avremmo usato non per cause più illustri (tipo la verità su Piazza Fontana, la riapertura dell’inchiesta sulla morte di Pinelli, ecc.), bensì per appoggiare un oscuro portinaio della Rue Bleue, scrittore di romanzi in edizione economica, quasi sconosciuto in Italia? Come mai attorno a un criminale latitante si è mossa una fetta così consistente di “culturame”? Siamo grati al dottor Cruciani per avercelo spiegato.

    Il “culturame” in questione (i nomi sono centinaia, inclusi il mite Beppe Sebaste o il moderato Sandro Provvisionato, conduttore Mediaset) vive accanto al caminetto nostalgie e fantasie feroci, ai limiti dell’onirismo, degli anni Settanta e Ottanta. Si illude che esista ancora un mondo in cui lo scontro sociale non è mera formula, in cui la stratificazione in classi sussista intatta, in cui poteri incontrollabili politico-economico-criminali pratichino l’arbitrio ed esercitino una selezione per censo. Il dottor Cruciani, saggiamente, censura tale atteggiamento disfattista e antistatuale, che non prende atto di come va il mondo. Lo chiama “disprezzo per lo Stato”, accusa chi lo coltiva di istinti “psicotici”. Ha ragione. C’era da affidarsi a occhi bendati a una “democrazia” che non era che una sequela di prepotenze palesi e occulte. Collusioni tra Stato e mafia, stragi protette o istigate da segmenti degli apparati di difesa, condizionamenti internazionali, corruzione a ogni livello. Più tardi si è saputo dell’esistenza di Stay Behind (Gladio) e della P2. Ancora più tardi l’intera classe politica del periodo postbellico è sparita dalle scene: chi in prigione, chi in esilio, chi in un sordido riciclaggio sotto nuove sigle. Ma il dottor Cruciani ci spiega che quella — definita nell’ ’88 “lo Stato del ricatto”, da un noto eversore quale Gherardo Colombo – era una democrazia perfetta, quanto l’attuale. Ha senz’altro ragione. Invece ha torto marcio chi dice che, a quel tempo, qualcosa non andava, e non va tuttora.

    Specialmente per quanto riguarda i processi per terrorismo vero o supposto della fine degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta. Non quelli alle BR, che fanno storia a sé, ma quelli intitolati Torregiani, Tobagi, 7 Aprile. Maratone giudiziarie in cui, spesso, chi aveva commesso i crimini peggiori se la cavava con pochi anni di prigione, grazie al pentimento o alla dissociazione, oppure non veniva neppure indagato (vedi il caso Tobagi); mentre chi cadeva sotto i colpi del pentitismo si trovava sottoposto a pene smisurate. Il dottor Cruciani omette di soffermarvisi, ma avrebbe dovuto iscrivere nei ranghi del sovversivismo anche Amnesty International, che per due volte richiamò l’Italia per via dei suoi processi “d’emergenza”, anche in rapporto al caso Torregiani; il giurista Italo Mereu, che in un saggio famoso più volte ristampato, Storia dell’intolleranza in Europa (Bompiani), mise a confronto le procedure emergenziali italiane con quelle dell’Inquisizione (Cruciani: “Come si fa a discutere seriamente con chi sostiene per esempio che il reato di ‘concorso morale’ in omicidio sia ispirato direttamente alle procedure dell’Inquisizione?”, p. 143); magistrati democratici, come Amedeo Santosuosso, che si ribellarono al tipo di legislazione che dovevano imporre, e pagarono il loro gesto con ostacoli alla carriera. Invece il dottor Cruciani santifica opportunamente la figura del pentito (“lo strumento dei pentiti, comunque lo si voglia giudicare, si rivelò fondamentale”, p. 142), di cui resta esponente emblematico Carlo Fioroni. Il quale, probabilmente, disse un sacco di balle (vedi qui), ma sicuramente lo fece a fin di bene.

    Circa un quarto del libro del dottor Cruciani è dedicato a invettive moralistiche largamente condivisibili contro gli intellettualoidi che dimenticano la pietà umana (sentimento che lo stesso Cruciani non pare estendere alle recenti vittime della Freedom Flotilla) in nome della rivoluzione da farsi in salotto, raggruppati attorno al serial killer Cesare Battisti. Quegli intellettuali sono finalmente denunciati uno per uno e inchiodati alle loro pazzesche responsabilità. E’ vero che, ogni volta che cita qualcuno di quegli scrittori, poeti, cineasti, il dottor Cruciani pare avere attinto, per le notizie biografiche, da Wikipedia; è vero che suona un po’ sconcertante udire definire Erri De Luca un “bestsellerista, cioè uno che vende centinaia di migliaia di copie” (p. 71), quasi fosse Fabio Volo o Federico Moccia; è vero che colpisce trovare Massimo Carlotto inchiodato, ancora una volta, a un ipotetico delitto in cui ormai non crede più nessuno. Ma non si può pretendere che il dottor Cruciani, preso dalle sue attività radiofoniche e adesso anche investigative, legga dei libri.
    Terminato il suo excursus enciclopedico, attraverso vari paesi europei e due continenti (tanti sono i sostenitori-fiancheggiatori di Battisti nel mondo), Cruciani termina enunciando un’amara verità: “Se andiamo a guardare bene, sono gli stessi nomi, gli stessi intellettuali che qualche anno più tardi avrebbero gridato allo scandalo per l’arresto in Svizzera del regista franco-polacco Roman Polanski” (p. 156).
    In verità, come Carmilla non ci siamo mai occupati di Polanski, però, chissà, potrebbe essere.

    Provvisoriamente conclusa la sua requisitoria iniziale, il dottor Cruciani entra nel merito del caso Battisti. Avevamo sostenuto che contro Cesare Battisti esistevano solo le deposizioni di pentiti e dissociati. Cruciani ci smentisce clamorosamente e stabilisce la verità: contro Battisti esistevano solo le deposizioni di pentiti e dissociati. Più, va detto, voci raccolte da un paio di amanti tradite. Le quali ricevono un curioso trattamento. Se la testimonianza era a favore degli imputati, Cruciani cita un giudice secondo il quale, con la disinvoltura sessuale regnante negli anni Settanta, il tradimento non poteva essere movente per una confessione (p. 144); mentre lo ridiventa se la deposizione è a sfavore di Battisti.
    Il pentito principale si chiama Pietro Mutti. E’ vero che tante volte si contraddice, ritratta, modifica. Il dottor Cruciani, con esemplare onestà, si guarda dal negarlo. Anzi, con felice intuito, giudica tale circostanza un sostegno alla verità. (“D’altronde anche i pentiti, così massacrati dai terroristi di tutto il mondo, sono esseri umani. Dunque gli errori di memoria, invece di squalificare definitivamente una persona, potrebbero persino essere indice di sincerità”, p. 126). Con simile premessa, il piatto è servito, e vale — a ben vedere — per tutti i pentiti della Storia.

    Successivamente, il dottor Cruciani si addentra nella ricostruzione della trista epopea di Cesare Battisti, a partire dal delitto Torregiani, ma non prima di averci inchiodato allo sporco trucco da noi escogitato, evocato fin dalle prime pagine del libro e richiamato infinite volte in seguito. Quale trucco? Avere detto che Cesare Battisti non aveva potuto essere l’esecutore materiale dell’omicidio Torregiani e di quello Sabbadin, avvenuti lo stesso giorno quasi alla stessa ora, l’uno a Milano e l’altro nei dintorni di Udine. Cruciani ci accusa non a torto di fare il gioco delle tre carte, visto che nel caso Torregiani Battisti fu individuato quale organizzatore e nel caso Sabbadin quale esecutore.
    Il dottor Cruciani, che non ha tempo per leggere, non ha notato una nostra risposta recente a un suo collega di Panorama, Giacomo Amadori:
    “Amadori sembra ignorare che, ormai da quattro anni a questa parte, e anche in questi giorni, tutti i media che contano, in Italia, in Francia e adesso in Brasile, seguitano a presentare Battisti come l’uccisore materiale di Pierluigi Torregiani e il feritore del figlio Alberto. Incluso lo stesso Panorama, il settimanale su cui scrive Amadori, in un articolo di Giuliano Ferrara del 15 marzo 2004 (si veda qui; ma si dia un’occhiata anche alle puntate successive, qui e qui). (…) Chi conosce la verità non può che replicare che Battisti non può avere assassinato due persone contemporaneamente, a Milano e in un paesino del Veneto, alla stessa ora.”
    Ma il dottor Cruciani non deve scusarsi, anzi. La logica di un instant book è quella che è, e l’autore non è certo tenuto a documentarsi su tutto. Ci attribuisce ogni nequizia e a noi non resta che chinare il capo, davanti all’indignazione dell’illustre moralista. Ciò che non abbiamo commesso avremmo potuto ben commetterlo, data la nostra connaturata bassezza.

    Nelle sue dettagliate ricostruzioni storiche — “questa è storia”, annuncia a un certo punto, e si intuisce che gli sono rimasti nella penna la maiuscola e l’esclamativo — il dottor Cruciani dà rilievo a talune interpretazioni comunemente ritenute destituite di fondamento, e le allinea disinvoltamente alle altre per rafforzare i suoi assunti. Per esempio, cita una dichiarazione tardiva di Angelo Epaminonda, secondo il quale il rapinatore ucciso da Torregiani nel ristorante Transatlantico era un mafioso fatto giungere in aereo da Catania, al preciso scopo di derubare il gioielliere (pp. 53-54). Ora, suona un po’ improbabile che un delinquente intenzionato a svuotare una gioielleria vada a coglierne il titolare non in negozio, ma in un ristorante, e chieda di consegnare il portafoglio a lui e ad altri clienti. Il particolare inattendibile serve però alla causa generale di cui si fa banditore il dottor Cruciani, cioè dimostrare la meschinità di Battisti e compagni e, per traslazione, di chi difende il primo. Giustissimo. Se non il metodo, lo scopo.

    Panorama, il settimanale che si onora della collaborazione del dottor Cruciani, ha opportunamente lodato l’ampia bibliografia che lo stesso Cruciani ha saputo raccogliere. Per essere precisi, non c’è nessuna bibliografia, ma, in nota, un bel po’ di articoli di giornale e alcuni atti giudiziari. Facciamo notare, incidentalmente, una piccola lacuna. Il dottor Cruciani si interroga, per diverse pagine, sui moventi dell’uccisione del direttore del carcere di Udine Santoro. Del dissociato Arrigo Cavallina conosce un libro solo, dal titolo singolare: La piccola tenda d’azzurro che i prigionieri chiamano cielo (ed Ares, 2005). Se avesse letto anche un altro libro del Cavallina, Distruggere il mostro (Librirossi, 1977), forse le ragioni dell’attentato gli sarebbero state più chiare.
    Perché ci soffermiamo su un dettaglio così insignificante? Perché i libri non letti (o letti ma non utilizzati?) dal dottor Cruciani sono un bel po’. Se avesse conosciuto La mappa perduta non avrebbe sbagliato per difetto il numero degli indagati per appartenenza ai Proletari Armati per il Comunismo, se avesse avuto tra le mani Le torture affiorate si sarebbe interrogato meno sulle violenze nel corso dell’istruttoria Torregiani (cui, a quanto pare, fu sottoposto persino Pietro Mutti, per sua stessa ammissione su… Panorama! 25 gennaio 2009, riquadro). I due libri sono stati pubblicati dalla casa editrice Sensibili alle Foglie nel 1994 — con riedizione ampliata nel 2006 — e nel 1998.
    Soprattutto, alla bibliografia inesistente del dottor Cruciani manca il romanzo di Cesare Battisti Le Cargo sentimental (Editions Losfeld, 2003). E ha fatto bene a ometterlo, perché altrimenti sarebbe stato difficile sostenere che Battisti non ha mai preso le distanze dalla lotta armata.

    Non seguiremo il dottor Cruciani nelle ricostruzioni apparentemente puntigliose dei vari omicidi (tutte del tipo: il tale pentito ha sentito dire dal talaltro dissociato che…; oppure, l’ex amante di Battisti riferisce che lui le ha confidato…). Questa nostra certo strumentale omissione deriva da un fatto: noi, come Carmilla, non abbiamo mai sostenuto, nemmeno nell’appello “della vergogna”, che Battisti sia innocente. Abbiamo posto in dubbio la dinamica di alcuni delitti che gli sono attribuiti, ma se lo abbiamo difeso è per ragioni che con l’innocenza non hanno nulla a che vedere. Ne parleremo tra breve.
    Invece saltiamo direttamente al capitolo 7 sulle “incredibili menzogne” di cui saremmo responsabili, che il dottor Cruciani stigmatizza con furore radiofonicamente rodato. Ci stendiamo dunque noi stessi sul lettino operatorio, ormai tanto privi di voce da non osare nemmeno chiedere pietà.
    Vediamole, queste menzogne infami. Che poi, curiosamente, si riducono a una, o a una e mezza.

    Il capitolo destinato a inchiodarci si apre con un assalto frontale alla casa editrice Derive Approdi, rea di avere pubblicato il libretto Il caso Cesare Battisti: quello che i media non dicono. Sono due pagine di insulti, ben corroborate dal fatto che tra i fondatori figura il famigerato Franco Berardi, detto Bifo. “Tanto per capirci, Berardi crede ancora nell’utopia di un mondo ideale, un luogo che non sia dominato dalle leggi capitalistiche di mercato e dove possa realizzarsi il motto ‘lavorare meno, lavorare tutti’” (p. 133). Mio Dio, che imbecille! (Bifo, naturalmente, non certo il dottor Cruciani).
    Seguono altre pagine di insulti contro Serge Quadruppani. Cruciani non sa nemmeno in questo caso chi sia, visto che lo presenta, tra l’altro, come collaboratore di Libération (un quotidiano che, per quanto ne sappiamo, Quadruppani detesta). Ma che importa? “Uccidili tutti, Dio poi farà la sua scelta”, diceva un pio vescovo, durante la crociata contro i catari.
    Infine veniamo noi.

    Colpevoli, anzitutto, di avere equivocato i contenuti e sbagliato, nell’opuscolo Il caso Cesare Battisti, la datazione di una lettera al Corriere della Sera del sostituto procuratore Armando Spataro, da noi fissata al gennaio 2008. Quell’articolo esiste davvero, ci avvisa Cruciani, solo che fu pubblicato dal Corriere il 23 febbraio 2009. Ciò suona un po’ strano, visto che il nostro libretto fu finito di stampare proprio nel febbraio 2009, e consegnato due mesi prima.
    Che la svista sia invece dello Sherlock Holmes di Radio 24? Non sia mai. Come certi grandi criminali, tipo il dr. Mabuse, noi di Carmilla abbiamo doti paranormali e facoltà precognitive, e nemmeno ce ne rendiamo conto.
    Comunque quella lettera esiste. Sta qui. Spataro prima classifica Battisti tra gli “organizzatori”, poi chiede, retoricamente, se è giusto mandare libero chi ha “giustiziato” un macellaio e un gioielliere. Gioca ancora una volta sull’equivoco. Ma è colpa di Carmilla l’attribuire a un probo magistrato pessime intenzioni, e di ciò ci scusiamo.

    Veniamo alla nostra “incredibile menzogna”. Abbiamo scritto, ne Il caso Cesare Battisti e nelle nostre FAQ, che Pietro Mutti incolpò Battisti del delitto Sabbadin, poi, messo alle strette dalla confessione di Diego Giacomin, ritrattò, ammise la sua partecipazione e declassò il ruolo di Battisti da esecutore a complice.
    In tutto l’opuscolo, è uno dei rari passi corredato da una nota, perché ci limitiamo a riportare qualcosa di scritto da altri (nello specifico, un brano di Fred Vargas). Ciò non impedisce al dottor Cruciani di rovesciare addosso a noi, e non alla fonte, la sua giusta ira. Come andarono veramente i fatti? Mutti apprese in un secondo tempo che all’omicidio di Sabbadin parteciparono in due, Battisti e qualcun altro. Poi Giacomin, dissociato, confessò: era stato lui a sparare al macellaio. Non fece altri nomi. Una terza complice, condannata all’ergastolo e non menzionata da Mutti, vive oggi in Francia.
    Cavolo, correggeremo, la svista (probabilmente voluta) è di gravità inaudita.

    La mezza svista, anch’essa voluta, è poi terribile. Abbiamo citato due brani in cui Pietro Mutti era stato costretto a ritrattare le sue deposizioni contro Battisti, di fronte all’evidenza dei fatti. Li riferivamo a una sentenza del 1993. Sherlock Cruciani si trasforma nel mastino dei Baskerville e ci azzanna subito: le nostre citazioni non erano degli inquirenti, ma dei difensori!
    Noi ci eravamo limitati a riportare un passaggio della memoria presentata dagli avvocati di Battisti alla Corte di Strasburgo. Abbiamo avuto il torto, questa volta, di non indicarlo in nota. Ma le circostanze indicate erano false? No, erano vere, e risultate in sede dibattimentale. Per questo classifichiamo la faccenda come “infame menzogna” a metà.
    Esistono altre nequizie che ci possano essere attribuite, nel capitolo destinato a crocefiggerci? No, il repertorio è esaurito. Restano quelli che il volgo chiamerebbe “sproloqui”, e noi chiamiamo pensose riflessioni morali.

    Due capitoli sono dedicati en passant alla campagna per Battisti in Francia (i molti difensori del terrorista sono denigrati, i pochi oppositori — come lo storico Pierre Milza, l’altro storico e autore di romanzi d’appendice Max Gallo, ecc. onorati con lunghe citazioni) e in Brasile.
    Terra di teste matte, per il dottor Cruciani. Dato che siamo un po’ stanchi di mulinare le braccia per difenderci, lo rinviamo a uno scritto di Luca Baiada apparso sulla rivista Il Ponte nel giugno 2009. Forse Tarso Genro non delirava, quando concesse l’asilo a Battisti. Dallo scritto di Baiada, il dottor Cruciani potrebbe capire come si scrive un saggio di peso e ben documentato, se mai avesse bisogno di consigli.

    Per la stessa stanchezza rinunciamo a esporre i motivi che ci hanno spinto (noi Carmilla, non i firmatari della “lista della vergogna”) a difendere Battisti. Il dottor Cruciani può trovarli elencati in un articolo di giugno-settembre 2007 dello scrittore Walter G. Pozzi, direttore editoriale della rivista PaginaUno. Ripete nelle ultime righe la faccenda del delitto simultaneo, ma il resto dell’argomentazione la facciamo nostra.
    Almeno in questo caso Cruciani ci sarà grato. Gli abbiamo fornito un altro nome da inserire nella lista del “culturame” da eliminare.

    Giunti al termine della rassegna, ci pare di poter dire, molto rispettosamente, al dottor Cruciani: “Va’, va’, povero untorello, non sarai tu quello che spianti Milano” (a uso dello stesso Cruciani, specifichiamo che trattasi di una citazione da I promessi sposi, di Alessandro Manzoni, noto scrittore ottocentesco lombardo, che ha una voce abbastanza ampia su Wikipedia).
    La prossima edizione del suo libro, se mai ce ne saranno, andrebbe rivista e un po’ snellita. Così com’è, somiglia a una versione logorroica di un articolo di Luca Telese (curatore della collana in cui è uscito il saggio del dottor Cruciani). Si arriva in fondo e si ha l’impressione di non avere letto nulla.

    (1) Giuseppe Cruciani, Gli amici del terrorista. Chi protegge Cesare Battisti?, Sperling & Kupfer, 2010, pp. 255, € 17,00.

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    Predefinito Re: Articoli di Cesare Battisti su CarmillaOnLine e approfondimenti

    DAL DR. CRUCIANI AL DR. TURONE, OVVERO DALLA TRAGEDIA ALLA NOIA. L’ULTIMA PERLA PUBBLICISTICA SUL”CASO BATTISTI”
    Pubblicato il 1 Settembre 2011 · in Il caso Battisti ·
    della Redazione di Carmilla

    A noi in fondo piacciono i libri stravaganti, bizzarri, anomali. Un po’ meno i libri noiosi. Quello di cui trattiamo alcuni aspetti curiosi li presenta. E’ però altamente soporifero, quasi fosse scritto dalla zia del segretario di un sottosegretario. Arrivati al sesto capitolo, proseguire si fa veramente difficile. Noi, con l’aiuto di molti caffè, ce l’abbiamo fatta. Ecco il nostro commento.

    Il segreto

    Perché qualcuno dotato di capacità letterarie vistosamente scarse decide di dedicare un instant book al “caso Battisti”? Non ci viene detto, e allora lo riveliamo noi. Giuliano Turone, ex magistrato, fu tra i procuratori che collaborarono all’istruttoria “Torregiani”, in cui Cesare Battisti era uno degli accusati. In particolare, fu tra quelli che archiviarono le tredici denunce per tortura presentate da alcuni degli imputati e dai loro familiari.
    Certe sue frasi del capitolo 2, alla luce dell’omissione iniziale, rischiano il ridicolo. Quasi non fosse stato parte in causa, e contemplasse gli eventi da un altro pianeta. In riferimento a un collega, per esempio, parla di “inquietudine”, e ne cita una simpatica uscita: “Io posso anche pensare che qualcosa di illegale sia avvenuto, perché c’è tutta una serie di considerazioni che lo lascia ritenere. La polizia può avere avuto l’impressione di avere a che fare con esponenti della malavita, per cui può essere partito qualcosa di troppo”.

    Interessante. Se l’arrestato è un malvivente, può anche partire “qualcosa di troppo”. Si noti che le denunce erano riferite a percosse, bruciature dei testicoli, acqua fatta ingurgitare e poi vomitare. Gli effetti, almeno in un caso, furono certificati da perizia medica.
    Turone non ci dice se condivise le “inquietudini” del collega. Sta di fatto che contribuì all’archiviazione, anche alla luce del fatto che delle confessioni strappate con mezzi coercitivi non si tenne conto (dice lui), e che quasi tutti gli arrestati risultarono effettivamente colpevoli. Ineccepibile.
    Perché allora Turone tace sul proprio coinvolgimento? Forse per non fare apparire il suo testo per ciò che potrebbe sembrare. Un’autodifesa.

    La tesi di fondo

    Quel che Turone intende dimostrare, nella sua dissertazione, è che la metodologia adottata negli anni ’80 dai giudici che processarono Battisti sarebbe valida ancora oggi, e porterebbe ai giorni nostri a identica condanna. La domanda che sorge naturale è: “E ciò cosa importa? Il problema è tutt’altro”.
    Rintuzziamo la visceralità. Turone vuole dire che il processo ai PAC non ebbe i connotati dell’emergenza, e si ripeterebbe uguale ancora oggi, quando l’emergenza non c’è più (?). Gli strumenti giuridici si sono raffinati, ma non sono cambiati rispetto ai criteri usati negli anni ’70-’80. Francamente ne avevamo il sospetto.
    Magistrati “democratici” quanto Turone stanno ancora impartendo condanne spropositate. L’aggravante ricorrente è l’”associazione sovversiva”. Si tratti di due vetrine rotte, della contestazione di un sindacalista complice, di chi ha solo gridato uno slogan (sette anni di carcere!), di un anziano indipendentista sardo che avrebbe meditato di boicottare un vertice internazionale usando aeroplanini teleguidati (sic!). Troviamo, in questi accanimenti che costano anni di galera a giovanissimi, il fior fiore della magistratura “progressista”, dalla Bocassino a Caselli. La tendenza di cui Turone fa parte. Implacabile sulla P2 o su “Mani pulite”. Placabile su altri fronti. Quando è in crisi il modello sociale, una severità spietata è d’obbligo.

    Metodologia della ricerca storica: il brevissimo ’68 italiano

    Turone pretende di impartire una sorta di lezione metodologica agli storici. Nobile proposito. Occorre però possedere una cultura all’altezza dell’impegno.
    Non pare che sia il caso. E’ desolante la scarsa conoscenza di Turone rispetto al periodo che prende in esame. Il capitolo 3, Flashback sul contesto socio-politico, e il capitolo 4, In principio era Potere operaio, sono scandalosi. Si rifanno in larga misura al “teorema Calogero”, ricostruiscono il ’68 italiano sulla base di suggestioni raccolte a casaccio. Loro fonte principale è il manuale di De Bernardi e Ganapini Storia dell’Italia unita: compendio pregevole, ma sempre compendio. Turone lo semplifica e lo riassume ulteriormente.
    Così il “lungo ’68” italiano sarebbe durato per l’appunto dal 1968, “anno studentesco”, a metà del 1969, “anno operaio”, per poi perdere ogni spinta propulsiva e degenerare gradualmente nel terrorismo. Turone non sa nulla degli scioperi che, nel 1968, si verificarono alla Pirelli, all’Ercole Marelli, alla Magneti Marelli, all’Autobianchi, alla Innocenti, alla Marzotto di Valdagno, alla Fiat e in molte altre situazioni. Non sa della nascita, proprio nel ’68, dei Comitati unitari di base, che tanto peso avrebbero avuto nell’autunno dell’anno successivo. E quanto al cosiddetto “autunno caldo”, lo cita, sì, ma senza spiegare che si prolungò nel 1970, e che ancora nel 1973 l’occupazione della Fiat lasciò il segno. Furono gli anni dei consigli di fabbrica, dello Statuto dei lavoratori (1970), dell’insubordinazione operaia diffusa, delle “150 ore”, ecc. Come fa Turone a dire che la spinta della contestazione si arrestò a metà del 1969?
    Il motivo è presto detto. Non ne sa mezza. Se un Cruciani (vedi qui) all’epoca non era ancora nato, Turone si occupava d’altro. O, per essere più espliciti, stava dall’altra parte. Tanto da dovere poi riscoprire le “virtù sessantottesche” attraverso la manualistica.

    Metodologia della ricerca storica: Toni Negri, ovvero la piovra

    Peggio accade con il capitolo su Potere Operaio, visto come matrice di tutta la lotta armata in Italia. Per dimostrare questa assurdità, Turone svaluta le esperienze precedenti, come per esempio la “Banda Cavallero”. Per lui fu un fenomeno di delinquenza comune che gli imputati cercarono di nobilitare, in tribunale, cantando L’Internazionale (a essere pignoli, si trattava di Figli dell’officina). E’ palese che non gli è mai capitato di leggere le memorie di Sante Notarnicola (L’evasione impossibile, edito da Feltrinelli e poi da Odadrek), in cui le azioni della banda sono messe in relazione con la Volante Rossa e con il retaggio della sezione del PCI alla quale i “banditi” erano iscritti.
    Ma veniamo a Potere Operaio, presunta matrice delle Brigate Rosse e di tutto il resto — con un maestro più o meno occulto, Toni Negri (che Turone evoca più volte, in termini allusivi). Cosa farebbe un comune storico, di quelli a cui Turone fa la lezione? Anzitutto comparerebbe i discorsi di Negri (o di Scalzone, o di Piperno, ecc.) con quelli delle BR. Si accorgerebbe subito che differiscono profondamente per linguaggio, analisi, proposte strategiche e addirittura per realtà esistenziali di provenienza (1). Se poi avesse tempo da perdere in letture e non fosse sepolto sotto i 53 faldoni polverosi del “processo Torregiani”, troverebbe conferma dell’assunto nei libri di memorie in cui i brigatisti descrivono quale percorso intrapresero per arrivare alle armi (uno fra tutti: Prospero Gallinari, Un contadino nella metropoli, Bompiani). Nulla a che vedere con Potere Operaio.
    Cosa fa invece il bravo giudice, al pari del bravo questurino o del bravo gazzettiere (o, come direbbe Frassica, del bravo presentatore)? In un soprabito di Negri viene trovato un documento proveniente da una rapina attribuibile alle BR. Per uno storico sarebbe un elemento marginale, legato a mille possibili circostanze. Per il bravo giudice diventa invece prova provata dell’esistenza di un’unica organizzazione, con Negri a capo. Se poi copie dello stesso documento sono reperite in sedi dei Proletari Armati per il Comunismo il cerchio si chiude.
    Non importa che da Potere Operaio provengano solo un paio di elementi marginali dei PAC. Gli altri escono da Lotta Continua, o da collettivi di quartiere dell’Autonomia. Dalle tesi o dal linguaggio di PO sono distanti anni luce. Non ha peso, il “teorema Turone” li vuole filiazione diretta (2).

    Metodologia della ricerca storica: la mobilitazione dei magistrati in pensione

    Turone è convinto che la magistratura possa dare un importante contributo alla storiografia. Lo hanno spinto a tale conclusione i 53 “tremendi faldoni” contenenti le carte dei processi a Battisti e ai complici, “talmente ostici e inespugnabili, che qualsiasi studioso, anche eccelso, di storia contemporanea che li avesse affrontati sarebbe rimasto frustrato come se avesse trovato l’Archivio [di Stato di Milano, n.d.r.] chiuso”.
    Da qui una proposta geniale. Mobilitare i magistrati in pensione, come lui, e spedirli negli archivi a riordinare le carte processuali. In questo modo, futuri ricercatori potranno capirci qualcosa. E’ parere di Turone, infatti, che Battisti abbia ottenuto asilo in Brasile perché, laggiù, avevano capito poco o nulla dei suoi processi. Come avrebbero potuto, con gli atti così mescolati e confusi?
    Turone, del lavoro dello storico, ha un’idea un po’ approssimativa. Uno degli autori di questo commento si trovò, qualche decennio fa, a esaminare le carte del settecentesco Tribunale del Torrone di Bologna. Circa 100.000 fascicoli non in ordine cronologico, scritti parzialmente in latino, con l’inchiostro che si era cristallizzato e tendeva a volare via in nuvolette di polverina argentea. Avrebbe ringraziato il cielo di avere a che fare con 53 faldoni di testi battuti a macchina.
    Tuttavia l’idea di Turone potrebbe anche essere buona. Vediamo le novità portate dalla sua ricerca (in cui era stato preceduto, per sua ammissione, dai difensori di Battisti).

    Le novità

    Nessuna. Turone riassume quanto già raccontato da Cruciani (non a caso citato di continuo), che a sua volta riassumeva le sentenze contro i PAC del 1988, 1990, 1993. Queste erano già accessibili via Internet, come abbiamo segnalato, raccomandandone la lettura. Sono ora state riprodotte nell’utile volume Dossier Cesare Battisti, Kaos Edizioni, 2011 (con breve e assai imbarazzata introduzione di Giorgio Galli). Letto Dossier Cesare Battisti si è letto tutto.
    L’innovazione portata da Turone consiste semmai nel tacere o sorvolare sulle motivazioni di ogni atto di violenza, nell’evitare la cronologia delle confessioni a singhiozzo di pentiti e dissociati, nel tacerne le contraddizioni.
    Sull’ultimo punto, Turone compie un solo, inavvertito scivolone. Per l’assassinio dell’agente Campagna, il pentito Sante Fatone tirò in ballo, tra gli altri, tale Stefania Marelli (p. 105). Turone è costretto poi ad ammettere, in nota, che la Marelli si trovava all’estero nel periodo dell’omicidio (p. 106). Ad anni di distanza fu assolta con formula piena.
    Novità ulteriori? Una alquanto buffa, letta però già nella sentenza del 1988. Durante l’agguato a Sabbadin, Paola Filippi, evidentemente una donna, si mascherò con barba e baffi posticci. Doveva essere uno spettacolo.
    Il resto segue il copione già noto. Ad anni di distanza, un pentito coinvolge Battisti, perché un dissociato gli ha raccontato che… Non mancano le prove materiali. Un tizio dice a un altro che non vuole indossare una certa giacca: era stata usata da Battisti anni prima durante l’attentato a Santoro. Un altro tizio rivela che Battisti usava portare stivaletti da cow-boy che lo facevano sembrare più alto. Ecco perché i testimoni videro sparare un uomo di alta statura, mentre Battisti è piuttosto basso.
    E via di questo passo.
    Tutto ciò assolve Battisti? No, ma nemmeno pare sufficiente a condannarlo.
    E’ questo il problema?

    Il senso di Turone per Carmilla

    Turone se la prende in particolare con Carmilla e con le sue note FAQ. A suo parere “si tratta di una rassegna di obiezioni che vengono periodicamente rivedute e modificate, tanto che non si riesce bene a capire quale sia la versione ‘aggiornata’”. Glielo spieghiamo noi. E’ l’ultima. Quella che può vedere (gratis) se va sul nostro sito e cerca, in prima pagina, la rubrica dedicata a Battisti.
    Ma forse Turone non si fida di diavolerie moderne come il computer, e ne cerca una versione a stampa del febbraio 2009.
    Scopre così una serie di nostre palesi falsità.
    Per esempio, la questione delle deleghe in bianco ai propri avvocati (da noi, invero, menzionata abbastanza di sfuggita) che Battisti sottoscrisse prima di fuggire dal carcere di Fossombrone, in seguito adattate ai successivi processi, lui contumace. Un tema sollevato soprattutto da Fred Vargas, e scarsamente considerato dai magistrati parigini e dalla Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo.
    Turone è convinto che sia una bufala. Rispondiamo con un video che attesta il contrario. Ci scusiamo con i lettori per la lingua portoghese. Guardino le immagini, sono più eloquenti delle parole:

    Di fronte a simile dimostrazione, delle conclusioni della Corte di Strasburgo non ci importa molto.

    Il senso di Turone per l’invenzione creativa

    La seconda accusa che ci muove Turone non sta né in cielo né in terra. NOI avremmo alimentato la confusione circa gli omicidi Torregiani e Sabbadin, in modo da lasciare intendere che Battisti sarebbe stato accusato di averli materialmente commessi, lo stesso giorno, in luoghi distanti.
    A dire il vero, dicevamo tutt’altro (anche nella versione stampata delle FAQ):

    «Comunque, chi difende Battisti ha spesso giocato la carta della “simultaneità” tra il delitto Torregiani e quello Sabbadin, mentre Battisti è stato accusato di avere “organizzato” il primo ed “eseguito” il secondo.
    Ciò si deve all’ambiguità stessa della prima richiesta di estradizione di Battisti (1991), alle informazioni contraddittorie fornite dai giornali (numero e qualità dei delitti variano da testata a testata), al silenzio di chi sapeva. Non dimentichiamo che Armando Spataro ha fornito dettagli sul caso — per meglio dire, un certo numero di dettagli — solo dopo che la campagna a favore di Cesare Battisti ha iniziato a contestare il modo in cui furono condotti istruttoria e processo. Non dimentichiamo nemmeno che il governo italiano ha ritenuto di sottoporre ai magistrati francesi, alla vigilia della seduta che doveva decidere della nuova domanda di estradizione di Cesare Battisti, 800 pagine di documenti. E’ facile arguire che giudicava lacunosa la documentazione prodotta fino a quel momento. A maggior ragione, essa presentava lacune per chi intendeva impedire che Battisti fosse estradato.»

    Dovrebbe essere già chiara la verità, ma il tema si precisa nella nostra risposta a un articolo del giornalista Amadori di Panorama. (3)
    Del resto, a p. 109 Turone riporta pari pari il brano di un articolo di Claudio Magris, in cui costui attribuisce a Battisti quattro omicidi di sua mano (inclusi, dunque, Torregiani e Sabbadin) e, tanto per raggiungere il peso, anche il ferimento di Torregiani jr.

    Il senso di Turone per lo scambio di persone

    Nel paragrafo successivo, Turone ci addossa la responsabilità di affermazioni fatte, in realtà, da Piero Sansonetti e Bernard-Henri Lévy. Grazie, non ci crediamo all’altezza di tanto onere. Già sarebbe complicato influenzare Sansonetti. Riuscirvi con Henri-Lévy sarebbe ancor più complicato, visto che ne abbiamo pallida stima.

    Il senso di Turone per il dettaglio

    Se ai temi precedenti sono dedicate alcune righe, quasi due pagine riguardano invece una nostra rapida osservazione circa un imputato minore del “processo Torregiani”, di nome Bitti. Perché a Turone preme tanto? Il sospetto è che sia per il fatto che ebbe tra le mani il suo caso. Bitti, tra coloro che denunciarono torture, fu il solo che poté dimostrarle, a causa della lesione di un timpano riportata nel corso degli “interrogatori”. Turone, come abbiamo visto, archiviò la sua denuncia al pari delle altre, malgrado residue “inquietudini” senza effetti pratici.
    Avevamo scritto che Bitti era stato udito in luogo pubblico fare l’apologia dell’attentato a Torregiani, e che era stato condannato a tre anni e mezzo di carcere per concorso morale, secondo procedure degne dell’Inquisizione. Che sotto tortura aveva denunciato un compagno, Angelo Franco, salvo poi ritrattare. Questi, poco tempo dopo, era stato arrestato nuovamente e aveva subito una condanna a cinque anni per associazione sovversiva.
    Il tutto, nelle nostre FAQ, occupava una decina di righe. Riassumevano, magari in maniera grossolana, una catena di fatti difficili da smentire, e infatti mai smentiti:
    “Sisinnio Bitti, prosciolto dall’omicidio Torregiani, è stato condannato a tre anni e mezzo per ‘partecipazione a banda armata’, perché il pentito Pasini Gatti lo avrebbe visto ‘discutere con altre persone’ nello scantinato di via Palmieri, considerato dai magistrati un covo della lotta armata. In realtà, il luogo è un punto aperto di ritrovo del Collettivo di via Momigliano, messo a disposizione dal PDUP. Il 14 maggio 1983 viene imputato di ‘concorso morale per duplice omicidio’ [Torregiani e Sabbadin, n.d.r.] perché un altro pentito, Pietro Mutti, lo avrebbe sentito dire che era d’accordo con le due uccisioni” (P. Moroni, P. Bertella Farnetti, Il Collettivo Autonomo Barona: appunti per una storia impossibile, in “Primo maggio” n. 21, 1984).
    Quanto sopra è falso? Come mai Turone lo rivela venticinque anni dopo, con un diluvio di parole che contrasta con la sua abituale reticenza? D’accordo, ha oggi esplorato i “tremendi” 53 faldoni. Si ostina a tacere sul fatto che alla creazione di quei faldoni ha collaborato anche lui.
    Prima di darci dei falsari, esamini almeno le fonti delle nostre presunte “falsità”.
    Stia tranquillo, non lo denunceremo. Rischieremmo di trovarci di fronte a magistrati simili a lui. L’unica vera giustizia, in Italia, è la controinformazione. Senza di essa, Pinelli si sarebbe gettato dalla finestra della Questura di Milano per “malore attivo”, e la bomba in Piazza Fontana l’avrebbe collocata Pietro Valpreda.

    Il senso di Turone per la sintesi

    Nel corso dei suoi “interrogatori robusti”, da cui uscirà menomato nell’udito, Bitti accuserà dell’omicidio Torregiani sia tale Angelo Franco, operaio, che addirittura se stesso. Nessuno dei due, però, poteva avere partecipato all’azione: mentre si svolgeva, si trovavano sicuramente altrove.
    A Turone non interessa molto. Franco fu trovato in possesso di due pistole, e arrestato e condannato per questo. Omette di dire che, liberato Franco dopo un anno di prigione, fu arrestato di nuovo. Qualcuno, in tribunale, si era dimenticato del reato di ricettazione. Era finito in galera, la prima volta, quale membro del commando che aveva ucciso Torregiani.
    Identica accusa originaria per Bitti, poi trasformata in “concorso morale”. Frequentava quella gente. Bastava e avanzava. Poco importa che con Torregiani, Sabbadin ecc. non avesse niente a che fare.
    La successive “falsità” attribuite da Turone a Carmilla sono di scarso rilievo. Avevamo scritto che Battisti era stato condannato quale organizzatore dell’omicidio Torregiani in “via deduttiva”, dato l’evidente nesso tra quel delitto e l’omicidio Sabbadin. Turone, pur apprezzando la sintesi esercitata in proprio, non ama quella altrui. Specifica quindi che la colpevolezza di Battisti risultò dal confronto delle deposizioni di due pentiti e di tre dissociati. Mai detto il contrario, a onor del vero. Forse abbiamo sbagliato aggettivo, e usato “deduttivo” invece che “induttivo”, in linguaggio filosofico più corretto.

    Il senso di Turone per l’infanzia

    Poi Turone stigmatizza la nostra critica all’uso quale testimone, nella fase istruttoria del “processo Torregiani”, di una ragazzina dodicenne con qualche problema psichico, indotta a deporre contro lo zio. Turone asserisce che non si tenne conto delle sue dichiarazioni. All’epoca però scriveva, in veste di giudice istruttore: “L’esistenza del quadro indiziario è un primo punto fermo nell’iter logico della presente trattazione, dal quale non si potrà prescindere nel prosieguo, e che fornisce inevitabilmente una chiave di lettura per valutare adeguatamente certe dichiarazioni della prima ora (poi ritrattate) di [seguono alcuni nomi, tra cui quello della ragazzina, divenuta imputata].
    A Turone sfugge la sostanza della questione. Non ci interessa se la bambina avesse detto il vero o no. Ci interessa che una dodicenne con disturbi mentali fosse chiamata a deporre contro un congiunto, e addirittura imputata. E’ però vero che l’Inquisizione riteneva un ragazzo di dodici anni perfettamente adulto, e passibile di quaestio. A quanto sembra, la Procura di Milano era d’accordo.

    Per farla breve

    Proseguiamo, cercando di accorciare il più possibile, la via crucis (ce ne scusiamo con i lettori: commentare un libro noioso rende inevitabilmente noiosi).
    Carmilla attribuisce rilievi di inattendibilità del pentito Pietro Mutti a una sentenza d’appello del 31 marzo 1993, mentre facevano parte delle argomentazioni dei difensori. Se Turone avesse letto la versione delle FAQ sul sito (è gratis), si sarebbe accorto che avevamo corretto l’errore. Del resto, questo non cambiava nulla (4). I fatti esposti dalla difesa erano incontestabili.
    Carmilla avrebbe accusato Mutti di avere fatto parte del commando che uccise Sabbadin. Cosa non vera, in effetti, e sparita dalla versione corrente delle FAQ. Nella prima versione era indicata in nota la fonte dell’errore.
    Carmilla avrebbe indicato in Mutti l’assassino di Santoro, quando in realtà Mutti era stato solo l’autista. Furono in realtà prima la Digos di Milano, poi i carabinieri di Udine, a indicare in Mutti l’uccisore. Rimandiamo per i particolari a un articolo scritto dal prof. Carlos A. Lungarzo, militante di Amnesty International in Brasile, Messico, Argentina e negli Stati Uniti, per la rivista brasiliana Crítica do Direito. Mutti spalmò le proprie rivelazioni per un anno intero, e solo alla fine rivelò la partecipazione di Arrigo Cavallina e altri. Una ragazza da lui accusata fu assolta in appello.
    Da ultimo, Turone rimprovera a Carmilla di avere scritto che la giustizia italiana continua a perseguire quasi solo gli estremisti di sinistra, mentre quelli dell’altra parte, da alcuni degli autori delle stragi di estrema destra ai “macellai” di Genova 2001, restano impuniti e, nel secondo caso, addirittura premiati.
    Nei capitoli successivi si diffonde a spiegare che non è vero.
    Ha ragione. L’accanimento contro Delfo Zorzi supera in furore giustizialista quello contro Battisti. E’ palese. I torturatori di Bolzaneto e gli assalitori della Diaz sono stati esemplarmente puniti, magari con promozioni insidiose. Allo stesso modo sono stati adeguatamente puniti, con la pena suprema dell’oblio, i poliziotti che uccisero Pedro (Pietro Maria Greco) perché armato d’ombrello, nonché gli assassini di Varalli, Zibecchi, Franceschi, delle vittime della legge Reale, ecc. Omettiamo la lista, che occuperebbe troppe pagine.
    Resta impunito solo il criminale universale: Cesare Battisti, il nemico n° 1, l’equivalente moderno di Jack lo Squartatore.

    E bla, bla bla…

    I capitoli finali, che non leggerà nessuno, sono esercizi di magniloquenza. Turone cita i pochi intellettuali francesi e brasiliani schierati contro Battisti, invoca il presidente Napolitano (l’inventore dei lager per immigrati, l’affossatore dell’art. 11 della Costituzione), sostiene che lo Stato italiano, nel combattere il terrorismo, mai si allontanò dal diritto.
    In proposito, citiamo uno storico che, pur essendosi occupato di Brigate Rosse, non è sospettabile nemmeno da lontano di contiguità:
    “Alla luce di tutto ciò appare difficile sostenere, come spesso viene fatto ancora oggi, che il terrorismo sia stato vinto senza violare le libertà fondamentali del cittadino. Il ‘circuito dei camosci’, i decreti del marzo 1978, la legge Cossiga e quelle sui pentiti e dissociati, al contrario, fornirono allo Stato degli strumenti di indagine e repressione che violano alcuni dei diritti civili sanciti dalla carta delle Nazioni unite del 1948. Si aggiunga a questo la pratica della tortura nei confronti dei militanti catturati, saltuaria dal 1980 e quindi sistematica nel 1982, reato gravissimo peraltro allora neanche contemplato dal codice penale italiano. Le cause per le quali la lotta armata rimase sconfitta, dunque, sono molteplici, andando da motivi di carattere politico generale fino al mutamento di congiuntura economica, con un contributo non secondario giocato dalle leggi speciali e dall’uso della violenza che lo Stato seppe modulare in maniera efficace” (M. Clementi, Storia delle Brigate Rosse, Odradek, 2007, pp. 247-248).

    Lasciate perdere Battisti

    Non sosteniamo Battisti perché lo riteniamo innocente o colpevole. Non ci interessa minimamente. Tra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta si svolse in Italia un duro confronto, animato da un movimento di centinaia di migliaia di persone (giovani, ma non solo) che intendevano rovesciare l’assetto statale. Non fu una vera guerra civile (come sostengono gli ex brigatisti, con l’avvallo del defunto Cossiga), bensì qualcosa che poteva somigliarle. Una parte minoritaria di quel movimento commise crimini e delitti, è indubbio. Gli autori non furono però, in maggioranza, criminali per vocazione, né psicopatici. Ritenevano loro dovere agire così, in quel contesto. Si trattava di una falsa prospettiva, adottata in buona fede, per convinzioni egualitarie esasperate. Un vicolo cieco. Quelli tra loro che non furono incarcerati e riuscirono a fuggire provarono a rifarsi una vita. Tantissimi finirono in prigione, alcuni vennero uccisi (e nessuno indagò sulle loro morti).
    E’ molto diverso il caso degli estremisti di destra. Con forti appoggi istituzionali, e senza avere alle spalle alcun movimento degno di questo nome, “spararono sul mucchio”: su cittadini qualsiasi, viaggiatori di seconda classe, partecipanti a un comizio. Ne uccisero quanti più poterono. Fino all’ultimo furono protetti da settori deviati o meno dello Stato. Non si proponevano una rivoluzione, ma un golpe dell’esercito per ripristinare un “ordine” da loro stessi turbato. Tanti di essi non furono nemmeno inquisiti.
    E’ assurdo perseguitare ora i ribelli del “primo tipo”, trent’anni dopo. Se liberi, sono rimasti in quattro gatti, vivacchiano come possono. Battisti è stato scelto dall’elenco perché aveva acquistato visibilità quale scrittore. Poco importa che vivesse in una soffitta a Parigi e facesse il portinaio. E’ stato dipinto come il prediletto dai salotti letterari, colui che gode di un dorato esilio a Ipanema, il delatore dei compagni (!!!), il mostro per antonomasia.
    Forse — anzi, senza forse – era il fatto che fosse scrittore che disturbava.
    Ultimo, nella fila dei linciatori, ecco Turone. Con l’ultimo sasso in pugno. Non voleva mancare alla festa.
    Buon per lui, si diverta.

    NOTE

    1) Per non parlare dei NAP, di derivazione totalmente differente. Cfr. V. Lucarelli, Vorrei che il futuro fosse oggi. NAP: ribellione, rivolta e lotta armata, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2010.
    2) Chi voglia sapere dove sfociò, esattamente, l’opzione di una parte di Potere Operaio per la lotta armata, ha oggi a disposizione il bel saggio di E. Mentasti Senza tregua. Storia dei Comitati Comunisti per il potere operaio (1975-76), Edizioni Colibrì, Paderno Dugnano, 2011.
    3) “Amadori sembra ignorare che, ormai da quattro anni a questa parte, e anche in questi giorni, tutti i media che contano, in Italia, in Francia e adesso in Brasile, seguitano a presentare Battisti come l’uccisore materiale di Pierluigi Torregiani e il feritore del figlio Alberto. Incluso lo stesso Panorama, il settimanale su cui scrive Amadori, in un articolo di Giuliano Ferrara del 15 marzo 2004 (…). Un recente articolo dell’Unità on line (oggi eliminato per le troppe proteste), a firma Malcom Pagani, deprecava che settori “estremisti” continuino a negare che Battisti abbia ucciso direttamente Torregiani e ferito il figlio. Chi conosce la verità non può che replicare che Battisti non può avere assassinato due persone contemporaneamente, a Milano e in un paesino del Veneto, alla stessa ora…”.
    4) “Noi ci eravamo limitati a riportare un passaggio della memoria presentata dagli avvocati di Battisti alla Corte di Strasburgo. Abbiamo avuto il torto, questa volta, di non indicarlo in nota. Ma le circostanze indicate erano false? No, erano vere, e risultate in sede dibattimentale. Per questo classifichiamo la faccenda come “infame menzogna” a metà. Esistono altre nequizie che ci possano essere attribuite, nel capitolo destinato a crocefiggerci? No, il repertorio è esaurito.” La sua battaglia, cit.

 

 
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