I trent’anni d’insegnamento universitario di Spadolini
Giovanni Spadolini e Leo Valiani
di Leo Valiani – In «Nuova Antologia», fasc. 2137, gennaio-marzo 1981, Le Monnier, Firenze, pp. 195-214.
Leo Valiani ha voluto che fosse la «Nuova Antologia», cui è particolarmente affezionato, a pubblicare il testo, successivamente rivisto e ampliato, del discorso su La storia contemporanea nell’opera di Giovanni Spadolini, pronunciato il 28 novembre 1980 nella facoltà di scienze politiche dell’Università di Firenze, in occasione dei trent’anni di insegnamento universitario nel nostro direttore, dopo i saluti del preside Lotti, del rettore dell’Ateneo fiorentino Scaramuzzi, del rettore dell’Università Bocconi di Milano Gasperini. In quell’occasione fu presentato il volume Spadolini storico. Bibliografia degli scritti di storia moderna e contemporanea. 1948-1980, curato da Luigi Lotti e introdotto da Arturo Carlo Jemolo, per i tipi di Le Monnier.
La facoltà «Cesare Alfieri» ha avuto fra i suoi laureandi Sandro Pertini e Carlo Rosselli, esempi prestigiosi, nella generazione precedente, dell’unità degli studi severi e della lotta politica coraggiosa. Di quell’esempio abbiamo ancora bisogno in tempi diversamente calamitosi ma non più facili.
Spadolini rientra nella più coerente tradizione dell’unità degli studi e dell’azione politica, della cultura e dell’impegno civile.
L’opera di Spadolini storico è etico-politica nel significato più alto del termine: dagli scritti giovanili sul movimento repubblicano e radicale all’opera fondamentale sull’opposizione cattolica; fino ai volumi più recenti sull’Italia della ragione e sull’Italia dei laici.
La storiografia sui partiti politici fu iniziata in Italia da uno dei più insigni allievi – e successivamente professori – dell’Università di Firenze: il grande storico che Gaetano Salvemini fu. Mi riferisco, com’è ovvio, al suo giovanile scritto sui partiti politici milanesi nell’800.
I partiti politici veri e propri si formarono in Italia più tardi che nelle nazioni libere dell’Occidente. Erano già passati dei decenni dall’Unità e si lamentava ancora che nel parlamento italiano, pur nella contrapposizione di destra e sinistra, così bene lumeggiata più tardi da Spadolini nel suo lavoro sui partiti politici in Firenze capitale, invece di partiti ben distinti e saldamente organizzati, si avessero solo consorterie, schieramenti facenti capo a singole personalità e aperti a trasformismi.
Si attribuiva, anzi, all’assenza di partiti vigorosi e disciplinati la causa prima della corruttela che scoppiò (non senza l’influsso deleterio della finanza allegra, ossia dell’inflazione di allora) al principio degli anni ’90. Questo ricordo ci fa sorridere amaramente, oggi che la corruttela dilagante ha le sue radici nell’onnipotenza della partitocrazia, ma ci esorta altresì a non perdersi d’animo. La storia è dialettica altresì nel senso che fenomeni in apparenza opposti possono avere effetti analoghi (o viceversa) e che per l’appunto, nel bene come nel male, ad ogni ascesa segue una decadenza e ad ogni decadenza può seguire una nuova ascesa.
Col nuovo secolo, dalla crisi che era morale, prima ancora che economica e sociale, si uscì anche per la crescita, elettorale, politica, organizzativa, dei nuovi partiti – il radicale, il repubblicano, il socialista – la cui storiografia (mi riferisco soprattutto al radicale e al repubblicano) deve moltissimo proprio al nostro odierno festeggiato, il prof. Giovanni Spadolini.
La storia del partito socialista l’avrebbe scritta, con rigore (dimostrato sin dalla sua recensione polemica dell’opera di uno dei pionieri dell’argomento, il pure benemerito Robert Michels) e profonda cultura uno degli allievi di Salvemini, il fiorentino Nello Rosselli, se mani criminali non l’avessero rapito nel 1937 agli studi.
Uno degli amici di Nello Rosselli, Carlo Morandi, professore in questa Università (Spadolini ha preso il suo posto, quando la morte prematura a fine marzo 1950 lo allontanò dalla cattedra) fu così il primo vero cultore scientifico della storia dei partiti politici italiani. Ma anch’egli fece solo in tempo a delinearne la trama iniziale.
Negli ultimi trentacinque anni la storiografia dei partiti è talmente cresciuta, in Italia come all’estero, perlomeno quantitativamente – per effetto, altresì, del peso che i partiti politici hanno assunto, non solo nella dimensione politica, ma anche in quella economica e sociale – che da tempo assistiamo già ad una reazione di segno opposto: ad una polemica, cioè, talvolta acuta, il più delle volte gratuita, inconcludente o fantasiosa, contro l’importanza attribuita ai partiti medesimi e alla loro storia.
Polemica inconcludente, poiché non esiste una scala obiettiva di gerarchie, di priorità nel determinare l’importanza di questa o quella articolazione storica. Dipende, sempre, dagli interessi di pensiero genuino, non strumentalizzato a fini estranei alla conoscenza storica effettiva dello studioso. Marx e Tocqueville cercano nella storia risposte a quesiti diversi e danno perciò importanza diversa a svolgimenti diversamente studiati. Diversi per tutto il rimanente, Croce e Lucien Febvre affermano entrambi che contano i problemi che vivono nella mente dello storico ed i modi con cui vengono delucidati.
Torniamo al nostro tema. All’età di appena 23 anni, nel 1948, all’inizio cioè di quello che si può chiamare il rientro nella normalità italiana – dopo il tumulto creatore, ma ben perciò passionale del triennio della liberazione – Spadolini poteva già vantare, con rara precoce erudizione e maturità, tre libri che si rileggono oggi stesso – questa è almeno la conclusione che io ho tratto dalla loro rilettura – con grande profitto: Il ’48, Realtà e leggenda di una rivoluzione; Lotta sociale in Italia; Ritratto dell’Italia moderna.
Il primo (li elenco nell’ordine in cui li ho riletti) copre pochi anni (più in ogni modo del solo anno che il titolo indica). Il secondo parecchi decenni. Il terzo due secoli. Il loro vero problema è il medesimo: la rivoluzione che ci fu (e in quali limiti fu) o non ci fu in Italia. «La storia d’una rivoluzione non è tanto storia dei fatti, quanto delle idee». Questo lo scrisse Vincenzo Cuoco, in un aureo libro di disamina delle vicende che avevano portato i suoi compagni, i giacobini del 1799, al patibolo, in un saggio, cioè, che attraverso la rivoluzione napoletana, importante per tutti gli spiriti liberi d’Italia, ma non perciò da abbandonare all’agiografia, individuava il problema d’una paese in cui solo un’esigua minoranza illuminata, resa debole da insufficienti contatti con la realtà delle strutture profonde e delle masse del popolo, voleva una rivoluzione che fosse di libertà e di progresso. Cuoco conosceva i fatti, ma doveva documentare l’astrattezza e la conseguente immaturità delle idee rivoluzionarie stesse.
Questo era, ed è, il modo di imparare dalle rivoluzioni, specie se sconfitte, ma anche se vittoriose, sol che conducenti a risultati del tutto diversi da quelli sperati.
Giuseppe Mazzini fece tesoro, come poté, del monito di Cuoco. Gli riuscì di rendere nazionale, italiano, il movimento rivoluzionario che i giacobini avevano, date le circostanze e la stessa loro cultura, importato in misura troppo larga da Oltralpe. Non gli riuscì di renderlo così popolare come avrebbe voluto. La rivoluzione del 1848, constata Spadolini – che non poteva conoscere gli scritti carcerari ancora inediti di Gramsci ma conosceva per letture dirette tutti gli scrittori risorgimentali, se non erro, Giuseppe Ferrari in particolare, ma anche Giuseppe Montanelli, del quale si occuperà minutamente più tardi e Carlo Pisacane ed Oriani, Missiroli, Gobetti per gli interpreti e critici – fallì perché dalle città non poté estendersi alle campagne e perché la volontà d’indipendenza prevalse successivamente su tutto, a cominciare dal desiderio, che pure ci fu, di democrazia ed autogoverno.
Il fallimento era solo parziale. Fu, dice lapidariamente Spadolini, l’ultima rivoluzione provinciale italiana e la prima europea di italiani. Cominciò col Primato di Gioberti, che europeo diventò solo in esilio e, allora, col Rinnovamento lo diventò di nuovo utopisticamente, culminò con la repubblica romana di Mazzini – che idealmente mise termine al multisecolare Stato pontificio e consacrò Mazzini come capo del partito democratico europeo – e sboccò nell’incipiente egemonia di Cavour che a Torino guardava a Londra e a Parigi. Fu un fallimento che precedeva la vittoria: la vittoria di una rivoluzione che, in quanto tale, era tutta borghese, perché solo la borghesia poteva fare dell’Italia una nazione libera, capace di progredire. Il proletariato, se già si presentava sulla scena, si presentava – nel ’48 – in termini anacronistici. Su quest’ultima affermazione di Spadolini si può ovviamente discutere e la successiva storiografia ne ha discusso molto, fin troppo a lungo. Certo è che la speranza d’una futura rivoluzione davvero popolare, sottolinea Spadolini, fu coltivata soprattutto, anche se non esclusivamente da Mazzini.
Le prime organizzazioni operaie decise ad occuparsi di politica democratica, e non solo di interessi corporativi come quelle dei moderati, le dirigeranno i mazziniani, per volere dell’Apostolo stesso. Ma prima che esse sorgano e si consolidino e diano luogo alle consociazioni da cui scaturirà il partito repubblicano in varie regioni, e da cui trarrà seguito di massa, in Lombardia, il partito radicale e prima che dalle loro scissioni a sinistra nascano la Federazione italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori e sulle orme e rovine di questa il futuro partito socialista, e insomma prima che si giunga per questa strade ai primi partiti moderni dell’Italia contemporanea, ci vorranno dei decenni. Di essi, così come di quei partiti, Spadolini è stato fra i primi storici.
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