di Giovanni Spadolini – In «Nuova Antologia», fasc. 2133, gennaio-marzo 1980, Le Monnier, Firenze, pp. 29-59.
1. Garosci fra storia e politica
La generazione che aveva sì e no vent’anni nel 1945 si imbatté nel nome di Aldo Garosci per la prima volta con l’uscita della Vita di Carlo Rosselli, un’opera in due volumi che stava fra la memorialistica e la storiografia, fra la testimonianza del combattente e l’inquadramento dello storico. Editore: una testata che quasi nessuno ricorda, sullo sfondo della Firenze da pochi mesi liberata ma con qualche orgoglio e ambizioni nazionali che trascendevano le rive dell’Arno, che abbracciavano Roma e Milano, in uno sforzo di solidarietà collettiva che negli stessi mesi si rispecchiava nella rivista di Calamandrei, «Il Ponte». «Edizioni U»: una sigla insieme misteriosa e stimolante alimentata da Dino Gentili ma animata e lanciata da Carlo Ludovico Ragghianti, presidente del comitato toscano di liberazione e grande promotore e suscitatore di cultura, con scarse o almeno alterne fortune: fino al finale ripiegamento sotto l’ombrellone della vecchia casa editrice Vallecchi, in quel lontano ’45 in situazione commissariale per le implicazioni di corresponsabilità col precedente regime.
Ramo, e frammento più tardo della Vallecchi stessa: ma fuori dalla testata, pur gloriosa, nella quale le origini codignolane e gentiliane prima-maniera si sfumavano e dissolvevano in atti di più stretta cooperazione culturale col fascismo al suo acme. La collezione, promossa e diretta dallo stesso Garosci, si chiamava «giustizia e libertà», e il futuro storico del partito d’azione dovrà riconsiderarla tutta, nelle opere realizzate e anche in quelle solo programmate.
Si era aperta con La catena di Emilio Lussu; si sarebbe imposta all’attenzione di tutto il paese con la ristampa discreta, quasi dimessa, del Socialismo liberale di Carlo Rosselli. Copertine bianche, di un rigore e di una castità più vicini alla Le Monnier di una volta che alla Vallecchi più tardiva (oppure evocanti il vecchio Attilio Vallecchi delle prime edizioni nitide, quasi spoglie della «Voce»): in mezzo due righe rosse arieggianti un fregio architettonico, ma contenuto e senza enfasi.
Prevalentemente saggi politici; ma non tutti politici. Un classico sconosciuto alla impigrita cultura italiana, uscita dai campi di serra del fascismo autarchico, come la Storia della critica d’arte di Lionello Venturi, sarebbe apparso in questa collana, tanto effimera e suggestiva quanto effimera e suggestiva sarà la parabola del partito d’azione, negli stessi mesi dall’aprile ’45 al marzo ’46.
Il libro di Garosci, scoperta di Carlo Rosselli ma anche scoperta dell’autore, protagonista che si metteva in ombra, per quel senso di misura e di ritrosia che sempre lo caratterizzerà, ma non tanto, al lettore avvertito, da non cogliere il peso decisivo di quell’esperienza, quasi il ponte che il torinese gobettiano Garosci avrebbe finito per esercitare fra Gobetti e Rosselli (molto prima che nei vecchi documentari cinematografici delle commosse onoranze funebri di Parigi ai due fratelli assassinati dai cagoulards fascisti affiorasse anche plasticamente il ruolo di Aldo, l’esule antifascista che era stato allievo di Gioele Solari). Uno stile non sempre facile, spezzato e tormentato.
Qualcosa della diaristica risorgimentale, nella ricostruzione scheggiata dei fatti, nella rianimazione drammatica dei personaggi di una storia multiforme, e non priva di contraddizioni: la resistenza dei vecchi partiti emigrati sulla Senna, il sogno di un nuovo movimento che superasse le barriere e le lacerazioni di repubblicani e socialisti e democratici avanzati, l’oscillazione fra i residui mazziniani e le influenze marxiste.
Non credo che l’opera di Rosselli, pure essenziale per la storia dell’antifascismo vivente, abbia avuto in quella lontana stagione un grande successo di pubblico: un po’ per la cattiva distribuzione della neonata casa editrice (il copyright la segnala nel cuore di Firenze, nella orgogliosa via Tornabuoni), un po’ per la rispondenza distratta e svogliata di un pubblico, cui l’azionismo, con la sua vena protestante e riformatrice, apparve subito troppo esigente, quasi «minoranza di stranieri in patria» (un motivo che si ripete ancora oggi). Per anni ricordo di aver trovato, sulle bancarelle fiorentine, a prezzo di macero o giù di lì, il secondo volume, spaiato dal primo (che era stato certamente venduto di più) e orfano nel quadro dell’opera complessiva, ma pure drammaticamente autonomo in quella sequenza di fatti che partiva col capitolo sull’«Europa sconvolta».
Garosci, un po’ come Salvatorelli: uno storico in cui impegno civile e meditazione storiografica si mescolano fino quasi a identificarsi. Una bibliografia che è lo specchio di una vita: dal lontano saggio su Jean Bodin del 1934, rielaborazione semiclandestina della tesi di laurea sulle origini del principio di sovranità nello Stato accentrato moderno (e monito sulle sue deviazioni e degenerazioni) alle pagine sulla vita di Rosselli non meno che a quelle sulla «storia dei fuorusciti», il libro laterziano del ’53, o a quel singolare affresco einaudiano di storia della terza e in parte quarta Repubblica francese, o più tardi alla riscoperta del filone del «Federalist» nel pensiero politico americano. Nulla, nell’opera di questo storico militante, senza inibizioni accademiche, che prescinda mai dagli stimoli della vita reale, dall’impatto col mondo che ci circonda. Storia in questo senso, crocianamente, contemporanea e partecipe.
Com’è che Garosci ha dedicato oggi un’opera di ottocento pagine, due volumi più grossi di quelli riservati a Carlo Rosselli, alla storia di Antonio Gallenga, un emigrato di origine mazziniana ma di approdi moderati e quasi reazionari nel Risorgimento, un nome da quasi tutti dimenticato? È un interrogativo che lo stesso Garosci si pone all’inizio della nuova opera che esce, in un’edizione vecchio stile, elegante, ariosa e preziosa, presso il «Centro di studi piemontesi» di Torino (e va ricercata nelle librerie, tanto limitata, e aristocratica, è la tiratura che l’ha accompagnata).
Un’opera cui l’autore confessa di aver lavorato trent’anni; primo corso di dispense presso l’università di Torino (dove Garosci, mio «coevo» nella cattedra universitaria, assunse la disciplina di storia del Risorgimento nel 1961) e poi via via, con pazienza certosina, telaio di una ricostruzione che potrebbe essere paragonata – per ricchezza di riferimenti filologici, per scavo di fonti, e salva la lontananza e proporzione dei protagonisti – al Cavour di Rosario Romeo.
Certo Garosci, uomo tutto d’un pezzo, democratico e intellettuale di esemplare coerenza, non è stato attirato dalle contorsioni e dalle contraddizioni di Gallenga, un parmense implicato nei moti del 1831 e poi folgorato dalla parola fascinatrice della «Giovine Italia» e poi famoso, cent’anni fa, soprattutto per il mancato attentato a Carlo Alberto nel Piemonte del 1833. No: non è il romantico e anche un po’ retorico erede di Lorenzino de’ Medici – che cerca invano un pugnale per l’attentato al Re sabaudo nella Torino del settembre 1833, quasi estrema vendetta contro l’uccisione di Jacopo Ruffini – a richiamare l’attenzione prevalente di Garosci.
È vero che lo storico ricorda con puntigliosità perfino sconcertante tutti i particolari di quei mesi dal luglio ’33 ai primi del ’34 in cui si snoda il «mistero» - che tale rimane – del mancato attentato al Re Carignano: compreso «il pugnaletto dal manico di lapislazzuli» che Mazzini avrebbe inviato a Gallenga tramite un intermediario, ai fini del regicidio, ma che si sarebbe smarrito per istrada. Su questi e su altri particolari del Risorgimento minore e segreto l’opera è ricca di rivelazioni, talora anche inquietanti, mai limitate da complessi di liturgia o di ortodossia «risorgimentistica» (data l’assoluta libertà intellettuale dell’autore, che non confonde mai la storia coi miti).
Ma l’innesto più vero fra il Gallenga e il suo «ritrattista» di oggi – un ritrattista un po’ all’Annigoni, nella cura anche esasperata dei particolari – va ricercata a mio giudizio nella riscoperta di quello che Garosci chiama «il grande giornalista moderno». Mancato come attentatore, fallito come cospiratore, oscillante come politico, sospeso fra Mazzini e poi Gioberti e poi ancora D’Azeglio, carico di risentimenti e di rancori verso gli antichi maestri, Gallenga ha una sola e intramontabile coerenza, l’impegno nella carta stampata, la curiosità di tutto osservare e di tutto descrivere, quasi un fondo di Baretti ottocentesco, e non senza gli stessi accigliati conservatorismi. E non tanto nei pigri o assonnati giornali della penisola quanto nella grande stampa inglese ed europea.
Come corrispondente del «Times», ormai cittadino britannico d’elezione, segue la campagna del 1859, la spedizione dei Mille, la guerra di secessione americana e le due grandi guerre civili europee prefiguratrici del conflitto del 1914-18 quella fra Austria e Prussia del 1866 e quella fra Francia e Prussia del 1870, con l’epilogo comunardo. Descrittore pungente e vivace, non gli sfugge nulla: né le miserie dei Mille (ama Garibaldi ma detesta i garibaldini che chiama «mazziniani indegni di profanare il nome dell’eroe di Caprera») né il dramma dello scontro al Parlamento subalpino fra Cavour e Garibaldi, l’uno Agamennone e l’altro Achille, con Bixio che funge da Ajace e Ricasoli da Ulisse.
Gallenga perderà il posto al «Times» molti anni più tardi, nel 1884, solo perché aveva rivelato, violando «un irrinunciabile segreto», che i fondi anonimi del grande giornale inglese erano suoi. Vincolo, per il «Times» di allora come per l’Albertini di poi, da non rompere mai.
E la grandezza del Gallenga giornalista, accanto alle infinite e spesso irritanti ambiguità del Gallenga politico, si identifica in un punto solo: la sua incapacità di conservare segreti, emblematica della vocazione giornalistica, non certo dell’attitudine politica. Tanto è vero che nel 1855 dovette rinunciare al seggio alla Camera subalpina per aver rivelato, nella sua History of Piedmont, la parte avuta nel tentato, e neanche tentato, regicidio del 1833. Garosci ha ragione: il «girellismo» politico di Gallenga si riscatta nella fedeltà alla pagina bianca, che fu poi la sua sola fedeltà.
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