Arturo Carlo Jemolo (Roma, 1891-1981)
di Giovanni Spadolini – In «Nuova Antologia», fasc. 2137, gennaio-marzo 1981, Le Monnier, Firenze, pp. 20-48.
1. Il testimone del tempo
Viale Mazzini 9. Un palazzo borghese di decoro fra umbertino e giolittiano. Scale larghe; stanze grandi; soffitti molto alti. Il respiro del «mondo d’ieri»; il ricordo di una civiltà fondata su forme di istintiva urbanità e di esteriore distinzione. Arturo Carlo Jemolo abita da quasi trent’anni all’ultimo piano di questo edificio, in quella Roma che una volta era dell’alta burocrazia e oggi tutto ha contaminato e confuso. Il queste stanze, senza nessun lusso ma con civile proporzione degli oggetti e una punta di ostentato «passatismo», ha atteso – con schiva riservatezza, cercando di nasconderlo il più possibile – il novantesimo compleanno scoccato il 17 gennaio 1981 (per intendersi, è nato, Jemolo, il 17 gennaio 1891, presidente del Consiglio Francesco Crispi in procinto di lasciare il posto al marchese Antonio Di Rudinì: già ministro del Tesoro, in quel gabinetto Crispi, il futuro implacabile avversario dello statista siciliano, cioè Giovanni Giolitti). «Per carità, che nessuno pensi a mandarmi auguri»: aggiunge.
Siamo alla vigilia di Natale, e solo per questo motivo Jemolo mi riceve in casa. Di norma, tutte le mattine, egli si reca nel vicino studio di via Paolucci de’ Calboli, dove mancano ormai quasi tutti i libri (ceduti a una biblioteca universitaria), dove si accumulano solo, con apparente distrazione, gli annali delle riviste specializzate di giurisprudenza, dove l’unico esemplare, e forse incompleto, delle tante opere e operette di questo straordinario maestro è confinato nella stanza della segreteria, con una punta di distacco rasentante l’automortificazione (un fondo di auto-flagellazione ha sempre caratterizzato il pensiero di Jemolo, in una linea di pessimismo non senza trasalimenti giansenisti).
Uno studio che vede ancora svolgersi, con puntigliosa diligenza, il suo lavoro di avvocato – fino a un anno fa regolarmente impegnato in Cassazione, ora piuttosto incline a riservare, o meglio a regalare soltanto pareri – alternato al lavoro dello storico, dello studioso, del giornalista grande che egli è: capace di trarre una morale dal più piccolo o malinconico episodio della cronaca, lettore avido di libri ma soprattutto scrutatore di una realtà, anche di una realtà sociale, che per lui non ha misteri, né conosce limiti.
Giornalismo. Parliamo in primo luogo della sua collaborazione alla «Stampa» e alla «Nuova Antologia», vecchia la prima di tre decenni, la seconda di sei, cui Jemolo è affezionato come a una seconda vita. Il tavolo del salotto da pranzo è ingombro di libri: scorgo l’ultimo volume della «Storia della Chiesa» diretta da Hubert Jedin che gli ha offerto lo spunto per una radiografia, in qualche punto impietosa, della Chiesa di oggi.
L’aria è claustrale; questo laico credente nella ragione (ma senza mai separarla dalla grazia) vive in un clima ovattato di sospensioni o di vibrazioni religiose. Le sedie della tavola da pranzo sembrano tratte da un convento: un cancelletto di vaga rimembranza ecclesiastica divide quella stanza dallo studio che abitualmente appartiene alla moglie, ora inferma, e dove qualche volta posa il suo lavoro (solo le pareti di quella stanza piene di libri: «ma sono – precisa Jemolo con una punta di civetteria – romanzi, libri narrativi, libri qualunque»).
La retorica dell’antiretorica: non c’è alle pareti un quadro che si colleghi alle tante battaglie civili o politiche di Jemolo, tutto è decoroso ma casuale, pitture di paesaggi si alternano a dipinti vagamente religiosi, un singolare Rosai (forse donato da qualche cliente stupito delle famose basse parcelle di Jemolo) rompe la monotonia di opere senza storia in quello che una volta si definiva il «salotto buono», tenuto in penombra o mezza penombra per non sciupare tappezzerie e vecchi mobili.
Mi parla dei suoi progetti di lavoro. Ci scambiamo opinioni, pareri. Debbo preparare una nuova edizione di Questa Repubblica, il bellissimo diario che sono riuscito a trarre da un decennio di collaborazione alla «Stampa», il decennio che va dalla contestazione del ’68 all’assassinio di Aldo Moro; egli mi ha raccolto tre cartelle spesse di articoli successivi al ’78, un centinaio nel complesso, perché io possa sceglierne nove o dieci destinati ad accrescere l’edizione, a rinfrescarla e aggiornarla (preferisce una sopraccoperta diversa, quell’immagine di Moro lo rattrista troppo, qualche mese fa ha invocato una tregua nelle polemiche retrospettive sullo statista pugliese, ha ricordato i detti tradizionali sui morti, «vive nelle opere, vive nel ricordo il cristiano»).
La memoria è prodigiosa. Frammenti di anni lontani si uniscono a squarci del tormentato presente, insondabile per entrambi. Parliamo di Buonaiuti: in una lettera inedita del gennaio 1930, che Jemolo mi fa leggere, che mi consentirà poi di pubblicare, si vede la tenaglia in due tempi che si stringe intorno allo studioso per imporgli la suprema mortificazione dell’applicazione del Concordato fresco d’inchiostro ai «sacerdoti apostati o irretiti da censura» che non potevano tenere cattedra universitaria né ricoprire impieghi pubblici: si liberasse, il cattolico sconfessato ma ancora fedele alla Chiesa, dall’abito ecclesiastico prima che la legge civile gli strappasse l’abito accademico.
Da Buonaiuti il discorso porta, per una successione singolare, a Paolo VI, un Papa che Jemolo ha molto amato e che ne è stato riamato: attingendo a quel singolare archivio, il vecchio amico mi fa vedere una lettera autografa di Papa Montini, nel giorno dell’Epifania 1971, in ricambio di augurali pensieri del destinatario. «Veramente il peso della croce si aggrava sulle deboli spalle; e, com’Ella può immaginare, la recente questione del divorzio in Italia mi ha lasciato molto afflitto e sorpreso per tante ed evidenti ragioni». Un linguaggio umano, problematico, quello che rendeva caro Paolo VI anche per i suoi infiniti perché, per i suoi laceranti dubbi (il Pontefice «sorpreso» dal divorzio!).
«Papa Wojtyla non ha dubbi»: osserva Jemolo. Il giudizio sul nuovo Pontefice è del tutto diverso. Egli ne apprezza l’attivismo, l’instancabilità, la capacità di comunicare con le folle: «tutte doti da leader politico», aggiunge. Ma si sente che nel credente Jemolo un dubbio, appena affiorante, sussiste sull’utilità di accavallare tante missioni, l’una dietro l’altra intrecciate, in questa specie di gara smisurata contro il tempo: «non è detto – aggiunge – che ogni successo spettacolare contribuisca all’accrescimento della fede».
Jemolo rievoca, con portentosa precisione, uomini e cose dell’Italia lontana e recente. Fra gli uomini di Stato del dopoguerra, forse il prediletto è Einaudi, per la sobrietà piemontese, per quella secchezza di stile, da servitore dello Stato. Rispetta De Gasperi, di cui fu critico anche severo durante gli anni del centrismo. Ha molta ammirazione per Sturzo, e in pieno ’53 lui, avversario della legge maggioritaria, difese Scelba. Non era in confidenza con Moro, alla cui memoria si inchina. Ha avuto maggiori rapporti con Andreotti, di cui segue con interesse e stima le pubblicazioni, piene di ironia ma anche di cose, sulla Roma papale; fu Andreotti a inserirlo nella delegazione della Santa Sede per la revisione del Concordato (lui, l’uomo che nel ’44 aveva auspicato la «pace religiosa» degli italiani senza corazze e usberghi concordatari) dopo che Gonella l’aveva compreso nella prima commissione di studio, di cui toccò a me pubblicare gli atti.
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