Dato il contenuto del capitolo che ho scelto di postare avrei potuto anche inserirlo in “Politica nazionale” o “Politica estera”: perché ha molto a che fare con le scelte che sono state prese recentemente in quegli ambiti e con le conseguenze che avranno.
Ho preferito però rispettare l’argomento del libro, la psicologia economica, ed inserirlo qui.
Per quanto, in realtà, ciò che si può imparare da questo libro si possa applicare quotidianamente nella vita di ognuno di noi. Non riguarda di certo la sola economia.

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Responsabilità

Le perdite sono ponderate circa il doppio dei guadagni in diversi contesti, come la scelta tra opzioni di rischio, l’effetto dotazione e le reazioni a variazioni di prezzo. Il coefficiente di avversione alla perdita è molto più alto in alcune situazioni. In particolare, forse si è più avversi alla perdita in sfere della propria vita che sono più importanti del denaro, come la salute. Inoltre, la riluttanza a «vendere» importanti dotazioni aumenta notevolmente quando farlo potrebbe renderci responsabili di un esito orribile. Uno dei primi studi di Richard Thaler https://it.wikipedia.org/wiki/Richard_Thaler sul comportamento dei consumatori, divenuto ormai un classico, comprendeva un esempio molto significativo, che appare leggermente modificato nel seguente quesito:

Siete stati esposti a una malattia che, se contratta, conduce a una morte rapida e indolore nel giro di una settimana. La probabilità che abbiate la malattia è di 1/1000. Esiste un vaccino che è efficace solo prima che appaia il minimo sintomo. Qual è la somma massima che sareste disposti a pagare per il vaccino?

La maggior parte della gente è disposta a pagare una somma notevole, ma limitata. Trovarsi di fronte alla possibilità di morire è spiacevole, ma il rischio è ridotto e pare irragionevole rovinarsi per evitarlo. Ora considera la leggera variazione:

Occorrono volontari per la ricerca sulla suddetta malattia. Vi viene chiesto di esporvi solo a una probabilità di 1/1000 di contrarla. Qual è la somma minima che chiedereste a compenso per offrirvi volontari nel programma? (Non vi sarebbe permesso di acquistare il vaccino.)


Come forse avrai intuito, il compenso che i volontari chiedono è molto più alto del prezzo che erano disposti a spendere per il vaccino. Thaler riferì informalmente che il rapporto tipico era di circa 50:1. Il prezzo estremamente alto che i soggetti fissavano per vendere la propria esposizione rispecchia due caratteristiche del problema. In primo luogo, non si dovrebbe vendere salute; la transazione non è considerata legittima e la riluttanza a impegnarvisi è espressa con un prezzo più alto. Particolare forse più importante, si è responsabili del risultato se le cose vanno male. Si sa che, se ci si sveglierà una mattina con i sintomi di una malattia letale, si proverà più rammarico nel secondo caso che nel primo, perché si sarebbe potuta rifiutare l’idea di vendere la propria salute qualunque fosse stato il compenso. Ci si sarebbe potuti attenere all’opzione di default e non fare niente, e adesso questa emozione controfattuale ci perseguiterà per il resto della vita.

Anche l’indagine sulle reazioni dei genitori a un insetticida potenzialmente rischioso, menzionata in precedenza, includeva una domanda sulla disposizione ad accettare un rischio aumentato. Ai soggetti era stato detto di immaginare di usare un insetticida la cui nocività, in termini di inalazione e di avvelenamento dei bambini, era di 15 ogni 10.000 flaconi. Era disponibile un insetticida meno costoso, la cui nocività era di 15-16 per 10.000 flaconi. Ai genitori si chiedeva quale sconto li avrebbe indotti a passare al prodotto meno costoso (e meno sicuro). Oltre due terzi dei genitori dell’indagine rispondevano che non avrebbero acquistato il nuovo prodotto a nessun prezzo. Erano evidentemente disgustati soltanto all’idea di fare della salute dei loro figli una merce di scambio. Vale però la pena notare che questo atteggiamento è incoerente e potenzialmente dannoso per la sicurezza di coloro che desideriamo proteggere. Anche i genitori più affezionati hanno risorse di tempo e denaro finite per proteggere i loro figli (il conto mentale «garantire la sicurezza di mio figlio» ha un budget limitato), e pare ragionevole usare tali risorse in maniera che siano sfruttate al meglio. Il denaro che si potrebbe risparmiare accettando un minimo aumento di nocività di un pesticida potrebbe senza dubbio essere usato nella maniera più opportuna per ridurre l’esposizione dei bambini ad altri danni, magari acquistando un sedile della macchina più sicuro o delle protezioni per le prese elettriche. Il «tabù del tradeoff», che vieta di accettare qualsiasi incremento di rischio, non è un modo efficace di usare il budget della sicurezza. Di fatto, la resistenza potrebbe essere motivata più dalla paura egoistica del rammarico che dal desiderio di ottimizzare la sicurezza dei figli. Il pensiero «e se…?», che verrebbe in mente a qualunque genitore accettasse deliberatamente un simile scambio, è un’immagine del rammarico e della vergogna che egli proverebbe qualora il pesticida provocasse danni.

L’intensa avversione per l’idea di accettare un aumento del rischio in cambio di qualche altro vantaggio è evidente, su larga scala, nelle leggi e nei regolamenti che governano il rischio. Questa tendenza è particolarmente forte in Europa, dove il principio cautelativo, che vieta qualunque azione potenzialmente dannosa, è una dottrina accettata da tutti. Nel contesto normativo, il principio cautelativo impone l’intero onere di dimostrare l’assenza di pericolo a chiunque intraprenda azioni che potrebbero danneggiare le persone o l’ambiente. Diversi organismi internazionali hanno decretato che la mancanza di prove scientifiche di danni potenziali non è una giustificazione sufficiente per correre rischi. Come osserva il giurista Cass Sunstein https://en.wikipedia.org/wiki/Cass_Sunstein, il principio cautelativo è costoso e, se rigidamente interpretato, spesso paralizzante. Egli cita un impressionante elenco di innovazioni che non avrebbero superato il test, tra cui «aeroplani, condizionatori d’aria, antibiotici, automobili, disinfezione con il cloro, vaccino contro il morbillo, chirurgia a cuore aperto, radio, refrigeratori, vaccino antivaioloso e raggi X». La versione più rigorosa del principio cautelativo è chiaramente insostenibile. Ma l’avversione rafforzata alla perdita è inclusa in un’intuizione morale forte e ampiamente condivisa: essa origina dal sistema 1. Il dilemma tra atteggiamenti morali intensamente avversi alla perdita e gestione efficiente del rischio non ha una soluzione semplice e incontrovertibile.

Passiamo gran parte delle nostre giornate a prevedere, e cercare di evitare, le pene emozionali che infliggiamo a noi stessi. Quanto dobbiamo prendere sul serio questi risultati intangibili, queste punizioni (e a volte premi) autoinflitte che sperimentiamo a mano a mano che segniamo i punti della nostra vita? Gli Econ (v. pag. 228 del libro in pdf per la definizione di “econ” e “umani”, ndr) non dovrebbero registrarli, mentre per gli Umani tali risultati hanno un costo. Queste punizioni conducono ad azioni che sono deleterie per la salute degli individui, l’efficacia delle politiche e il benessere della società. Ma le emozioni di rammarico e responsabilità morale sono reali, e il fatto che gli Econ non le abbiano potrebbe non essere rilevante.

In particolare, è ragionevole lasciare che le proprie scelte siano influenzate dalla previsione del rammarico? Essere soggetti al rammarico, come essere soggetti allo svenimento, è un fatto della vita al quale ci si deve adattare. Se siamo investitori, abbastanza ricchi e in cuor nostro prudenti, magari possiamo permetterci il lusso di un portafoglio che riduca al minimo l’aspettativa del rammarico, anche se questo non massimizzasse l’incremento della ricchezza.

Si possono anche prendere precauzioni che immunizzino dal rammarico. Se, quando le cose vanno male, ci si ricorda che prima di decidere si era presa in seria considerazione la possibilità del rammarico, è probabile che ci si rammarichi meno. Bisogna anche tenere presente che il rammarico e il bias del senno del poi si presentano insieme, per cui qualunque cosa si faccia per scongiurare il bias del senno del poi è probabile sia d’aiuto. La mia personale politica «anti-senno del poi» è di essere molto minuzioso o del tutto noncurante quando prendo una decisione con conseguenze a lungo termine. Il senno del poi è peggiore quando si riflette un poco ma non tanto, solo quanto basta per dirsi in seguito: «Per un pelo non ho fatto una scelta migliore».

Daniel Gilbert https://en.wikipedia.org/wiki/Daniel...(psychologist) e i suoi colleghi affermano provocatoriamente che in genere prevediamo di provare più rammarico di quello che poi proveremo realmente, e questo perché tendiamo a sottovalutare l’efficacia delle difese psicologiche cui faremo ricorso, quelle che essi definiscono il nostro «sistema immunitario psicologico». Il loro consiglio è di non assegnare troppo peso al rammarico; anche se ne proveremo un po’, farà meno male di quanto pensiamo adesso.

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A proposito di segnare i punti

«Ha una contabilità mentale separata per gli acquisti in contanti e per gli acquisti con la carta di credito. Gli ricordo sempre che i soldi sono soldi.»

«Ci teniamo quelle azioni solo per evitare di chiudere il nostro conto mentale in perdita. È l’effetto inclinazione.»

«Abbiamo scoperto un eccellente piatto in quel ristorante e non proviamo mai nient’altro per evitare il rammarico.»

«Il commesso mi ha mostrato il sedile per bambini più costoso di tutti e ha detto che era il più sicuro, e io non me la sono sentita di comprare un modello meno caro. Ha tutta l’aria di un tabù del tradeoff.»


(capitolo 22 – Segnare i punti)

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Pensieri lenti e veloci
di Daniel Kahneman

Il libro
Siamo stati abituati a ritenere che all’uomo, in quanto essere dotato di razionalità, sia sufficiente tenere a freno l’istinto e l’emotività per essere in grado di valutare in modo obiettivo le situazioni che deve affrontare e di scegliere, tra varie alternative, quella per sé più vantaggiosa. Gli studi sul processo decisionale condotti ormai da molti anni dal premio Nobel Daniel Kahneman hanno mostrato quanto illusoria sia questa convinzione e come, in realtà, siamo sempre esposti a condizionamenti – magari da parte del nostro stesso modo di pensare – che possono insidiare la capacità di giudicare e di agire lucidamente. Illustrando gli ultimi risultati della sua ricerca, Kahneman ci guida in un’affascinante esplorazione della mente umana e ci spiega come essa sia caratterizzata da due processi di pensiero ben distinti: uno veloce e intuitivo (sistema 1), e uno più lento ma anche più logico e riflessivo (sistema 2). Se il primo presiede all’attività cognitiva automatica e involontaria, il secondo entra in azione quando dobbiamo svolgere compiti che richiedono concentrazione e autocontrollo. Efficiente e produttiva, questa organizzazione del pensiero ci consente di sviluppare raffinate competenze e abilità e di eseguire con relativa facilità operazioni complesse. Ma può anche essere fonte di errori sistematici (bias), quando l’intuizione si lascia suggestionare dagli stereotipi e la riflessione è troppo pigra per correggerla. L’effetto profondo dei bias cognitivi si manifesta in tutti gli ambiti della nostra vita, dai progetti per le vacanze al gioco in borsa, e le questioni poste da Kahneman si rivelano spesso spiazzanti: è vero che il successo dei trader è del tutto casuale e che l’abilità finanziaria è solo un’illusione? Perché la paura di perdere è più forte del piacere di vincere? Come mai gli ultimi anni un po’ meno felici di una vita felice abbassano di molto la felicità totale? Nel rispondere a queste e ad altre domande analoghe, affrontate in un vivace e serrato dialogo con il lettore, Kahneman compone una mappa completa della struttura e delle modalità di funzionamento del pensiero, fornendoci nel contempo preziosi suggerimenti per contrastare i meccanismi mentali «veloci», che ci portano a sbagliare, e sollecitare quelli più «lenti», che ci aiutano a ragionare.

Versione .pdf:
http://3.droppdf.com/files/m84TQ/dan...i-e-veloci.pdf

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L’autore
Daniel Kahneman è titolare della cattedra Eugene Higgins di psicologia all’Università di Princeton e professore emerito di psicologia e affari pubblici alla Woodrow Wilson School of Public and International Affairs di Princeton. Nel 2002 ha ricevuto il premio Nobel per l’economia per le ricerche pionieristiche condotte con Amos Tversky sul processo decisionale. Tra i suoi libri tradotti in italiano ricordiamo: Psicologia dell’attenzione (1981) ed Economia della felicità (2007).