Fin dall’inizio dell’epidemia non ho trovato informazioni dettagliate sulle conseguenze cui saremmo andati incontro se si fosse lasciato che l’epidemia imperversasse senza mettere in campo misure di contenimento. Per ciò che sono riuscito a cogliere il problema più grave individuato dagli scienziati era (ed è) il collasso del sistema sanitario e l’impossibilità di curare i malati di Covid.
È apparso unanimemente scontato che l’unico approccio possibile fosse quello effettivamente messo in campo. E in effetti, la Cina e parte dell’Asia, forti dell’esperienza di aviaria (1997) e SARS (2003) hanno applicato lo stesso metodo (migliorato in efficacia grazie alle lezioni apprese durante le precedenti epidemie) rafforzando l’unanimità sull’approccio in Italia e, a seguire, negli altri stati.
Finalmente, in questi giorni sono stati pubblicati i risultati di uno studio dell’Imperial College https://www.ilsole24ore.com/art/nuov...-l-eta-ADRVDSI secondo cui i morti che avremmo avuto in Italia in mancanza di misure di contenimento del contagio sarebbero stati 235.000, i bisognosi di cure ospedaliere 4.117.000. (v. anche https://www.infodata.ilsole24ore.com...nalisi-intwig/ e https://forum.termometropolitico.it/...log&p=18586849)
Tutti i provvedimenti presi per evitare quelle morti servono per ottenere, complessivamente, anche il bene della collettività? Ciò che stiamo vivendo oggi per salvare quelle vite ci consentirà di vivere meglio domani? È lecito porsi questa domanda? Si può consentire a ognuno di noi di valutare le eventuali alternative, con totale trasparenza di informazioni su cui basarsi per farlo?
Bisogna partire da queste domande per potersi orientare. Non solo in questo preciso momento, di fronte all’epidemia, ma più in generale, in qualsiasi frangente il tempo presenti alla razza umana.
Appare scontato ai più che le istituzioni rinnovino gli sforzi per garantire il diritto alla salute, la protezione della vita ad oltranza. Appare dovuto a tutti che le organizzazioni umane rispondano ad ogni accidente i singoli o la collettività si trovino a fronteggiare. La convinzione profonda è che l’umanità debba avere sotto controllo qualsiasi evento il caso proponga: sia esso alluvione o terremoto, siccità o uragano.
Possiamo fermarci a riflettere. Quale momento migliore? molti di noi possono ora concedersi il lusso del tempo per farlo. Se un cittadino si prende una storta in corrispondenza di una buca nel marciapiede ha diritto a vedersi risarcito dall’amministrazione. Se una persona si prende una storta mentre cammina in montagna, forse ha diritto a vedersi soccorrere, ma sicuramente imputerà solo alla propria disattenzione l’incidente occorsogli. Cittadino e persona.
Il primo si muove all’interno di un ambiente artificiale, il secondo in un ambiente naturale. È questa contrapposizione il nocciolo dell’argomento.
In natura, l’evoluzione premia gli organismi viventi che sviluppano geneticamente le caratteristiche più adatte all’ambiente circostante. Quanto maggiore l’adattamento, tanto maggiore il successo della specie. L’ambiente, relativamente immutabile, “accoglie” favorevolmente la specie che “cambia sé stessa” nel modo migliore per vivere bene in quel dato ambiente.
Da circa 2,5 milioni di anni, quando è comparsa sulla Terra, la razza umana si è evoluta e ha migliorato la propria esistenza utilizzando la propria intelligenza. In minima parte per adeguare sé stessa alle caratteristiche dell’ambiente (ad es. coprendosi con indumenti per proteggersi dal freddo), in massima parte, modificando l’ambiente circostante per renderlo più adatto alle proprie caratteristiche, più confortevole. Ribaltando, in sostanza, quella che è il rapporto naturale tra ambiente e vita da quando si è sviluppata sul pianeta, circa 4,5 miliardi d’anni fa.
La religione cristiana individua lo spartiacque fra uomo e animale nella capacità di discernere, e quindi scegliere, tra bene e male. Una capacità che possiamo ricondurre all’intelligenza; la stessa che ci consente di plasmare l’ambiente secondo le nostre esigenze.
Sono d’accordo. Siamo tenuti a scegliere tra bene e male. Dobbiamo quindi capire fino a quando sia bene modificare quanto ci viene proposto dalla Natura e quando sia invece bene accettarlo, senza intervenire. Quello che separa le due opzioni è un confine labile, forse inafferrabile. Ma esiste, dobbiamo prenderne atto e agire di conseguenza; decidendo. Scegliendo.
Non possiamo continuare a testa bassa verso la modifica ad oltranza dell’ambiente, né alla difesa ad oltranza della vita. Non possiamo continuare ad agire come se non vi fosse scelta. Non possiamo, non perché vi sia un impedimento etico che vi si opponga, ma perché vi è una condizione fisica, un limite fisico che non si può oltrepassare. In entrambi i casi.
La riflessione sull’impatto degli umani sull’equilibrio ecologico del pianeta aveva ottenuto un discreto spazio prima di essere oscurato dalla diffusione dell’epidemia. La collettività stava cercando di sviluppare una presa di coscienza diffusa della necessità di mitigare il proprio impatto sull’ambiente. Necessità derivante, anche in questo caso, non tanto da una scelta etica di tipo altruistico -come potrebbe essere il rispetto per le altre forme di vita disintegrate dall’espansione umana- ma da una ragione fisica, di valore squisitamente egoistico: se continuiamo ad alterare l’ambiente sforzandoci (illudendoci?) di vivere sempre meglio, otterremo il risultato opposto. Innescheremo un processo irreversibile che porterà il pianeta ad essere sempre meno vivibile, meno accogliente, meno adatto; per la razza umana! La vita sulla Terra proseguirà comunque: ha affrontato e vinto battaglie ben più terribili di quella contro gli squilibri che generiamo noi.
Ciò che mi ha sempre stupito in seno al dibattito circa la mitigazione dell’impatto delle attività umane sull’equilibrio del pianeta è che neanche i massimalisti -quelli che sostengono le teorie della decrescita- siano in grado di applicare fino in fondo la coerenza necessaria. Al di là della possibilità di ricalcare in qualche modo la scelta delle comunità amish, che hanno scelto arbitrariamente di fermare il progresso tecnologico umano ad un punto convenzionalmente ideale, manca l’obiettività necessaria per sostenere un punto politicamente scorretto ma ineludibile. Ciò che va ridotto e invertito è la progressione numerica della razza umana.
Generare prole è un totem intoccabile, un diritto/dovere incontestabile, un dogma. L’argomento è tabù, eretico chiunque si permetta di eccepire. Questo approccio è affetto però da una debolezza di fondo. Di nuovo, non si tratta di un punto di vista etico, che consenta di scegliere nel modo ritenuto più giusto. Si tratta di un imperativo fisico, che non lascia spazio ad alternative. È esattamente come avere a disposizione un vaso e cercare di fargli contenere una quantità d’acqua maggiore della sua capacità. Non è fattibile: l’acqua di troppo andrà versata, inevitabilmente sprecata per quanto riguarda lo scopo.
Dobbiamo prendere atto o, volendo, rassegnarci, al fatto che la Terra è come quel vaso: è uno spazio di dimensioni limitate, può contenere confortevolmente un certo numero di umani, non oltre.
Parallelamente dobbiamo accettare il fatto di essere a termine. La quantità di vita a disposizione di ognuno di noi è una quantità finita: non indefinita, meno che mai tendente all’infinito. Come ogni organismo vivente siamo programmati per morire. La morte consente alla collettività di dare spazio alle nuove generazioni per il rinnovamento, adattamento, miglioramento della specie. Quando riusciamo ad accettare profondamente il fatto che la nostra vita abbia naturalmente un limite temporale possiamo dedurre che anche la vecchiaia sia necessariamente limitata nel tempo. La vecchiaia è una malattia a prognosi inesorabilmente infausta.
Quando le condizioni di salute -fisica/mentale- di un anziano si sono aggravate al punto da pregiudicare la dignità della persona, mantenerlo in vita è accanimento terapeutico. Affolliamo le “case di riposo” di anziani (spesso sedati per ridurre l’impegno del personale addetto e i relativi costi) lasciati a marcire lentamente, giorno dopo giorno, perdendo la propria indipendenza, la propria libertà, il senso stesso del vivere. La nostra civiltà è impregnata di ipocrisia bigotta: la vita è sacra e va difesa ad oltranza, anche quando, sotto ogni aspetto, non è più vita. Credo che questo atteggiamento affondi nel più ottuso, cieco istinto di sopravvivenza. Un istinto stravolto però nella sua essenza dall’intelligenza umana, che cerca di prolungare l’esistenza oltre ogni ragionevole limite, oltre ogni limite naturale. La civiltà avrà finalmente fatto un gran passo in avanti quando tutti avranno la possibilità di porre fine alla propria vita con la stessa leggerezza e tranquillità con cui si esce da un cinema quando il film ci ha stufati. L’Olanda che ha dimostrato di essere da sempre molto “avanti” -matrimoni fra persone dello stesso genere, uso ricreativo e terapeutico di cannabis, eutanasia; solo per citare i temi più noti- lo sta dimostrando anche sotto quest’aspetto.
Le conseguenze negative dell’accanimento terapeutico non danneggiano però solo l’anziano e la qualità della vita che gli viene imposto di vivere. Danneggiano la collettività alla quale non viene neppure concessa la facoltà di valutare le alternative possibili. Le risorse che vengono spese per tenere in vita gli anziani di cui sopra, non sono più disponibili per le persone che ancora dispongono della vita nella sua pienezza. Risorse spese per anziani che non vedranno comunque migliorare la qualità della propria esistenza a livelli accettabili, non saranno più disponibili per consentire di vivere pienamente persone che avrebbero reali possibilità di trarne giovamento. Non solo: forzare l’esistenza ad allungarsi porta con sé l’innalzamento della vita media e con questo, matematicamente, quello dell’età pensionabile. Risultato: persone che soffrono di tutti quei simpatici acciacchi che, superati i 60 anni, mediamente, tutti noi siamo destinati a sopportare in quantità progressivamente crescente, si trovano a farlo sotto il carico dell’impegno lavorativo.
La gestione dell’epidemia in Italia è un esempio estremo e illuminante di quanto ho cercato di esprimere finora.
Lo Stato mette in campo uno sforzo smisurato, facendo a gara per rigorosità delle misure avviate ed entità di importi stanziati con le istanze delle opposizioni, per opporsi ad una malattia che uccide (“letalita”) per il 34,5% persone tra 70 e 79 anni, per il 39,7% persone tra 80 e 89, per il 9,4% oltre i 90 (totale 83,6%). https://lab24.ilsole24ore.com/coronavirus/#box_8b
Dei 235.000 morti stimati dallo studio dell’Imperial College si avrebbe allora che circa 78.000 morti sarebbero persone oltre i 70 anni, 94.000 oltre gli 80, 24.000 oltre i 90.
Quali saranno però, per il futuro di tutti noi, le conseguenze derivanti dalle scelte fatte per contenere il contagio?
Le regole imposte congelano il Paese intero, la sua economia, i redditi delle imprese e quindi dei dipendenti. Con il rischio che parecchie attività non riescano più a riaprire dopo la fine delle politiche di restrizione delle libertà, che processi produttivi complessi ed intere filiere si fermino per tempi che, semplicemente, non ci possiamo permettere. Con la garanzia che il debito pubblico e il deficit schizzeranno alle stelle con tutte le conseguenze che ormai siamo quasi tutti in grado di prevedere. Con la conseguenza che i servizi sanitari, già al limite dell’accettabile per tempi di attesa e qualità delle prestazioni erogate, -anche nelle regioni gestite al meglio- vengono ulteriormente peggiorati per tutti. Quanti di noi finiranno in miseria. L’elenco delle probabili contropartite potrebbe continuare.
Tra il 1918 e il 1920 la pandemia di influenza spagnola https://it.wikipedia.org/wiki/Influenza_spagnola si è portata via diverse decine di milioni di persone dopo averne infettati circa 500 milioni sul pianeta. A quell’epoca ancora non c’era stato il boom demografico: quei numeri pesavano quindi, in percentuale, molto più di oggi. Allora nessuno si è sognato di fermare il mondo per evitare il diffondersi del contagio. Il mondo è andato avanti, l’epidemia è finita e noi, oggi, siamo qui a testimoniarlo. Eppure l’enfasi sui numeri dei morti data all’unanimità da politica e sistema mediatico è di tutt’altro segno: cento, duecentomila morti vengono fatti passare come un’ecatombe. L’OMS stima che ogni anno ci siano nel mondo tra gli 8 e 9 milioni di morti causati dall’inquinamento https://www.simaonlus.it/?p=1890 . La Pianura Padana è tra le aree più inquinate del pianeta. Nessuno si sogna però di fermare il mondo, o anche solo le fabbriche della Brianza, per questa ragione. È un po' come la storia dei morti sulle strade. Se i media cominciassero a martellarci quotidianamente con l’informazione che nell’ultima settimana abbiamo perso 70 (settanta!) amati concittadini per le strade italiane, forse diventerebbe facile convincere molti di noi ad abbandonare l’auto. Eppure la media settimanale è proprio quella! https://www.istat.it/it/archivio/232366 Non ho mai condiviso le denunce di “pensiero unico” ma quello che abbiamo sotto gli occhi ha molti punti in comune con quel concetto.
Forse, almeno collettivamente presi, siamo diventati più stupidi di quanto non fossimo nel 1920.
Con i mezzi attualmente disponibili ogni situazione può essere valutata e proiettata verso il futuro con l’uso di modelli matematici, che consentono di prevedere le varie possibilità in funzione delle opzioni disponibili. Possiamo cioè valutare ex ante gli scenari possibili.
Mi chiedo allora se, visto che siamo in democrazia e le scelte dovrebbero avvenire in trasparenza, non sarebbe il caso che lo Stato -o l’OMS- pubblicassero almeno ex post uno studio serio del rapporto costi-benefici sui massicci interventi messi in atto. Quali sarebbero state le conseguenze del lasciar correre il contagio in attesa che venisse messo a disposizione il vaccino; quanti morti e malati gravi. Quanto di meno avremmo speso in misure straordinarie di contenimento. Quante persone in meno si sarebbero trovate senza lavoro. Quanto personale sanitario in meno sarebbe stato infettato o ucciso. Quale effetto complessivo sul benessere della collettività.
Ognuno di noi è un’alchimia più o meno riuscita, sempre affascinante, ma davvero mai indispensabile. Non possiamo dare più importanza all’individuo che alla collettività. Se non sarà dimostrato chiaramente che i provvedimenti presi si ispirano a questo principio, in mancanza cioè di una spiegazione esaustiva di ragioni oggettive per i provvedimenti presi, non si potrà evitare di fare supposizioni: follia collettiva; abile mossa per cogliere al volo l’occasione dell’epidemia e consolidare il potere costituito, qualunque esso sia: quello che sta rappresentando la parte di salvatore della Patria; una prova generale per il Next Big One (un “agente caldo” di 4’ livello) tanto temuto dai virologi.
O forse è l’ira degli dei, che hanno deciso di costringerci a darci tutti, finalmente, una regolata.
E allora, forse, va bene così