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    Predefinito La storiografia dei partiti nell’età contemporanea (1981)

    I trent’anni d’insegnamento universitario di Spadolini


    Giovanni Spadolini e Leo Valiani



    di Leo Valiani – In «Nuova Antologia», fasc. 2137, gennaio-marzo 1981, Le Monnier, Firenze, pp. 195-214.

    Leo Valiani ha voluto che fosse la «Nuova Antologia», cui è particolarmente affezionato, a pubblicare il testo, successivamente rivisto e ampliato, del discorso su La storia contemporanea nell’opera di Giovanni Spadolini, pronunciato il 28 novembre 1980 nella facoltà di scienze politiche dell’Università di Firenze, in occasione dei trent’anni di insegnamento universitario nel nostro direttore, dopo i saluti del preside Lotti, del rettore dell’Ateneo fiorentino Scaramuzzi, del rettore dell’Università Bocconi di Milano Gasperini. In quell’occasione fu presentato il volume Spadolini storico. Bibliografia degli scritti di storia moderna e contemporanea. 1948-1980, curato da Luigi Lotti e introdotto da Arturo Carlo Jemolo, per i tipi di Le Monnier.


    La facoltà «Cesare Alfieri» ha avuto fra i suoi laureandi Sandro Pertini e Carlo Rosselli, esempi prestigiosi, nella generazione precedente, dell’unità degli studi severi e della lotta politica coraggiosa. Di quell’esempio abbiamo ancora bisogno in tempi diversamente calamitosi ma non più facili.
    Spadolini rientra nella più coerente tradizione dell’unità degli studi e dell’azione politica, della cultura e dell’impegno civile.
    L’opera di Spadolini storico è etico-politica nel significato più alto del termine: dagli scritti giovanili sul movimento repubblicano e radicale all’opera fondamentale sull’opposizione cattolica; fino ai volumi più recenti sull’Italia della ragione e sull’Italia dei laici.
    La storiografia sui partiti politici fu iniziata in Italia da uno dei più insigni allievi – e successivamente professori – dell’Università di Firenze: il grande storico che Gaetano Salvemini fu. Mi riferisco, com’è ovvio, al suo giovanile scritto sui partiti politici milanesi nell’800.
    I partiti politici veri e propri si formarono in Italia più tardi che nelle nazioni libere dell’Occidente. Erano già passati dei decenni dall’Unità e si lamentava ancora che nel parlamento italiano, pur nella contrapposizione di destra e sinistra, così bene lumeggiata più tardi da Spadolini nel suo lavoro sui partiti politici in Firenze capitale, invece di partiti ben distinti e saldamente organizzati, si avessero solo consorterie, schieramenti facenti capo a singole personalità e aperti a trasformismi.
    Si attribuiva, anzi, all’assenza di partiti vigorosi e disciplinati la causa prima della corruttela che scoppiò (non senza l’influsso deleterio della finanza allegra, ossia dell’inflazione di allora) al principio degli anni ’90. Questo ricordo ci fa sorridere amaramente, oggi che la corruttela dilagante ha le sue radici nell’onnipotenza della partitocrazia, ma ci esorta altresì a non perdersi d’animo. La storia è dialettica altresì nel senso che fenomeni in apparenza opposti possono avere effetti analoghi (o viceversa) e che per l’appunto, nel bene come nel male, ad ogni ascesa segue una decadenza e ad ogni decadenza può seguire una nuova ascesa.
    Col nuovo secolo, dalla crisi che era morale, prima ancora che economica e sociale, si uscì anche per la crescita, elettorale, politica, organizzativa, dei nuovi partiti – il radicale, il repubblicano, il socialista – la cui storiografia (mi riferisco soprattutto al radicale e al repubblicano) deve moltissimo proprio al nostro odierno festeggiato, il prof. Giovanni Spadolini.
    La storia del partito socialista l’avrebbe scritta, con rigore (dimostrato sin dalla sua recensione polemica dell’opera di uno dei pionieri dell’argomento, il pure benemerito Robert Michels) e profonda cultura uno degli allievi di Salvemini, il fiorentino Nello Rosselli, se mani criminali non l’avessero rapito nel 1937 agli studi.
    Uno degli amici di Nello Rosselli, Carlo Morandi, professore in questa Università (Spadolini ha preso il suo posto, quando la morte prematura a fine marzo 1950 lo allontanò dalla cattedra) fu così il primo vero cultore scientifico della storia dei partiti politici italiani. Ma anch’egli fece solo in tempo a delinearne la trama iniziale.
    Negli ultimi trentacinque anni la storiografia dei partiti è talmente cresciuta, in Italia come all’estero, perlomeno quantitativamente – per effetto, altresì, del peso che i partiti politici hanno assunto, non solo nella dimensione politica, ma anche in quella economica e sociale – che da tempo assistiamo già ad una reazione di segno opposto: ad una polemica, cioè, talvolta acuta, il più delle volte gratuita, inconcludente o fantasiosa, contro l’importanza attribuita ai partiti medesimi e alla loro storia.
    Polemica inconcludente, poiché non esiste una scala obiettiva di gerarchie, di priorità nel determinare l’importanza di questa o quella articolazione storica. Dipende, sempre, dagli interessi di pensiero genuino, non strumentalizzato a fini estranei alla conoscenza storica effettiva dello studioso. Marx e Tocqueville cercano nella storia risposte a quesiti diversi e danno perciò importanza diversa a svolgimenti diversamente studiati. Diversi per tutto il rimanente, Croce e Lucien Febvre affermano entrambi che contano i problemi che vivono nella mente dello storico ed i modi con cui vengono delucidati.
    Torniamo al nostro tema. All’età di appena 23 anni, nel 1948, all’inizio cioè di quello che si può chiamare il rientro nella normalità italiana – dopo il tumulto creatore, ma ben perciò passionale del triennio della liberazione – Spadolini poteva già vantare, con rara precoce erudizione e maturità, tre libri che si rileggono oggi stesso – questa è almeno la conclusione che io ho tratto dalla loro rilettura – con grande profitto: Il ’48, Realtà e leggenda di una rivoluzione; Lotta sociale in Italia; Ritratto dell’Italia moderna.
    Il primo (li elenco nell’ordine in cui li ho riletti) copre pochi anni (più in ogni modo del solo anno che il titolo indica). Il secondo parecchi decenni. Il terzo due secoli. Il loro vero problema è il medesimo: la rivoluzione che ci fu (e in quali limiti fu) o non ci fu in Italia. «La storia d’una rivoluzione non è tanto storia dei fatti, quanto delle idee». Questo lo scrisse Vincenzo Cuoco, in un aureo libro di disamina delle vicende che avevano portato i suoi compagni, i giacobini del 1799, al patibolo, in un saggio, cioè, che attraverso la rivoluzione napoletana, importante per tutti gli spiriti liberi d’Italia, ma non perciò da abbandonare all’agiografia, individuava il problema d’una paese in cui solo un’esigua minoranza illuminata, resa debole da insufficienti contatti con la realtà delle strutture profonde e delle masse del popolo, voleva una rivoluzione che fosse di libertà e di progresso. Cuoco conosceva i fatti, ma doveva documentare l’astrattezza e la conseguente immaturità delle idee rivoluzionarie stesse.
    Questo era, ed è, il modo di imparare dalle rivoluzioni, specie se sconfitte, ma anche se vittoriose, sol che conducenti a risultati del tutto diversi da quelli sperati.
    Giuseppe Mazzini fece tesoro, come poté, del monito di Cuoco. Gli riuscì di rendere nazionale, italiano, il movimento rivoluzionario che i giacobini avevano, date le circostanze e la stessa loro cultura, importato in misura troppo larga da Oltralpe. Non gli riuscì di renderlo così popolare come avrebbe voluto. La rivoluzione del 1848, constata Spadolini – che non poteva conoscere gli scritti carcerari ancora inediti di Gramsci ma conosceva per letture dirette tutti gli scrittori risorgimentali, se non erro, Giuseppe Ferrari in particolare, ma anche Giuseppe Montanelli, del quale si occuperà minutamente più tardi e Carlo Pisacane ed Oriani, Missiroli, Gobetti per gli interpreti e critici – fallì perché dalle città non poté estendersi alle campagne e perché la volontà d’indipendenza prevalse successivamente su tutto, a cominciare dal desiderio, che pure ci fu, di democrazia ed autogoverno.
    Il fallimento era solo parziale. Fu, dice lapidariamente Spadolini, l’ultima rivoluzione provinciale italiana e la prima europea di italiani. Cominciò col Primato di Gioberti, che europeo diventò solo in esilio e, allora, col Rinnovamento lo diventò di nuovo utopisticamente, culminò con la repubblica romana di Mazzini – che idealmente mise termine al multisecolare Stato pontificio e consacrò Mazzini come capo del partito democratico europeo – e sboccò nell’incipiente egemonia di Cavour che a Torino guardava a Londra e a Parigi. Fu un fallimento che precedeva la vittoria: la vittoria di una rivoluzione che, in quanto tale, era tutta borghese, perché solo la borghesia poteva fare dell’Italia una nazione libera, capace di progredire. Il proletariato, se già si presentava sulla scena, si presentava – nel ’48 – in termini anacronistici. Su quest’ultima affermazione di Spadolini si può ovviamente discutere e la successiva storiografia ne ha discusso molto, fin troppo a lungo. Certo è che la speranza d’una futura rivoluzione davvero popolare, sottolinea Spadolini, fu coltivata soprattutto, anche se non esclusivamente da Mazzini.
    Le prime organizzazioni operaie decise ad occuparsi di politica democratica, e non solo di interessi corporativi come quelle dei moderati, le dirigeranno i mazziniani, per volere dell’Apostolo stesso. Ma prima che esse sorgano e si consolidino e diano luogo alle consociazioni da cui scaturirà il partito repubblicano in varie regioni, e da cui trarrà seguito di massa, in Lombardia, il partito radicale e prima che dalle loro scissioni a sinistra nascano la Federazione italiana dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori e sulle orme e rovine di questa il futuro partito socialista, e insomma prima che si giunga per questa strade ai primi partiti moderni dell’Italia contemporanea, ci vorranno dei decenni. Di essi, così come di quei partiti, Spadolini è stato fra i primi storici.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: La storiografia dei partiti nell’età contemporanea (1981)

    Storia sociale degli italiani, non storia degli italiani da un punto di vista sociale, che di fatto sarebbe poi, per forza, aprioristico, ideologizzante: questo è il proponimento di Spadolini nel 1948. Tale suo punto di vista anticipa gli sviluppi ulteriori di tanta storiografia italiana ed internazionale, ma con le opportune cautele che altri non sempre han saputo avere. «Il sociale è» - scrive il giovane Spadolini - «una parte eminente e talora preminente della società umana e in particolare di quella moderna» ma non si debbono sottovalutare «gli aspetti politici, religiosi, culturali e morali».
    L’Italia si è formata dopo la rivoluzione industriale occidentale, sol che prima d’industrializzarsi essa stessa, la piccola borghesia istruita, pre-industriale, ha guidato le prime lotte sociali del proletariato, man mano che esso – in parte – si emancipava dalla dominazione spirituale dei clericali.
    (Quando invece rimaneva devoto ai preti, si inquadrava nelle organizzazioni cattoliche, di cui Spadolini sarà robusto storico, ancor più guidate da una piccola borghesia istruita, sol che clericale). Certo, aggiungiamo noi, ricerche più recenti ci han fatto vedere che già molto prima dell’apparizione degli organizzatori operai formati da lavoratori manuali autodidatti, che creano i sindacati verso la fine del secolo, nei sussulti spontanei delle masse immiserite sono attivi degli uomini, sovente anonimi, che fan parte di queste masse stesse. Ma se ciò completa il quadro tracciato da Spadolini (e prima di lui, con l’ausilio perfino di una statistica del 1903, da Michels) non toglie che i primi dirigenti politici del movimento operaio socialista fossero in Italia effettivamente di origine piccolo-borghese.
    Non meritavano gli ingiusti sarcasmi di Marx, in vena di polemica anti-bakuniniana, ma quel che Spadolini osserva, sulle orme dei suoi predecessori, di Missiroli, non meno che di Salvemini, è esatto. Anche per la loro estrazione piccolo-borghese, non sufficientemente radicata nel dinamismo industriale appena incipiente, non seppero decidersi in tempo utile fra il riformismo, volto a dare allo Stato una base popolare ed irrobustirlo in tal modo e la rivoluzione volta ad abbatterlo e sostituirlo. I riformisti contribuirono, finché appoggiavano Giolitti, a conservare lo Stato quale era, non seppero renderlo più dinamico, rinnovandone le strutture. I massimalisti, senza volerlo, ma fatalmente, lo spinsero nelle braccia dei fascisti.
    I sindacalisti rivoluzionari (rammentiamo il fine e penetrante ritratto di Sorel che Spadolini disegnerà poco dopo, così come il suo saggio sullo sciopero generale del 1904) avevano cercato una via d’uscita, trasferendo l’iniziativa alle avanguardie delle masse, ma non potevano avere successo durevole, nelle condizioni italiane. Dopo la fine del fascismo, il partito comunista ha sostituito, per gran parte, il partito socialista come partito di masse operaie e contadine. L’ha sostituito in virtù delle proprie lotte e in virtù del mito sovietico, oggi in irrimediabilmente crisi. Il partito socialista, per risorgere in forze, fino a diventare il maggior partito italiano dovrebbe ereditare le funzioni del liberalismo democratico prefascista, di quello di Giolitti insomma. Saprà e potrà farlo? Spadolini se lo chiede nel 1948. Tutti ce lo chiediamo ancora, sol che un po’ più scettici di allora, nel 1980.
    Potrà farlo da solo? O in alleanza col partito socialdemocratico e – punto da sottolineare, data l’altezza intellettuale e morale dei repubblicani, dal Risorgimento ad Ugo La Malfa – col partito repubblicano? E in quali rapporti col partito comunista?
    Domande alle quali lo storico non può rispondere. Se mai, il politico Spadolini potrebbe rispondere e infatti non manca di rispondere di volta in volta.
    Si diceva di Giolitti. Spadolini non è stato il primo a rivalutarlo. Alcuni dei suoi maestri, Croce, Salvatorelli, Nino Valeri, l’avevano già fatto. Ma Spadolini l’ha rivalutato su due versanti: su quello rivolto ai socialisti, come quei tre maestri e su quello rivolto ai cattolici. Questa seconda rivalutazione fu più difficile della prima, ché ai socialisti Giolitti si rivolgeva sempre apertamente, ai cattolici soprattutto implicitamente.
    La questione era ed è complessa, per motivi che tutta l’opera storica e saggistica di Spadolini concorre a precisare. Il partito dei cattolici (non partito cattolico, come Sturzo chiarì al cardinale Gasparri, in circostanze acutamente riesaminate da Spadolini sulla base di documenti da lui scoperti) scaturì dal filone dei cattolici intransigenti e non dei clerico-moderati, disposti (a differenze dei primi) ad allearsi con le forze liberali, su limitati obiettivi comuni e agganciabili, dunque, senza grandi difficoltà, anche da Giolitti, come accadde infatti già nel 1904, dopo il ritorno del partito socialista all’opposizione.
    Su Giovanni Spadolini e la storiografia del Movimento cattolico in Italia non posso che rinviare al conciso e nitido scritto d’un suo collaboratore (fors’anche allievo perlomeno indiretto), il precocemente scomparso Fernando Manzotti. Spadolini parte, come altri studiosi di questo dopoguerra, inevitabilmente impressionati dall’espansione trionfale della democrazia cristiana, dall’apprezzamento positivo dell’intransigentismo, fase necessaria del passaggio dalla protesta alla riscossa. Prima dei suoi colleghi in questi studi, Spadolini si accorge, però, della profondità della svolta del 1898-99. Dopo quella repressione e quelle riorganizzazioni, cade, per tutti i militanti politici e sociali del laicato cattolico, la pregiudiziale della Questione romana.
    I politici – che sono soprattutto i moderati, dato il sopraggiungere della sconfessione papale della prima democrazia cristiana – preparano inavvertitamente il patto Gentiloni e con ciò l’ingresso determinante dell’elettorato cattolico nella vita parlamentare italiana. I militanti sociali organizzano con crescente successo le masse popolari, contadine e anche operaie. Una parte notevole della stessa borghesia, cattolica da sempre per fede religiosa, lo diventa anche politicamente. Don Sturzo riunificherà i vari filoni attraverso uno svolgimento che Spadolini adombra e segue perspicacemente, illustrandone i pionieri e i realizzatori.
    Il grande successo dell’Opposizione cattolica, tante volte ristampata, e continuamente aggiornata dall’autore dopo la prima edizione del 1954, consacrò Spadolini come uno dei maggiori cultori italiani di storia dei partiti politici nell’età contemporanea. Storia dei partiti, e storia dell’età in cui agiscono, per Spadolini fanno tutt’uno. Si può fare anche storia analitica dei partiti politici, visti attraverso le loro strutture organizzative, i loro risultati elettorali, la composizione sociale dei loro elettori, iscritti e militanti, le loro finanze.
    Non occorre dire come Spadolini, direttore di grandi quotidiani politici ed ora segretario politico d’un partito di alte tradizioni e di peso politico più incisivo delle sue dimensioni, conosca da vicino tutta questa problematica. La sua, però, è storiografia etico-politica, nel miglior significato del termine. Per dirla con le sue stesse parole, egli crede nella «continua incidenza e influenza della vita spirituale nella vita politica» nei periodi in cui le nazioni salgono e constata la loro temporanea o durevole decadenza quando la vita politica non riceve o non è pronta a ricevere il soffio della spiritualità e, insomma, di una cultura autentica, non strumentalizzata.
    È, se si vuole, una impostazione che risente di Croce, ma, nel mentre Spadolini riconosce la grandezza del «magistero» storico e morale di Croce, non pochi degli argomenti che affronta, da studioso, sono proprio quelli trascurati da Croce: il problema sociale nel Risorgimento, i partiti di estrema sinistra radicale e repubblicano del post-Risorgimento, i cattolici intransigenti, la scienza politica contemporanea e via dicendo.
    Nella sua prefazione a Il mondo di Giolitti Spadolini riconosce di esser partito da posizioni orianesche-gobettiane, tanto acute (dico io) quanto unilaterali. La passione, anche quella storiografica, erompe sempre con foga unilaterale. Io non trascurerei neppure l’insegnamento di Gentile, che aveva contato già per Gobetti e perfino per Gramsci. Poi, ricorda Spadolini, venne la prolungata riflessione sulla lezione di Morandi, Valeri, Salvatorelli, Jemolo e Croce. Ci fu anche l’esperienza vissuta dell’azione ricostruttrice, e altresì dei limiti del solo uomo di Stato che, dopo Giolitti, possa essere paragonato a lui: De Gasperi. Infine, lo aggiungo ancora, venne la meditazione, sovente espressa sulle colonne della «Nuova Antologia», tanto cara a Spadolini e anche a me, sulla scuola democratica di questo secolo – Salvemini, Giovanni Amendola, Ugo La Malfa – che rinnova, differenziandosene, quella ottocentesca, con la cui ricostruzione storica Spadolini aveva esordito.
    Giolitti è rivalutato da Spadolini, ma non idealizzato. I suoi limiti e anche le sue tare restano (tolti gli eccessi polemici) quelli denunciati, da opposti punti di vista, da Gaetano Salvemini e da Luigi Albertini, quest’ultimo sempre presente non solo perché giornalista d’eccezione, grande direttore del «Corriere della Sera» che Spadolini pure dirigerà poi, ma per la sua discendenza dalla destra storica, con tanto interesse studiata – da Ricasoli in avanti – da Spadolini. Anche la critica di Salvatorelli, pure giolittiano, all’ex-presidente del Consiglio, di non aver pensato, cioè, a creare un saldo partito democratico-liberale, è considerata valida da Spadolini.
    Rimane il fatto, constata Spadolini, che Giolitti osò uscire da quella che tutta la restante classe dirigente liberale considerava come la fortezza – l’Italia costituzionale – assediata dai due sovversivismi, il rosso e il nero, e tentare la conciliazione politica (non quella ideologica e men che meno quella concordataria) prima con gli uni e poi con gli altri.
    La coraggiosa uscita dalla fortezza assediata rese possibile il contributo giolittiano al rigoglio economico italiano, all’ampliamento dei diritti di libertà, politici e sindacali, alla legislazione sociale, alla democratizzazione che precedette e seguì la concessione del suffragio universale.
    Spadolini rende qui esplicita giustizia a chi, come Turati (e Treves), comprese il significato propulsore del tentativo giolittiano e cercò di assecondarlo. Il socialismo turatiano nasceva «dall’esigenza di risolvere i problemi insoluti dell’unità, dal bisogno di portare a termine le esigenze insoddisfatte delle masse nel loro rapporto con lo Stato, nel loro legame con la legalità democratica». Turati prevede, nota Spadolini, che la guerra europea avrebbe spaccato quel rapporto, con catastrofiche conseguenze, che gli interventisti democratici, nella purezza passionale del loro patriottismo, non avevano previsto. In realtà, li aveva già spaccati la guerra libica, intrapresa ancora da Giolitti, che portò immediatamente alla sconfitta di Turati nel partito socialista. Fu torto di Giolitti non averlo subito compreso.
    Fu merito, però, e non torto di Giolitti non rassegnarsi a questa sconfitta e cercare da parte cattolica quel consenso di masse che non poteva più ottenere dai socialisti. Non sarà, invece, suo merito, ma suo torto – sempre che di torti e meriti si possa parlare nella storia che, per dirla con Croce, non è mai giustiziera – chiedere lo stesso consenso ai fascisti (che già facevano breccia in certi strati delle masse) quando il consenso riterrà di non poterlo ottenere saldamente e durevolmente dal partito di Don Sturzo. La forza di De Gasperi sarà d’aver imparato la lezione racchiusa nei successi e negli insuccessi di Giolitti. Quanto alle tare e ai limiti di De Gasperi, conclude Spadolini, «le generazioni successive non sono riuscite non dico a colmare ma neanche a ridurre» questi e quelle.
    Conclusione amara, scritta al principio del 1980, nella raccolta su L’Italia dei laici, da uno storico e politico che è stato estimatore di Moro e continua la battaglia di La Malfa.
    Torna, così, lo Spadolini precoce collaboratore, fin dal primo fascicolo del febbraio ’49, del «Mondo» di Mario Pannunzio, il grande giornalista che, con Ernesto Rossi ed altri flagellò fra i primi (ma su qualche punto era già stato preceduto dal partito d’azione) i mali di questa nostra Repubblica.

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    Predefinito Re: La storiografia dei partiti nell’età contemporanea (1981)

    Ho ricordato testé l’Italia dei laici. Ma vorrei dedicare quest’ultima parte della mia relazione allo Spadolini storico e memorialista insieme in quella linea che va da Cultura e politica all’Italia della ragione, che si concluderà appunto con l’Italia del laici.
    La lettura degli scritti che Giovanni Spadolini ha dedicato alle massime figure del mondo laico italiano è rinfrescante. L’altezza intellettuale e morale di Luigi Albertini, Francesco Ruffini, Luigi Einaudi, Gaetano Salvemini, Piero Gobetti, Luigi Salvatorelli, Carlo Sforza, Mario Pannunzio, Eugenio Montale, Ugo La Malfa, e delle altre personalità della cultura liberale e della politica democratica, che Spadolini ritrae con mano felice, pur nelle diversità che corrono fra di loro, esercita ancora un fascino sicuro.
    Quegli uomini dovettero affrontare un tempo estremamente duro nel primo dopoguerra e, se non si spensero al suo esordio, o durante il suo corso, nel lungo ventennio della dittatura. Le difficoltà misero ciascuno davanti all’obbligo di dar la prova della fedeltà alle proprie idee. È oltremodo significativo il confronto che Spadolini fa fra due insigni giuristi: Francesco Scaduto e Francesco Ruffini. Il primo fu il maestro della nuova corrente giurisdizionalista, che intendeva definire il diritto ecclesiastico come un ramo del diritto pubblico interno e lo differenziava rigorosamente, anzi lo contrapponeva al diritto canonico, espressione della Chiesa, nei cui confronti lo Stato doveva difendere le sue prerogative. Il secondo continuava la linea di Cavour, in un’etica della tolleranza, della composizione di termini diversi od opposti nello spirito della libertà religiosa e della religione della libertà, che per lui, prima ancora che per il suo grande amico Benedetto Croce, non poteva non dirsi cristiana. Quando si giunse, nel 1929, ai Patti lateranensi, col Concordato, Scaduto, a malincuore, ma non tanto, votò a favore, Ruffini contro.
    Certo, gli uomini cambiano. Se non cambiassero, lo storico non avrebbe nulla da indagare. Nel profilo di Luigi Albertini, steso da Corrado Alvaro nel ’24 e che Spadolini ha riprodotto sulla «Nuova Antologia», lo scrittore, dopo essere stato nella redazione del «Corriere della Sera» per due anni, traccia con spirito critico la traiettoria che il giornale percorse sotto la guida del suo severo direttore. Egli ne fece il quotidiano nazionale della borghesia italiana, ma non condivise le paure di molta borghesia. Fu sempre alla testa, mai alla coda, e soprattutto non al rimorchio dei violenti, dei prepotenti. Dopo l’assassinio di Matteotti, un socialista col quale i liberali s’erano spesso trovati in contrasto, Albertini, per dirla con Alvaro, pronunciò «le parole che si dicono ai popoli nei momenti più gravi».
    Giornalista oltre che studioso di storia, Spadolini riferisce con legittimo compiacimento la confessione di Salvatorelli, che considerava il giornalismo indissolubilmente legato alle ricerche di storia contemporanea e quella di Einaudi. Questi, salito al Quirinale, gli confidò che, posto di fronte alla scelta fra la presidenza della Repubblica e la direzione del «Corriere», forse avrebbe optato per la seconda, a patto di avere tutti i poteri di cui Albertini disponeva. Il maggior giornalista del secondo dopoguerra, Mario Pannunzio, non riuscì, però, a far vivere a lungo il quotidiano «Risorgimento liberale», che aveva pur diretto brillantemente. Diede la piena misura di se stesso nel settimanale «Il Mondo».
    Dal passato Spadolini giunge rapidamente al presente, da Salvemini a La Malfa, attraverso il comune sforzo di elaborare e rinsaldare una posizione che non fosse né comunista, né democristiana. Perché la «terza forza», alla quale vanno le simpatie di Spadolini, come del resto le mie, non ha preso tuttavia corpo? Perché lo stesso vecchio Salvemini, campione di laicità intransigente come pochi altri, preferì aspettare il rinsavimento dei socialisti, che aveva tanto sferzato, dei quali aveva sovente disperato, piuttosto che aderire al partito d’azione, nel quale militavano tutti i suoi discepoli e appoggiare, in seguito, il partito radicale oppure il partito repubblicano? Perché La Malfa medesimo non ha ritenuto opportuno varare un’alleanza laica?
    Mi sembra che la risposta sia embrionalmente anticipata nella conclusione dell’articolo, da Spadolini opportunamente riportato in Cultura e politica, che Gobetti scrisse per l’ultimo numero, uscito in data 8 novembre 1925, di «Rivoluzione liberale», la cui soppressione era già stata decisa dal governo fascista. L’industria moderna, ammoniva Gobetti, «non si può sviluppare senza determinare un contemporaneo sviluppo delle forze del proletariato, e della sua capacità di difesa e di conquista. Questa è la chiave di tutta la storia europea futura».
    Quali che fossero i propositi di Gobetti, la lezione delle cose ha dimostrato che se si produce un urto frontale fra borghesia e proletariato, una «terza forza» non trova sufficiente spazio. Il suo avvenire è legato non certo alla compressione autoritaria, sibbene al superamento democratico di quello scontro.
    E soffermiamoci un momento sull’Italia della ragione: un bel volume in cui i punti di riferimento costanti sono, come in Cultura e politica, le grandi figure della democrazia laica.
    Lo sforzo di Spadolini è teso verso la ricerca d’una sintesi fra gli insegnamenti, spesso divergenti, dei suoi maestri di idealità politiche. Lo studioso della storia del movimento cattolico che Spadolini è, non dimentica, naturalmente, i democratici cristiani, ben presenti anche nell’Italia della ragione, a cominciare da Alcide De Gasperi. La battuta più attuale, che Spadolini registra, è anzi di De Gasperi. «Non voglio essere – gli disse il vecchio statista – Kerenskij, ma neanche Dollfuss».
    Per non finire come Kerenskij, travolto dall’insurrezione bolscevica, il capo della Democrazia cristiana estromise i comunisti dal governo, nel 1947. Per non diventare Dollfuss, lo sciagurato cancelliere austriaco che nel 1934 aveva sciolto d’autorità il partito socialdemocratico, facendo cannoneggiare i caseggiati operai costruiti dalla municipalità di Vienna, De Gasperi respinse le pressioni che si esercitavano su di lui affinché aprisse a destra e mettesse fuori legge il partito comunista.
    Perché, oltre trent’anni dopo, l’Italia, governata ancor sempre dal partito democratico cristiano, rischia molto più che mai di finire come la Russia di Kerenskij, se non come l’Austria di Dollfuss? A differenza dell’impero zarista, non ci troviamo, oggi, nel mezzo d’una guerra perduta e, a differenza degli austriaci, di 40 o 45 anni fa, non dobbiamo affrontare un problema nazionale angoscioso come quello di lasciarsi annettere o meno da una grande Germania.
    Spadolini risale al primo dopoguerra. Egli ha visto negli archivi, e ristampa il testo delle intercettazioni telefoniche, ordinate dal ministero dell’Interno nel 1919-20, sulle conversazioni tra il direttore del «Corriere della Sera», Luigi Albertini, e il corrispondente da Roma del suo giornale, Giovanni Amendola.
    Capo del governo era Francesco Saverio Nitti. Spadolini documenta l’inizio, nel 1894, dei rapporti d’amicizia fra Nitti, professore di scienza delle finanze che ha lanciato da poco la rivista «Riforma sociale», e l’esordiente Albertini. Più tardi Nitti diventerà ministro in uno dei governi di Giolitti, che Albertini combatterà, giudicandolo troppo a sinistra.
    Nel ’19 Albertini stesso approverà, tuttavia, l’andata di Nitti, avversario come lui del nazionalismo imperialistico, alla presidenza del Consiglio. Amendola, eletto alla Camera in una lista vicina alle formazioni nittiane, parteggia ancora più risolutamente per Nitti.
    Nella primavera del ’20 Amendola e Albertini devono, però, constatare che il governo di Nitti è debole, impreparato di fronte alle violenza di piazza e agli scioperi nei servizi pubblici e di fronte alla sedizione militare nazionalistica rappresentata da D’Annunzio. Il governo più democratico che l’Italia abbia mai avuto naufraga sotto gli opposti attacchi dell’estrema sinistra e dell’estrema destra. Albertini, che gli è sempre stato avversario, deve invocare il ritorno del vecchio Giolitti. Questi rimetterà ordine, ma quando sulla scena pubblica avrà già fatto irruzione una nuova forza di disordine, il fascismo, di cui sia Giolitti, sia Albertini (ma non Amendola) sottovaluteranno inizialmente la pericolosità.
    Il dissidio, politico e personale, fra Nitti e Giolitti, Nitti e Bonomi, Giolitti e Don Sturzo, insieme alla riluttanza dei socialisti ad assumersi le loro responsabilità, dissolverà la democrazia davanti all’assalto fascista.
    Fra il centrismo degasperiano e il centro-sinistra Spadolini rintraccia un legame, incarnato da Saragat e La Malfa, ma anche dalla volontà di De Gasperi di tenere la porta socchiusa, non nei confronti di Togliatti, come vuole una recente apologetica dei presunti antecedenti del «compromesso storico», sibbene verso Nenni. Come mai il centro-sinistra è fallito, dopo aver destato tante speranze? Anche in questo caso le cause sono molteplici. Spadolini condivide giustamente l’analisi delle carenze di politica economica e degli errori di condotta sindacale che valse a La Malfa la denominazione di «Cassandra».
    Il colpo di grazia, conclude Spadolini, lo ha dato la persistenza senza limiti delle agitazioni e dei tumulti scoppiati nel 1968, proprio quando il partito socialista, incautamente, si disimpegnava dal governo. La contestazione fu un fenomeno internazionale, ma in altri paesi, anche là dove, come in Francia, coi moti di maggio di quell’anno, si manifestò con maggiore ampiezza e potenza, durò incomparabilmente di meno. In Italia dura, senza interruzioni, da dieci anni. È un «maggio troppo lungo» osserva Spadolini. Mentre il paese è «malgovernato», o «non governato addirittura», lo «spontaneismo», con le sue violenze, disgrega di nuovo la democrazia.
    Rimane la domanda che Giorgio Amendola, in una polemica che Spadolini riproduce, gli ha posto. Per qual motivo la democrazia laica non ha saputo esercitare una influenza adeguata, pur avendo preveduto alcuni dei mali che ci affliggono? I laici contano ancora, e non solo nei libri di storia, replica Spadolini. Per contare davvero, devono organizzarsi meglio.

    (...)
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    Predefinito Re: La storiografia dei partiti nell’età contemporanea (1981)

    L’Italia dei laici: è l’intera problematica della laicità italiana al centro dell’opera, che raccoglie scritti suggestivi non meno che suggestivi documenti inediti sconosciuti o quasi.
    Il più importante di essi è costituito dal diario che Guido De Ruggiero, l’insigne filosofo e storico del liberalismo italiano, vergò nel 1944, quando era ministro per la Pubblica Istruzione nel governo presieduto da Ivanoe Bonomi dopo la liberazione di Roma.
    De Ruggiero rappresentava il partito d’azione, noto per la sua intransigenza nei confronti della monarchia e di tutto il lascito del fascismo. Come risulta anche da queste pagine, De Ruggiero non era affatto pervaso dal furore giacobino che i nemici del partito d’azione gli attribuivano. Voleva defascistizzare la scuola, ma solo là dove essa era stata inquinata dalla dittatura. Gli premeva di ammodernarla, senza toglierle il carattere formativo e selettivo che deve avere nell’interesse, in primo luogo, dei meno abbienti, per i quali il sapere è lo strumento fondamentale dell’emancipazione. I ricchi possono studiare all’estero o ricorrere a precettori, addetti culturali e via dicendo. I poveri non possono contare che sulla propria intelligenza e sulla propria cultura.
    Su come l’Italia uscì dall’isolamento in cui la guerra fascista, conclusasi con una disastrosa disfatta, l’aveva precipitata, sono di notevole interesse le annotazioni nell’Italia dei laici del diario inedito del duca Tommaso Gallarati Scotti, ambasciatore a Madrid, e poi a Londra, dal 1945 al ’51. Coi governi dei paesi vincitori l’Italia vinta dovette trattare in condizioni difficilissime. Nell’opinione pubblica delle nazioni democratiche l’antifascismo italiano si era invece fatto conoscere favorevolmente, sia per i suoi sacrifici e le sue lotte, culminate nella Resistenza, sia per il prestigio conquistato da alcuni intellettuali fuorusciti. Spiccavano fra di loro Carlo Sforza, Francesco Saverio Nitti, Don Luigi Sturzo, Guglielmo Ferrero, Gaetano Salvemini, Ignazio Silone. Di quest’ultimi due Spadolini riporta degli scritti significativi: una lettera che Salvemini gli scrisse nel 1948, a proposito dei suoi studi di storia del Risorgimento e una testimonianza in cui Silone ripercorre il proprio itinerario spirituale.
    Sono molte le figure della democrazia italiana, da Giuseppe Mazzini a Pietro Nenni e Ugo La Malfa, i due mazziniani per temperamento, per il resto tanto diversi fra di loro, eppure uniti in numerose battaglie per la repubblica e per la giustizia sociale, che Spadolini esamina nell’arco dei suoi saggi. Da Felice Cavallotti, che fece ancora in tempo a prendere le armi sotto Garibaldi e fondò poi il radicalismo politico, ancora repubblicano, ma abbastanza duttile per accettare il metodo parlamentare e da Giustino Fortunato, che sfatò la retorica risorgimentale per impostare nei suoi termini realistici la questione del Meridione, Spadolini passa, gradatamente, alla democrazia liberale dei Giovanni Giolitti, Giovanni Amendola, Luigi Salvatorelli e alla generazione, che ci è contemporanea, dei Mario Pannunzio, Aldo Garosci, Carlo Casalegno, Alberto Ronchey, Norberto Bobbio.
    Non tutti i laici erano convinti della maturità della democrazia. Luigi Albertini polemizzò per decenni con quelli che considerava gli eccessi del democraticismo giolittiano. Nell’opposizione irriducibile alla dittatura fascista egli precedette, tuttavia, lo stesso Giolitti. Anche Benedetto Croce debuttò, in politica, da liberale non persuaso della bontà della democrazia egualitaria. Rivalutò l’esperimento democratico da storico e da antifascista.
    In Arturo Carlo Jemolo troviamo la conciliazione di democrazia laica e spirito religioso. In Nino Valeri quella fra la volontà rivoluzionaria di Piero Gobetti, l’assertore d’una rivoluzione liberale e il riformismo di Giolitti e di Filippo Turati. Carlo Rosselli si caratterizza per la sua ricerca della sintesi fra liberalismo e socialismo.
    Non furono tentativi eclettici. Le aristocrazie possono chiudersi in torri di avorio. La democrazia è tale perché ha le porte aperte a tutti. In un sistema democratico i partiti possono alternarsi al governo, ma devon tener conto delle grandi masse degli elettori. Devono far coesistere, perciò, interessi sociali diversi. Dal momento che credeva nella proletarizzazione della società, Marx era coerente passando dalla democrazia alla prospettiva della dittatura di classe. La proletarizzazione da lui prevista cessò, peraltro, di verificarsi qualche decennio dopo la sua morte.
    I ceti medi, lungi dallo scomparire, hanno ricominciato a moltiplicarsi. La loro egemonia sulle classi operaie e contadine non poteva, viceversa, durare in eterno. Potenzialmente, l’introduzione del suffragio universale, attuata da Giolitti nel 1913, faceva sì che l’Italia non potesse più essere governata da un liberalismo borghese. Salivano sulla scena il movimento operaio socialista e l’interclassismo cattolico.
    Giolitti se ne rendeva conto, illudendosi però di poter conservare la direzione politica nelle mani del personale liberal-democratico, con concessioni fatte ora all’una ora all’altra delle due crescenti grosse forze di massa. Allorché non vi riuscì più, credette che l’incipiente fascismo, che combatté più tardi, quando ne scorse l’evoluzione dittatoriale, potesse costringere i socialisti ed i popolari cattolici ad essere ragionevoli.
    Luigi Salvatorelli, l’acuto studioso di storia e coltissimo giornalista che Spadolini predilige, osservò che a Giolitti, al quale era stato vicino, ma con spirito critico, mancava il senso moderno del partito. Giovanni Amendola, con la collaborazione di Salvatorelli, che ne rinnoverà l’eredità al tempo della fondazione del partito d’azione, e di tanti altri intellettuali di alta levatura, cercò di fondare un robusto partito di democrazia laica, imperniato sui ceti medi. Lo sforzo avrebbe potuto riuscire nel 1924, poiché il movimento operaio, duramente battuto dallo squadrismo fascista, era disposto ad accordare ad un governo democratico-liberale il sostegno che nel 1920 gli aveva stoltamente rifiutato.
    Il realtà, non riuscì perché il fascismo aveva perduto solo per un attimo, all’indomani dell’assassinio di Matteotti, il consenso dei ceti medi e di quell’attimo fuggente i partiti democratici non osarono, o non seppero, approfittare. Nel 1925 Mussolini aveva già conquistato la grande maggioranza delle classi medie e aveva cominciato a far breccia anche fra gli operai. L’appoggio dei contadini, nell’Italia settentrionale e centrale, non gli era mai venuto meno.
    Da Amendola a Salvatorelli. Chi cercò di porre il problema nel secondo dopoguerra fu un amico sia di Giolitti sia di Giovanni Amendola, Luigi Salvatorelli (e non a caso Spadolini ricerca i mediatori laici come Giolitti).
    Luigi Salvatorelli, direttore della «Stampa» di Torino, aveva vinto ancora giovanissimo la cattedra di Storia del cristianesimo, in une delle grandi università italiane; e poi l’aveva lasciata perché rifiutava il cumulo, era l’uomo del pieno tempo, per assumere la condirezione della «Stampa» di Torino, giornale giolittiano per eccellenza. Cacciato dal fascismo dalla condirezione della «Stampa», ed estromesso, come Albertini dal «Corriere della Sera», caduto il fascismo, Salvatorelli avrebbe voluto riavere la cattedra, che non gli fu data. E così si rimise a fare il giornalista. Grande giornalista e naturalmente congeniale a Spadolini, perché grande storico, quindi giornalista modello come lui.
    Salvatorelli notava appunto i limiti di Giolitti in questa mancata costituzione di un partito democratico liberale, che fosse un vero, grosso partito: il tentativo di Amendola poteva riuscire? Con alcuni colleghi dell’Italia meridionale Amendola era presente nelle elezioni del 1924, stroncato l’anno dopo dalla dittatura totalitaria. Quel tentativo lo riprendeva nel 1945 Salvatorelli, chiedendo la costituzione del partito della democrazia. Non riuscì neanche per lui per quanto vicino ad un uomo della direzione del partito d’azione, Ugo La Malfa, che era il capo politico per eccellenza. Aveva persino il carattere carismatico che Salvatorelli, troppo uomo di studi, non aveva. Perché non riuscì? Perché tentò – non poteva fare diversamente, ma lo tentò – di fare il grande partito di democrazia laica attraverso la fusione degli elementi che a quella democrazia laica aspiravano, ma erano divisi in vari partiti: troppi.
    Io ebbi una polemica con lui, devo dire che in quella polemica Salvatorelli aveva ragione, direi al 95 per cento, mentre io avevo ragione sul 5 per cento. Cioè prevedevo che questo modo di costruire il partito dall’alto non sarebbe riuscito, i partiti vanno, sventuratamente o fortunatamente, costruiti dal basso.
    Bisogna scendere fra le masse del popolo, La Malfa in quel momento era con Salvatorelli. Entrato nel partito repubblicano, capì immediatamente che il pregio di quel partito era quello di essere un piccolo partito di massa, che si era costruito sia pure solo in alcune regioni d’Italia, dal basso: nella Romagna, in Lunigiana, nelle Marche e in tanti altri posti, aveva il suo piccolo consistente seguito di masse.
    Questo era un dato che Salvatorelli non valutava appieno, perché lui portava nel partito la tradizione di Giovanni Amendola, e gli uomini che avevano collaborato con Amendola sono uomini di grandissimo valore, Mario Berlinguer, Piero Calamandrei, Guido De Ruggiero, Alberto Cianca, Roberto De Ruggiero, il cugino giurista, Nello Rosselli, ucciso col fratello Carlo (non poteva naturalmente militare nel partito d’azione ma era di quell’ordine di idee), Salvatorelli stesso, Silvio Trentin, Mario Vinciguerra. Altri venivano dal partito repubblicano, come Dino Roberto, altri ancora da formazioni vicine ad Amendola come Bauer e Parri. Vedeva questi uomini, non valutava appieno che anche il successo relativo effimero, in quel periodo del partito d’azione, era dato dal fatto che aveva anche un filone dal basso non proprio, se volete, dalle masse popolari; ma dalla massa della gioventù universitaria, il filone liberal-socialista che si era generato proprio dal basso, senza grandi maestri.
    Niente di quel socialismo liberale di Rosselli era conosciuto dai giovani, - me lo raccontava Calogero, la persona più matura di quel movimento – ma così si diffuse questa idea che siccome il fascismo aveva negato il liberalismo e socialismo, bisognava fonderli per essere antifascisti e questi erano giovani venuti dalle organizzazioni universitarie fasciste, ed avevano scoperto, da soli, l’oppressività ed il provincialismo culturali della dittatura.
    Il partito repubblicano, questo elemento di costruzione dal basso in realtà l’aveva sempre avuto, ma non bastava e non basta. Tuttavia La Malfa ha sempre esitato, e, questo spiega tante sue polemiche con quelli che gli chiedevano di formare immediatamente un’alleanza laica, come sulla carta sarebbe logico, alla vigilia di qualsiasi elezione. Egli rispondeva sempre: «Non vorrei perdere in questa alleanza il legame popolare, sia pure di sottili strati di massa che il partito repubblicano ha accumulato durante un secolo di sua storia»: ed è quello che Spadolini nel libro ci racconta.
    Ecco dunque il punto: come si fa ad unificare le forze della democrazia liberale e laica che possano essere mediatrici fra il mondo operaio e socialisti, il mondo cattolico ma mediatrici robuste, perché i mediatori che non hanno la forza non vengono presi in considerazione (e Spadolini non lo dimentica mai).
    Si parlava prima degli Stati Uniti, nella situazione mondiale, gli europei si propongono come mediatori: ma allora devono essere forti, altrimenti non vengono presi in considerazione. Ma anche in politica interna non vengono presi in considerazione. Quindi come si fa ad acquistare questa forza organizzata, fondendosi uomini di concezione affine ma senza sacrificare quel legame, quelle radici con alcuni strati popolari che possono avere: è il problema che rende difficile la terza forza.
    Tuttavia, il problema in qualche modo è stato risolto, non so come, dai protagonisti dell’Italia dei laici ed è il tema che domina l’impegno civile e politico di Giovanni Spadolini. Dico che dobbiamo operare. Pensiero ed azione nel Risorgimento è il titolo, di ispirazione mazziniana, di un libro di Salvatorelli, uno dei più belli, quello di maggior diffusione alla vigilia della caduta del fascismo, edito presso Einaudi, e che circolò pubblicamente.
    Mi ricordo che tornato in Italia (partecipai alla resistenza nell’ottobre del ’43 dall’esilio), mi diedero subito questo libro, me lo diede un’altra figura di questo volume, Mario Vinciguerra (uscito da molti anni di carcere, lui liberale monarchico, convertitosi al partito d’azione, anzi aveva coniato lui il nome del partito d’azione), dicendomi: «ecco il nostro programma» (Purtroppo quel programma era solo una sintesi storica del Risorgimento, pensiero ed azione dopo il Risorgimento, pensiero ed azione dopo la caduta del fascismo, questo Salvatorelli non lo poteva scrivere nel 1940-1942, e oggi potremmo scriverlo in questi trentacinque anni, e credo varrebbe la pena che lo si scrivesse). Questi trentacinque anni ci permettono già un esame storico. Possiamo dare alcune cose. Io metterei, se avessi il tempo di scrivere, al centro che mentre la società ha fatto grandi passi in avanti in questi anni, lo Stato, che volevamo rafforzare passando dalla monarchia alla Repubblica, negli ultimi tempi si è indebolito. Ecco, la dialettica di questi trentacinque anni. Grandi progressi sociali, ma pericoloso, starei per dire pernicioso, indebolire questo Stato.
    Il futuro non lo so, però mi pare che il viatico di Spadolini sia: meditando ed agendo. Questo è il viatico che Spadolini ci dà, meditando ed agendo, da scrittore e politico insieme. E in questo senso agire non possiamo, ma pensare sì. È l’invito che ci nasce dall’Italia dei laici che si presenta nella veste suggestiva, e anche nel contenuto suggestivo e anticipatore.

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    Predefinito Re: La storiografia dei partiti nell’età contemporanea (1981)

    Con l’avvento della Repubblica, nel 1946, le divisioni fra liberali e democratici laici si attenuavano, ma non scomparivano. Si accresceva, comunque, la necessità della collaborazione col movimento operaio, che non si rassegnava più all’altrui egemonia. La democrazia laica non aveva, nei sindacati, quelle radici che, oltre ai comunisti e ai socialisti, la democrazia cristiana medesima possedeva. Questo problema travagliò Ugo La Malfa e spiega buona parte delle sue prese di posizione politiche e sociali. È un problema tuttora insoluto. Ne dipende l’avvenire non solo dei laici, bensì di tutto lo svolgimento democratico italiano.
    A proposito di Moro e La Malfa. Mi tornano in mente certe pagine appassionate di Spadolini, raccolte nel suo Diario di un anno di vita italiana, marzo 1978-marzo 1979, quasi tutte anticipate sulla «Nuova Antologia». Trattare o non trattare per Moro con le BR? Con l’obiettività che lo distingue, Spadolini riconosce che la decisione risolutiva venne dal partito al quale, in considerazione degli angosciosi e drammatici appelli che Moro, dalla sua mortale prigione, gli rivolgeva, era più difficile prenderla. Toccò alla democrazia cristiana, che aveva anche allora la direzione del governo, assumersi le supreme responsabilità. Quella volta ebbe il coraggio di assumersele, nonostante il dolore che i suoi dirigenti non potevano non sentire per la tragedia di Moro e la consapevolezza che non potevano non avere di come il luttuoso epilogo sarebbe stato sfruttato dai più cinici fra i loro avversari.
    Spadolini conosceva Moro da lunga data e, prima da direttore di quotidiani, poi da senatore, e da ministro nell’ultimo suo governo, lo vide sovente. Il ritratto che ne fa è assai affettuoso, ma del tutto credibile. Moro aveva la lungimiranza dell’autentico uomo di Stato, benché, aggiungo io, non avesse tutta l’energia spietata e le attitudini amministrative che in tempi così difficili sarebbero state indispensabili.
    Aveva in mente un disegno politico che corrispondeva all’evoluzione in atto nella società italiana. Non era il compromesso storico, che scartava, pur ammettendo la possibilità di un governo di solidarietà nazionale in caso di estrema (ovviamente non desiderata) emergenza. Caldeggiava, come disse nel discorso che il 2 dicembre 1974, riprendendo le redini del ministero, pronunciò in parlamento (e che Spadolini ha fatto bene a riprodurre) l’attento e costruttivo confronto con le proposte e gli emendamenti del partito comunista, ancora schierato all’opposizione.
    Questa strategia dell’attenzione non gli impediva di difendere i propri convincimenti. In polemica anche coi comunisti, chiedeva, purtroppo invano, nello stesso discorso, «nuovi strumenti legislativi» nei confronti della criminalità politica e comune. Sin dal 1968-69, come Spadolini testimonia, Moro aveva espresso la sua stima a chi denunciava, inascoltato, la crescita pericolosa delle violenze organizzate di estrema sinistra, accanto a quelle di estrema destra. Lo smantellamento precipitoso dei servizi segreti, effettuato senza la loro immediata ricostituzione, fu deplorato da Moro.
    La Malfa, vice-presidente del Consiglio nel governo che Moro presiedette dalla fine del ’74 al principio del ’76, è colto da Spadolini nel suo strenuo sforzo di evitare la bancarotta finanziaria dell’Italia e di restituire al paese le condizioni del rigoglio, insensatamente sperperate, negli anni precedenti, con anacronistici ideologismi, malamente rinverditi di contestazione giovanile, con rivendicazioni sindacali eccessive, col dilagare della spesa pubblica improduttiva. Lo chiamarono Cassandra, ma i fatti hanno confermato le sue pessimistiche previsioni.
    I partiti di sinistra ed i sindacati, che hanno respinto la proposta di La Malfa di combattere l’inflazione con una politica dei redditi, dovrebbero rimproverare a se stessi se la programmazione è rimasta sulla carta e gli investimenti, specie nel Meridione, in parte sono venuti meno, in parte sono naufragati su insopportabili gonfiamenti dei costi.
    L’inflazione, in cui i debitori agevolati riponevano le loro speranze, li ha delusi, com’era prevedibile. Si è sviluppata l’economica sommersa, per i motivi percepiti da La Malfa. Il capitalismo, ben più che un’ideologia sistematica, è uno strumento economico, che può essere usato da chiunque sappia usarlo: così da imprenditori inizialmente minuscoli, venuti dalla gavetta. Avrebbero potuto servirsene anche i programmatori, nell’interesse della collettività nazionale. La Malfa svolgeva, ed ammodernava, in proposito, le intuizioni del presidente Roosevelt, alla cui opera aveva guardato già negli anni ’30.
    De Gasperi e La Malfa, Moro e La Malfa: il meglio della democrazia cristiana ed il meglio della laicità. È un’intesa che Spadolini ha costantemente propugnato. Quale avvenire essa abbia, non può dirlo che lo studioso di storia.
    Una cosa è certa: i mali della Repubblica sono gravi. Il ritorno non è mai il ripristino, per definizione impossibile, del passato, inteso come occasioni che furono. Furono e, se non vennero colte, non esistono più o non tal quali. I mali non risanati continuano ad aggravarsi e le terapie diventano molto più difficili di quelle che un tempo sarebbero bastate. Nuove e diverse occasioni possono, però, sorgere. La vita è perenne lotta, come tutti gli autori cari a Spadolini, da Croce ed Einaudi, da Salvemini a Gobetti, non si sono stancati di ripetere.
    «Il fascismo – ricorda quasi di passaggio Spadolini – fu – come Gobetti affermava - «l’esplosione della volontà intransigente di alcune minoranze irregolari di contro alla volontà transigente e accomodante delle maggioranze parlamentari» intimamente divise; fu altresì, come Giolitti ammoniva, «il trionfo della piazza su Montecitorio» bizantina e partitocratica.
    Ma non sempre le crisi si risolvono in catastrofi. La crisi del trasformismo – fenomeno dapprima inevitabile, dato che la scomunica vaticana dello Stato unitario e la situazione economico-sociale dell’Italia impedivano la nascita d’un grande partito conservatore e d’un grande partito riformatore – fu superata, come s’è detto, dopo le burrasche di fine secolo, coi progressi dell’età giolittiana prebellica.
    La crisi post-bellica fu superata, purtroppo, col fascismo. Non ci è dato sapere come sarà superata quella odierna, ma non dobbiamo dare per perduta la partita prima che lo sia. Questo è il senso dell’attuale azione politica di Spadolini.
    Le nobili personalità, fortunate o sfortunate che fossero, dell’Italia dei laici – dei quali Spadolini traccia tanti suggestivi profili – ci confermano che, nella buona come nella cattiva sorte, è sempre esistita la lamalfiana «altra Italia». Essa ci invita, ribadisce Spadolini, da storico oltre che da politico, «a ragionare con la nostra testa, e non piegare mai ai miti dell’ora». E se mi chiedeste quali sono, attualmente, i miti ai quali non dobbiamo piegarci, direi che sono quelli che hanno indebolito, e quasi distrutto, l’autorità dello Stato, proprio quando esso era diventano democratico.
    La storia contemporanea ha questo senso: incessante esame di coscienza per comprendere quel che dei valori dei nostri padri vive ancora in noi e renderci conto se e come possiamo tramandarli – non quali riti da osservare e riverire, bensì quali stimoli critici – ai nostri figli e ai figli dei nostri figli.

    Leo Valiani
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