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    Predefinito Sturzo senatore a vita (1992)



    Luigi Sturzo (Caltagirone, Catania, 1871 - Roma, 1959)



    di Gabriele De Rosa. In “Nuova Antologia”, a. CXXVII, fasc. 2184, ottobre-dicembre 1992, Le Monnier, Firenze, pp. 145-161.

    “La Nuova Antologia” ha ottenuto da Gabriele De Rosa l’autorizzazione ad anticipare nelle proprie pagine il testo dell’introduzione ai Discorsi parlamentari di Luigi Sturzo nel periodo in cui fu senatore a vita, dal dicembre 1952 all’agosto 1959. È un’edizione curata dal Servizio studi del Senato della Repubblica.

    1. Nel suo esordio al Senato, che avvenne il 27 gennaio 1953, dopo la nomina a senatore a vita conferitagli da Luigi Einaudi, Sturzo intervenne su uno dei temi che a lui furono più cari e che costituì uno dei cavalli di battaglia delle sue polemiche nel secondo dopoguerra: le incompatibilità parlamentari. Fra queste incompatibilità la prima derivava dalle nomine fatte dal Consiglio dei Ministri o dai Ministri direttamente per posti che “in qualsiasi modo creano una dipendenza gerarchica e un controllo d’autorità”. Si trattava di eliminare la figura del controllato-controllore dal Parlamento ovvero del parlamentare che fosse funzionario, a qualsiasi titolo, di enti sottoposti alla vigilanza e tutela dei singoli ministeri o di organi interministeriali.
    Di analoga ispirazione è il secondo intervento di Sturzo al Senato (21 agosto 1953), contro il cumulo delle cariche negli amministratori pubblici. Ne aveva già fatto cenno nelle conclusioni del precedente intervento al Senato: «Volere mantenere – aveva detto – i posti di comando nazionali dentro la cerchia di un centinaio di persone, parlamentari e funzionari insieme, sarebbe un metodo erroneo che porterebbe alla creazione di un’oligarchia tanto più potente quanto più limitata ne è la cerchia dei partecipanti e quanto più si trova legata a consorterie di affari che si sviluppano attorno agli enti pubblici».
    Come spesso accade, rivedendo discorsi o scritti di Sturzo, il periodare alterna i modi della diagnosi con i modi e i moniti della previsione; egli incomincia con l’individuare il «metodo erroneo» per poi passare alle conseguenze, che i destinatari delle sue filippiche non vedono: «Il cumulo delle cariche – avvertiva – restringe la cerchia dei collaboratori del Governo, quali sono gli amministratori e i sindaci di gestioni speciali dello Stato, come gli enti statali o parastatali o gli enti di diritto pubblico. Quanto più ristretta ne è la cerchia, tanto più facilmente si formano le consorterie di interessi». Da questa constatazione, Sturzo ricavava una conferma della tesi sociologica della «intima connessione del potere con il possesso, non solo in regimi feudali ed autocratici, ma sotto aspetti propri anche in democrazia». Questo neofeudalesimo moderno che si annidava all’interno stesso degli orientamenti democratici, aveva partorita una nuova categoria di privilegiati: «i capitalisti del funzionarismo», che avevano fatto sparire negli organismi statali e parastatali, nei vecchi e nei nuovi enti, il cittadino. Più chiaramente Sturzo aveva espresso il suo pensiero, qualche anno prima: «Il rapporto sociologico fra possesso economico e potere pubblico, che è alla base di ogni gerarchia politica sia in regime oligarchico che in regime democratico, oggi si va consolidando fra i parvenus della politica e le alte gerarchie impiegatizie»[1].
    Tutti gli interventi di Sturzo al Senato girano attorno al problema delle necessarie riforme per restituire vitalità e circolarità alla vita delle istituzioni democratiche, per rimettere al parlamento quei poteri di controllo soprattutto nelle gestioni pubbliche, che gli erano stati sottratti dalla partitocrazia. Naturalmente il porro unum era per Sturzo la guerra allo «statalismo sempre più invadente», guerra però che non escludeva la possibilità integrativa dello Stato. Spesso si è visto nell’antistatalismo sturziano una condanna radicale dell’intervento dello Stato, tanto durante il ventennio fascista che dopo la guerra, ma non è esatto. Sturzo precisava così il suo pensiero: «Non nego un misurato intervento nelle varie branche dell’attività privata, specialmente a scopo integrativo, e dove l’iniziativa privata non possa da sé corrispondere adeguatamente alle esigenze pubbliche: aggiungo che non è qui in discussione quanto in questo campo è avvenuto, sia per gli scopi perseguiti dal passato regime, sia per le necessità sorte dalla guerra e dalle conseguenze della guerra, trattandosi di fatti che nessuno potrà mettere in non essere»[2]. Ricordo che Romano Prodi già osservò, parecchi anni fa, come a proposito dell’antistatalismo di Sturzo, dovessero operarsi alcuni «distinguo» e come il vecchio leader del popolarismo non escludesse per certi settori l’intervento integrativo dello Stato. D’altra parte, è molto difficile ritenere che il grande processo di industrializzazione del secondo dopoguerra potesse avvenire senza l’aiuto dello Stato. Quel che Sturzo lamentava era l’ostacolo costituito, oltre che dalla «poca fiducia, più esattamente, dalla paura della libertà (il solito salto nel buio)», dagli «interessi precostituiti di certa burocrazia» e di quel che lui chiamava «avventiziato politico, operanti insieme nei mille e più enti statali e parastatali», ovvero da quell’oligarchia dei «capitalisti del funzionarismo», di cui aveva scritto, sorprendentemente per noi, già nel 1951. Precisava ancora Sturzo nel discorso al Senato del 20 febbraio 1954: «La mia non è la libertà del manchesteriano ‘lasciar fare e lasciar passare’ di quel liberalismo individualista, che ai primi decenni del secolo scorso reagiva al vecchio corporativismo statizzato e fossilizzato, e perciò servì a dare nuovo slancio alla economia europea e americana. Ogni tempo il suo male e il suo bene».
    In breve, nel discorso al Senato del 19 febbraio 1954 Sturzo ribadiva il suo tenace convincimento, che il libero corso dell’economia nel nostro paese non fosse insidiato dall’intervento dello Stato nei settori deboli dell’economia, dove l’iniziativa privata sarebbe stata inadeguata, tanto è che egli sosteneva la Cassa del Mezzogiorno, ma dal capitalismo di Stato ovvero dalla «formazione di una nuova ristretta classe politica, costituita da partecipanti a tale capitalismo»: il discorso quindi tornava al fenomeno parassitario e avventuroso dei «capitalisti del funzionarismo». Questa distinzione è importante, perché rende, fra l’altro, omaggio alla memoria di Pasquale Saraceno, che riteneva il pensiero di Sturzo, almeno entro certi limiti, non disomogeneo al suo nella questione del rapporto fra economia libera e intervento pubblico.

    (...)


    [1] L. S., Il cittadino, in «Realtà politica», 15 dicembre 1951, poi in Politica di questi anni, 1951-1953, Opera Omnia, Zanichelli, Bologna, p. 114. Continuava Sturzo: «Il funzionarismo ha soppresso il libero cittadino; il politicantismo ha soppiantato il libero cittadino; il sindacalismo ha eliminato il libero cittadino. Tutti corrono per avere prebende, gettoni di presenza, cumulo di emolumenti, indennità a getto continuo e così di seguito. E quando per caso qualcuno di tali dirigenti perde il posto, mai più per scioglimento di ente ma per eventualità assai rare, allora ne pretende un altro che si crea se non c’è, sì da rimediare subito al prestigio perduto e alla prebenda venuta meno. In tal ridda non si vedrà mai più il vecchio tipo di gentiluomo di campagna, il libero professionista non intrigante, l’artigiano onesto, il vecchio funzionario fedele e dimenticato». Non era così generalizzato il fenomeno dei «capitalisti del funzionarismo», come vedeva Sturzo, tuttavia la «connessione del potere con il possesso», con la commistione di pubblico e privato, di politica e affarismo, a detrimento dei diritti del cittadino, già contrassegnava le debolezze di un sistema democratico chiuso.

    [2] In altro discorso al Senato dell’8 giugno 1955, discutendosi dell’ENI, affermò: «È ben noto a tutti il mio costante orientamento, da sessanta anni ad oggi, circa la libertà economica e la mia insistente preferenza per l’iniziativa privata […]. Premetto che in questa materia non sono a priori favorevole o contrario all’intervento statale: posso ammettere da parte dello Stato sia l’intervento propulsivo quando manca qualsiasi possibilità immediata di serie iniziative private, sia l’intervento integrativo quando l’iniziativa privata non è sufficiente; nego senz’altro l’intervento statale a tipo monopolistico, che precluda, in parte o in tutto, l’iniziativa privata».
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Sturzo senatore a vita (1992)

    2. Della riforma del Senato Sturzo si era occupato prima ancora di essere nominato senatore a vita da Luigi Einaudi. Sin dal 1951 espresse il parere che Senato e Camera dovessero avere la stessa durata: cinque anni[1]. Era favorevole a introdurre nel Senato «un certo numero di membri di nomina presidenziale», non a vita però; la nomina avrebbe dovuto farsi per ogni legislatura e «tale da rispettare il significato del responso elettorale». Nella lista dei senatori di nomina presidenziale includeva: ex presidenti del consiglio, ex deputati e senatori di un certo numero di legislature (nella sua proposta di modifiche della composizione del Senato del 1957, le legislature dovevano essere non meno di tre), presidenti non più in carica del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, avvocati generali dello Stato in pensione, ex governatori della Banca d’Italia, ex ambasciatori. Il numero doveva essere limitato a venti, che poi nella proposta del 1957 ridusse a quindici: «non si illudano i nostalgici del Senato vitalizio o i sostenitori del Senato corporativo – scriveva sempre nel citato articolo del 1951 – il Senato deve essere elettivo e, salvo solo ritocchi alla legge vigente, eletto a suffragio universale e diretto»[2]. In democrazia – sostentava Sturzo – un Senato non elettivo o parzialmente non elettivo, declassava il corpo che non avrebbe potuto essere ritenuto corpo politico nel senso pieno della parola: «Un Senato così congegnato non potrebbe avere diritto di dare o negare voti di fiducia al governo»[3]. Questo era un punto che i costituenti non avevano visto, quando immisero 105 senatori di diritto: il Senato non poteva diventare «una specie di gerontocomio politico che, per se stesso avulso dal paese, diverrebbe un tronco secco, senza vitalità».
    Ma la modifica più importante del Senato avrebbe dovuto riguardare la distinzione dei compiti e delle funzioni fra Senato e Camera: «Discorsi su politica generale qua, discorsi su politica generale là; lunghi qua lunghi là; a Montecitorio comunicazioni del governo e relativa settimana di ambiente eccitato; a palazzo Madama comunicazioni del governo e relativa settimana di ambiente eccitato»[4]. Ritenne che fosse possibile per il momento eliminare la ripetitività del lavoro delle Camere modificando il disposto dell’articolo 81 della Costituzione, stabilendo che la Camera dei deputati approvasse ogni anno i bilanci preventivi e il Senato il rendiconto consuntivo. In questa ripartizione di compiti, affidando al Senato l’esame e l’approvazione dei rendiconti, si sarebbe iniziata «la moralizzazione della nostra amministrazione» e si sarebbe ottenuta la verifica della reale consistenza dei nostri bilanci: «E chi non darebbe al Senato la sorveglianza di indirizzo economico delle aziende autonome e degli anti statali e parastatali, esonerandone la Camera dei deputati perché la vera sorveglianza non può essere bicipite come l’aquila asburgica?». Allora un Senato, come una super Corte dei conti? Quel che premeva a Sturzo era di stabilire in maniera distinta la funzione amministrativa del Parlamento (bilanci e resoconti), da quella legislativa. Sturzo sperava che alcune modifiche del Senato, in particolare quelle riguardanti l’area dei suoi lavori, fossero realizzabili con una sorta di autoriforma ovvero con una «spontanea e graduale specificazione e caratterizzazione delle due camere pur nei limiti della costituzione»[5].
    Continuò a tornare più volte sulla questione della riforma del Senato, sino a quando nel 1957 propose con apposito disegno di legge le modifiche: il Senato eletto a base regionale (un senatore per 160 mila abitanti); i senatori attribuiti alle regioni erano eletti dagli stessi elettori con il voto aggiunto del nome di uno dei candidati iscritti dell’albo degli eleggibili, pubblicato ogni anno dalla Gazzetta Ufficiale (nell’albo dovevano essere iscritti i parlamentari che dal 1947 erano stati eletti per non meno di tre volte, quali costituenti, deputati o senatori oppure erano stati nominati presidenti delle Assemblee legislative o del Consiglio dei Ministri). Prevedeva che il numero dei senatori a vita, invece di cinque, fosse portato a quindici.
    Sulla distinzione dei compiti fra Camera e Senato tornava a parlare l’11 luglio 1958 – e fu l’ultimo suo discorso al Senato – in occasione della fiducia al secondo governo Fanfani, certamente uno dei suoi interventi più belli, in cui è pienamente riflessa la visione che egli ebbe di una democrazia parlamentare, scrupolosamente articolata e diffusa con un sentimento profondo della libertà. Si era reso conto che la piccola o la grande riforma del Senato avrebbe atteso ancora tempi lontani per essere realizzata. Pensava, però, che senza scomodare la Costituzione, si potesse lavorare sulle disposizioni che non potevano essere qualificate come costituzionali, e fra queste disposizioni al primo posto citava quella relativa alle immunità parlamentari. La considerava «un vecchio relitto dell’antico regime per sottrarre i parlamentari all’arbitrio dei monarchi; oggi è un privilegio per sottrarre i parlamentari alle responsabilità assunte con i propri atti».
    Nel mirino di Sturzo era anche la funzione deliberante assegnata alle Commissioni, «facoltà attribuita, fra tutti i parlamenti antichi e moderni, esclusivamente a quello della nostra Repubblica, e voluta dai costituenti per una concezione erronea dell’utilità di numerose leggi e della facilità di approvarle»: in altre parole, Sturzo criticava la «facoltà deliberante» delle Commissioni perché sarebbe stata un incentivo alla proliferazione di leggi e leggine. Quale era la molla che spingeva verso questa incontenibile produttività delle leggi, non solo in Senato, ma anche alla Camera? Secondo Sturzo la molla era nella fiducia «pressoché infantile» dei partiti e dei sindacati «nel potere magico delle leggi». Non solo, ma il vero vizio era nel carattere privatistico di molte leggi e leggine, nel fatto di essere costruite ad personam o ad categoriam. Anche questa della elefantiasi legislativa era fra le polemiche più continue di Sturzo, che non mancava di fare il confronto con l’attività del Parlamento inglese, che lui aveva conosciuto da vicino, durante l’esilio londinese[6].
    Nella proliferazione delle varie leggi e leggine di segno in qualche modo privatistico, Sturzo inseriva le leggi «a tipo regolamentare», confezionate dalla burocrazia «in modo da attenuare le proprie responsabilità ovvero fatte per assecondare l’istinto del parlamentare che tende ad invadere il campo dell’Esecutivo». Anche questo dell’invadenza burocratica, sottile o manifesta, era fra i cavalli di battaglia di Sturzo più antichi, sin dagli anni prefascisti; la riforma burocratica fu certamente la più sollecitata, la più invocata, la più sostenuta da Sturzo, anche perché riteneva che con essa si sarebbe meglio contenuta la produzione legislativo-regolamentare[7].
    Dunque, Sturzo vedeva proprio nella riforma burocratica uno dei mezzi che avrebbe potuto concorrere a ridurre almeno gli eccessi della produzione legislativo-regolamentare. Egli vedeva ormai chiaramente nel Senato l’istituzione che avrebbe potuto assumersi il ruolo di controllo e di vigilanza sul corretto andamento della vita non solo economica, ma anche amministrativa del paese, il ruolo di garante della moralizzazione pubblica nell’esercizio dei poteri; il Senato, insomma, come una specie di Cerbero addetto non solo al controllo delle spese e delle entrate, ma anche dello svolgimento dell’attività legislativa e regolamentare: «Una funzione specifica e caratteristica che dovrebbe avere il Senato – disse nel già ricordato ultimo discorso al Senato – è proprio quella di garantire il cittadino contro tutte le sopraffazioni, le ingerenze, le pastoie legislative che, con la migliore intenzione di riformare il mondo, si vanno introducendo in questo periodo di rinascita di libertà, di affermazione di diritti, di aspirazione al miglioramento della vita. È proprio il Senato l’istituto che dovrebbe ridare fiducia nello Stato, vigilando sulla pubblica amministrazione, curando l’equilibrio dei poteri e assicurando al cittadino la garanzia contro lo strapotere degli enti pubblici».
    Altro nodo-chiave del pensiero politico di Sturzo era la questione del rapporto partiti-Parlamento: punto di partenza per una corretta e democratica vita parlamentare, il necessario smantellamento della «sovrastruttura partitocratica che si è andata infiltrando durante le due precedenti legislature, in modo tale da paragonarsi ad una piovra che poco a poco soffoca e stronca». Presso a poco dal 1948, potremmo datare l’inizio della serrata polemica sturziana contro la partitocrazia. Vide nascere e svilupparsi la «piovra», in una sorta di responsabile connivenza fra partiti e sindacati, sino a diventare il modo comune, accettato, ammesso di fare politica a tutti i livelli. Sturzo ritenne che si fosse arrivati al punto critico del rapporto Parlamento, governo, partiti in occasione della formazione del governo Scelba, allorché ai ministri della coalizione governativa fu data la denominazione di «delegazioni». Ricordò il fatto quando intervenne sulla fiducia al governo Segni, il 20 ottobre 1955. «Purtroppo – disse allora Sturzo – la delegazione presuppone sia un delegante che un delegato; nel caso il delegante sarebbe il partito, potere non previsto dalla Costituzione e legalmente irresponsabile; il delegato sarebbe il deputato o il senatore che investito della carica di Ministro riceverebbe dal suo partito una delega, un mandato prestabilito», il che doveva ritenersi violazione del dettato costituzionale, in quanto la facoltà del Presidente del Consiglio di dirigere la politica generale, veniva inficiata dalla ingerenza di partito e da mandati imperativi vincolanti. Per Sturzo non vi era dubbio che alla base del criterio della «delegazione» al governo fosse uno stravolgimento del ruolo e della figura del parlamentare.
    Sturzo andava ancora più a fondo sostenendo che alla nostra democrazia parlamentare mancava «la base teorica e la tradizione politica». Quanto affermava il vecchio leader popolare, che delle regole della democrazia e dei princìpi dell’autolimitazione aveva fatto oggetto di una lunga riflessione critica dal tempo delle garbate polemiche con Gaetano Mosca, durante gli anni dell’esilio, infine nelle umili stanzette delle Canossiane sull’Appia, suonava allora come una stranezza, la fissazione di un liberista di altri tempi, di un paretiano in ritardo.
    Le obiezioni più forti che avrebbero potuto muoversi a Sturzo sulla questione del rapporto partiti-Parlamento erano diverse, e di tutte si rendeva conto: in una democrazia così aperta, come lui difendeva, a che cosa potevano servire i partiti? Se il parlamentare, una volta eletto, si fosse ritenuto svincolato dalla disciplina di partito, non si sarebbe determinata una sorta di anarchia parlamentare?
    Per un decennio Sturzo sentì rivolgersi queste obiezioni, alle quali, in sede parlamentare, dette una risposta nel già citato discorso del 1955: «Come uomo politico e come fondatore di un partito, rispondo chiaramente: i partiti servono a molte cose utili e vantaggiose per la democrazia, meno che a sostituirsi al Governo, alle Commissioni parlamentari, alle due Camere, in quel che la Costituzione riconosce come potere, facoltà, competenze, responsabilità propria degli organi supremi dello Stato». E più incisivamente nel suo discorso-congedo dal Senato, anch’esso citato, del’11 luglio 1958, rovesciava la domanda: «Che ci stanno a fare i deputati e i senatori nelle rispettive Camere? Solo per eseguire gli ordini dei partiti, mentre i capi dei Gruppi parlamentari ne sono solo i portatori?». Il problema gli si rivelava ancora più complicato quando passava a esaminare quel che avveniva in occasione delle elezioni politiche: «Gli apparati dei partiti ne sono gli arbitri; la raccolta di danaro per la campagna elettorale è fuori misura; i voti di preferenza costano ai candidati fior di quattrini, difficilmente reperibili nelle proprie economie domestiche; la vita politica è terribilmente inficiata da una larga ingerenza di imprese pubbliche e private e dal tramestio di coloro che fanno il mercimonio dei voti, assicurando il favore di numerosi elettori, come se fossero pecore da mercato». Una diagnosi spietata dei costi della partitocrazia, di quella terribile ricerca dell’efficienza e dell’organizzazione sino a comprimere la società civile, di cui aveva scritto negli anni ’50, una diagnosi che oggi possiamo leggere come previsione di quel che sarebbe successo qualche decennio dopo: «Se non si arriva ad affrontare con coraggio la situazione, non solo le elezioni politiche, ma anche le municipali, le provinciali e le regionali saranno inficiate di corruzione. Non ci illudiamo; la libertà finirà con l’essere incatenata dalla corruzione dell’attività politica».
    Quanto al rapporto fra il parlamentare eletto e il partito che lo aveva indicato e messo in lista, Sturzo rinnovava avanti all’Assemblea del Senato, nella seduta del 20 luglio 1955, la sua altissima visione della figura dell’eletto dal popolo, resa più evidente da quelle vibrazioni interiori della sua prosa che ricordano il «messianico del riformismo», come lo disse Piero Gobetti: «quando gli eletti dal popolo (e non dai partiti) varcano la soglia della Camera e del Senato (in commissione o in aula) hanno una loro responsabilità morale e politica che li lega allo Stato e rispondono personalmente della vita nazionale. Gli aggruppamenti che la Costituzione prevede non riguardano i rapporti con i partiti, né i rapporti con gli elettori, dei quali nega qualsiasi mandato imperativo (anche come ‘minimo non reformabile’); riguarda solo la proporzionalità dei gruppi parlamentari nelle Commissioni in sede deliberante, con la finalità di mantenere la correlativa proporzionalità politica dell’Assemblea. In quale paese democratico l’unità del Governo è stata disgregata dalla formazione delle delegazioni dei partiti, come sei si trattasse di un’occasionale assemblea di rappresentanti di Stati?»[8]

    (...)


    [1] L. S., La riforma del Senato. Elezioni ogni cinque anni, in «La Stampa», 25 agosto 1951, poi in Politica di questi anni, 1951-1953, pp. 31-33.

    [2] In altro articolo di poco successivo, Sturzo ribadiva il suo rifiuto non solo del Senato vitalizio, come era nello Statuto albertino, ma anche di un Senato a metà elettivo e metà di nomina presidenziale: «un Senato misto è un pericolo per la democrazia, sia che si tratti di nomine a posti numerati o che si tratti di posti senza limite di numero, sia che si tratti di nomine temporanee, ovvero di nomine vitalizie». L. S., Quale il nuovo tipo di Senato?, in «Realtà politica», 15 settembre 1951.

    [3] L. S., La «piccola» riforma del Senato, in «Realtà politica», 9 agosto 1952, in Politica di questi anni, 1951-1953, p. 272.

    [4] L. S., Che farne del Senato?, in «Sicilia del popolo», 18 ottobre 1951, in Politica di questi anni, 1951-1953, p. 78.

    [5] La «piccola» riforma del Senato, articolo cit., p. 271.

    [6] «Ricordo – scrisse Sturzo alcuni anni prima – di aver già rilevato che nei tre anni dal 1948 al 1950, il Parlamento inglese varò 103 leggi; il Parlamento italiano nello stesso periodo ne confezionò 1037, fra le quali un certo numero di leggi-regolamento, che sono la più pesante forma di legislazione, e moltissime di ordinamento burocratico. In Italia si arriva al ridicolo di dovere fare una legge per creare il posticino di usciere di un ex collegio di educande che abbia il privilegio di dirsi governativo (ex regio)». L. S., La «piccola» riforma del Senato, in «Realtà politica», 9 agosto 1954, cit. Nel 1951 aveva già rilevato: «Chi guarda le collezioni delle leggi vede un crescendo pauroso: un tempo tutte le leggi emanate nel corso di un anno andavano in due o tre volumi, poi ne occorsero cinque, ora non bastano dieci». L. S., La macchina legislativa, in «La Via», 14 luglio 1951.

    [7] «Se si fosse evitata l’inflazione burocratica – aveva già scritto nel già citato articolo del 1951 – con tante particolari disposizioni su ruoli e gradi, con speciali favori elargiti dai diversi ministri ai propri personali (salvo i pochi casi dei figli della gallina nera), il problema ora si presenterebbe meno complicato e di meno difficile soluzione. E perché non regolare meglio gli stati di previsione e le facoltà governative al riguardo, per evitare leggi e leggine che si risolvono in casi di favore o di sfavore?». L. S., La «piccola» riforma del Senato, cit.

    [8] In un articolo del 1949, aveva già scritto: «Secondo me, i partiti debbono rimanere alla soglia del Parlamento, perché il deputato e il senatore rappresentano la nazione e non il partito e né l’uno né l’altro può ricevere mandato dagli elettori e neppure dal partito. Questa è la dottrina rappresentativa e democratica moderna, che ha una ben lunga tradizione europea ed americana, e che è stata riconosciuta dall’articolo 67 della nostra Costituzione». L. S., Partiti e partitocrazia, in Politica di questi anni, 1948-1949, cit., p. 266.
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    Predefinito Re: Sturzo senatore a vita (1992)

    3. Potremmo ripercorrere i vari momenti della polemica sturziana antipartitocratica, seguendo la sua attività pubblicistica. In un articolo del 1953 Sturzo ricordava che fin dal 1947, un anno dal suo rientro dall’esilio, aveva incominciato a occuparsi della partitocrazia, «la malattia che mina la democrazia attuale»[1]. Le radici del fenomeno partitocratico, erano individuabili, secondo Sturzo, già nei comitati di liberazione, nella cosiddetta «esarchia», la quale avrebbe diviso «in sei il potere del partito unico fascista, e se lo attribuì per intero, pur distribuendolo in parti quasi uguali». Ammetteva però che «in clima di guerra e in quel periodo, il nuovo sistema poté essere forse una necessità»[2]. Poco generosamente, e smentendo quanto egli stesso aveva scritto e sostenuto sui giornali americani negli anni dell’esilio, aggiungeva: «Ma la mentalità fascista della gioventù, che veniva all’aperto nella lotta politica dei partiti, ritrovò il suo clima». In realtà, è troppo facile rilevare come Sturzo, nel 1944, quando operava a New York con interventi ripetuti sulla stampa e presso il Dipartimento di Stato a favore di migliori condizioni e aiuti per l’Italia «cobelligerante», appoggiasse i comitati di liberazione, vedesse anzi nell’accordo da loro raggiunto «un atto di patriottismo e il segno di una maturità politica, che fino ad oggi veniva negata dalla stampa americana e da quella di altri paesi»[3].
    Dunque, non tanto nelle intese dei comitati di liberazione, struttura politica straordinaria, di cui Sturzo valutò la durata «fino al momento in cui il paese potrà essere consultato», erano da vedersi i prodromi della partitocrazia. I dubbi incominciarono a nascere in lui nel periodo del Tripartito in cui, come ironicamente ricordava, «fu tripartito di tutto: ministeri, burocrazia, magistratura, enti pubblici e semipubblici, e così via»[4]. Sarebbe stato «l’esempio classico della partitocrazia». Tuttavia, Sturzo non collegava il fenomeno partitocratico alla necessità di combattere il comunismo «nemico della patria e della religione»: non era in discussione che si dovesse resistere al comunismo, bensì erano in discussione «i metodi e i mezzi» adoperati dai partiti per fare valere le loro scelte, metodi e mezzi che appiattivano le rappresentanze parlamentari al conformismo dei partiti, riducendo il Parlamento «a camera di registrazione»[5]. In altre parole, né la guerra fredda, né la resistenza al comunismo giustificavano la partitocrazia, la rendevano in qualche modo ammissibile, anche se Sturzo si rendeva conto del fatto che proprio «il fenomeno comunista così ingrandito dagli avvenimenti bellici e dalla ingerenza bolscevica», aveva spinto i partiti, compresa la Democrazia cristiana, a organizzarsi meglio e in maniera più efficiente. Ma organizzazione ed efficienza non dovevano essere ricercate a scapito della libertà e delle regole di una corretta democrazia parlamentare[6]. Tanto meno Sturzo riteneva, san Tommaso alla mano, che si potesse accettare un conformismo alla disciplina di partito violando la libertà di coscienza[7].
    Per spiegare il fenomeno della partitocrazia, Sturzo andava più lontano: risaliva al luglio 1920, quando «i vecchi ‘uffici’ della Camera dei deputati vennero trasformati nei gruppi parlamentari e fu dato all’ufficio di presidenza la facoltà di accertamento se un gruppo inferiore a dieci rappresentasse o no un partito organizzato nel paese. Con la istituzione di commissioni permanenti a base di membri designati dai gruppi fu ancora aggravata l’ingerenza dei partiti, con danno del funzionamento della Camera[8].

    (...)


    [1] L. S., Governo e partito, in «Il Giornale d’Italia», 16 luglio 1953, poi in Politica di questi anni, 1951-1953, p. 398.

    [2] L. S., Partiti e partitocrazia, in «Il Popolo», 3 luglio 1949. Poi in Politica di questi anni, 1948-1949. Sturzo ribadì questo suo convincimento nel discorso che tenne al Senato il 20 luglio 1955: «La risposta post-fascista fu imperniata sui comitati di liberazione, primo esperimento di ‘delegazioni’ al Governo che furono giustificate perché mancava un Parlamento. Questo funziona dal maggio del 1948; ma fin dai primi passi, è stato impacciato dal ricordo dei comitati di liberazione, dagli aggruppamenti politici dei deputati e dei senatori, dalla ingerenza, gradualmente più sensibile, della direzione e dei consigli dei partiti».

    [3] L. S., Le dichiarazioni di Quebec, messaggio trasmesso con la «Voce d’America», New York, 3 ottobre 1944, poi in L. S., La mia battaglia da New York, Garzanti, Milano, 1949, pp. 311-313. Roosevelt e Churchill si erano incontrati a Quebec, dove decisero che l’Italia potesse inviare rappresentanze diplomatiche a Londra e a Washington.

    [4] L. S., Democrazia e partitocrazia, in «Il Giornale d’Italia», 19 marzo 1954, poi in Politica di questi anni, 1954-1956, p. 32.

    [5] L. S., Doveri di disciplina e disciplina di partito, in «La Via», 11 giugno 1949, poi in Politica di questi anni, 1948-1949, pp. 246-251.

    [6] L. S., Partiti e partitocrazia, in «Il Popolo», 3 luglio 1949, poi in Politica di questi anni, 1948-1949, p. 269.

    [7] L. S., Doveri di disciplina e disciplina di partito, cit.

    [8] Partiti e democrazia, cit., pp. 269-270. La stessa convinzione Sturzo ribadiva in altro articolo di qualche anno successivo: «Questa visione parziale e particolaristica della vita pubblica fece la sua entrata nel Parlamento quando la Camera dei deputati del 1920, se mal non ricordo, diede corpo ai gruppi parlamentari, cosa che dal 1948 in poi è consacrata in un disgraziato inciso della costituzione dove all’articolo 72, parlando delle commissioni parlamentari con funzione legislativa, si dice che queste debbono essere ‘composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari’. Ed ecco prestabilita l’invadenza del gruppo come corpo distinto e organizzato, con disciplina ferrea, con ingerenza diretta a nome del partito sulla legislazione e occorrendo sull’amministrazione». L. S., Governo e Partito, in Politica di questi anni, cit., p. 39.
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    Predefinito Re: Sturzo senatore a vita (1992)

    4. Responsabilità dei partiti e loro legittimazione e regolamentazione, il rapporti fra Parlamento ed elettorato, legge elettorale erano per Sturzo questioni fra loro strettamente connesse: «Si conviene da tutti – scrisse in uno dei suoi ultimi articoli – non darsi sistema parlamentare senza elettorato, né darsi elettorato senza partiti. Ma i partiti, da organizzazione integrante dell’attività democratica, oltrepassando oggi i limiti di una funzione secondaria coordinatrice e di spinta, sono arrivati in molti casi alla usurpazione dei poteri pubblici. Da tale stato di cose deriva la necessità di una legittimazione e di una regolamentazione che non furono previste dalla Costituzione»[1]. Ma proprio la funzione pubblica attribuita ai partiti nello sviluppo dinamico della società secondo l’articolo 49 della Costituzione, imponeva che la legge ne precisasse il carattere «non corrispondendo alla realtà considerarli come associazioni private di fatto». Pertanto, il 16 settembre 1958, Sturzo presentava al Senato il disegno di legge n. 124 con le «Disposizioni riguardanti i partiti politici e i candidati alle elezioni politiche e amministrative». Come avvertiva Sturzo nella presentazione, il disegno di legge era da mettere in rapporto con il discorso, qui più volte citato, tenuto al Senato l’11 luglio 1958, nel quale accennando all’esagerato impiego di danaro sia da parte dei partiti sia da parte dei candidati, affermò che si era data al paese «l’impressione di una specie di fiera aperta per conseguire la rappresentanza parlamentare».
    Allo scopo, dunque, di legittimare la funzione del partito, il disegno di legge faceva obbligo ai suoi rappresentanti di depositare nella cancelleria del tribunale competente lo statuto: atto necessario per potere attribuire al partito la personalità giuridica. Il partito era tenuto anche all’obbligo di depositare alla cancelleria del tribunale i rendiconti annuali: atto importante, perché ad esso era vietato ricevere finanziamenti che, per la loro origine, avrebbero potuto inquinare la libertà politica. Dovevano essere denunciati anche i finanziamenti e le spese elettorali dei partiti e dei candidati alle elezioni. L’articolo 8 del disegno di legge equiparava i rendiconti ad atti pubblici, per cui l’occultamento della verità per omissione o per variazione di cifre era reputato agli effetti penali come falso in atto pubblico. Rivolgendosi ai senatori, Sturzo sottolineava che occorreva ridare fiducia al paese che la legge sarebbe stata osservata e che la moralizzazione della vita pubblica, per ottenerla, esigeva che non si ammettessero condiscendenze riguardo al processo di formazione del principale e fondamentale organo statale, il Parlamento, «sul quale poggia la struttura politico-giuridica della Repubblica italiana».
    L’altro problema che stava a cuore a Sturzo riguardava il rapporto fra Parlamento e partiti: come aveva scritto nel citato articolo comparso nella rivista «Amministrazione civile», presso a poco contemporaneo al suo discorso al Senato dell’11 luglio 1958, Sturzo riteneva che nell’attuale organizzazione dei partiti, con i loro massicci apparati e con le loro pletoriche burocrazie, fosse difficile «trovare il modo di garantire la scelta libera e idonea dei rappresentanti del popolo al Parlamento nazionale». Sperava che si potesse migliorare la situazione modificando la legge elettorale, mettendo da parte la proporzionale, che pure era stato il suo cavallo vincente nelle elezioni del 1919, e adottando il sistema maggioritario uninominale.
    Veramente singolare e sorprendente la conversione di Sturzo all’uninominalismo, conversione che avvenne gradualmente fra il 1951 e il 1953, quando ferveva il dibattito attorno al «premio d maggioranza». C’è da chiedersi che senso ha avuto questa conversione: se comportasse una smentita o una correzione degli entusiasmi proporzionalistici del primo dopoguerra, ovvero una revisione delle scelte fatte allora con i socialisti riformisti, con alla testa Filippo Turati. L’evoluzione del pensiero di Sturzo sui sistemi elettorali, di cui aveva, fra l’altro, una conoscenza anche tecnica stupefacente, non ci sembra priva di interesse.
    Intanto, è facile rilevare come agli inizi del 1947 egli apparisse ancora convinto proporzionalista, pur ammettendo però che l’iniziativa dei blocchi di sinistra, presa durante le elezioni municipali del novembre 1946 nelle città dove vigeva la proporzionale, aveva inferto «una ferita assai grave al principio che la proporzionale difende: la personalità dei partiti e la sincerità dei programmi sui quali invitare gli elettori a pronunciarsi». Ma a evitare il pericolo che il paese potesse cadere nei due blocchi contrapposti, c’era, scriveva fiduciosamente Sturzo, il sistema proporzionale: «Tra tanti difetti veri e immaginari, tale sistema ha la buona qualità di temperare la necessità di coalizioni elettorali innaturali, dannose o irriducibili a vera democrazia […] e di dare la possibilità di esprimere chiaramente tutte le proprie tendenze politiche». Quindi concludeva con piglio sicuro: «Nessuna paura, quindi, delle elezioni a sistema proporzionale, nessuna paura delle combinazioni di governo: esarchia, tripartitismo, coalizione di salute pubblica, gabinetto di minoranza o binominale»[2].
    A chi sosteneva che la proporzionale introdotta in Italia nel 1919, con il sostegno decisivo di Sturzo, di Turati e dei loro rispettivi partiti, era stata la causa della crisi dello Stato liberale, rispondeva ricordando che la legge era passata anche con l’appoggio dei democratici-liberali, e che la proporzionale fu necessaria per consentire alle «nuove masse […] il diritto a partecipare alla vita pubblica»[3]. Quanto alla proporzionale nelle elezioni del 1946 per la Costituente, fu «una necessità politica […]; questa rispose alla coscienza nazionale del momento»[4]. Ancora perentoriamente affermava: «Coloro che credono che in questa fase parlamentare potrà essere reintrodotto il sistema uninominale, dovranno subito disilludersi; ciò non sarà possibile, perché i partiti grandi (detti impropriamente partiti di massa) non ne hanno affatto voglia, anche se le sinistre propendono per i blocchi del popolo e le destre per i blocchi della borghesia».
    Quando nel 1951 si incominciò a discutere in vista delle elezioni del 1953 sulla scelta fra proporzionale o collegio uninominale, troviamo ancora Sturzo fermo nella difesa della proporzionale: anzi, sfidava gli uninominalisti ad assumersi «la responsabilità di mettere in gioco le sorti del paese di fronte ad un pericolo bolscevico non indifferente, per i begli occhi del collegio uninominale»[5]. Ammetteva però, per la prima volta, che si potesse arrivare a un compromesso, riducendo i voti di preferenza ad uno solo: «da un lato – scriveva – il partito preferirà candidati localmente ben piazzati e dall’altro diminuirà notevolmente il procacciantismo elettorale delle nullità che affollano le liste». In più Sturzo proponeva l’abolizione del collegio nazionale.
    Trascorse poco meno di un anno dall’articolo del settembre 1951, in cui si dichiarava ancora convinto proporzionalista, e troviamo Sturzo sostenitore del ritorno al sistema uninominale maggioritario. Il cambiamento avvenne insieme con la critica radicale al «premio» di maggioranza, caldeggiato da De Gasperi per le elezioni politiche del 1953. Sembra quasi che Sturzo ritenesse ormai finita la funzione «rivoluzionaria» per la quale la proporzionale era stata introdotta nel 1919: si trattava allora di inserire nel corpo politico dello Stato i cosiddetti «partiti di massa». Oramai la situazione si era capovolta; la proporzionale serviva ai comunisti e ai neofascisti (e relativi alleati) contro i partiti di governo, Democrazia cristiana e partiti di centro: «L’arma rivoluzionaria del 1919 serve ai rivoluzionari del 1952. Ed ecco l’opportunità (non dico necessità) di ritornare al sistema uninominale maggioritario per ristabilire l’equilibrio delle forze»[6]. È facile il confronto con quanto Sturzo aveva affermato negli articoli del 1947, allorché sosteneva che la formazione dei blocchi non era motivo sufficiente per mettere da parte la proporzionale. Tuttavia, non va dimenticato, sin dal 1947 aveva rilevato come la formazione di blocchi di sinistra avesse inferto «una grave ferita al principio che la proporzionale difendeva», principio che era stato alla base dei «partiti di massa» nel primo dopoguerra, partiti ideologici, che si presentavano agli elettori con la propria storia, con i propri programmi, con una propria identità politica.
    L’idea della «ferita» deve avere lavorato in lui, sino a spingerlo al ripensamento sulla proporzionale: il ritorno al collegio uninominale era però visto – e lo afferma chiaramente – non come una necessità, ma come una opportunità. Può anche darsi che Sturzo, respingendo l’idea degasperiana del premio di maggioranza ai partiti apparentati, abbia ritenuto di offrire una più corretta alternativa con la proposta di ritorno al sistema maggioritario uninominale con ballottaggio oppure all’adozione del sistema misto fra proporzionale e uninominale, com’era per il Senato, la cui legge elettorale egli approvava, con riserva solo sul quorum, che trovava troppo elevato.
    Sturzo dette una più ampia spiegazione del suo ripensamento sulla proporzionale in un articolo del gennaio 1954: «La mia attuale critica della proporzionale – affermò – ha motivi notevoli che mi han portato a rivedere le antiche convinzioni: quali il fatto delle coalizioni dei partiti, che corrode i partiti e inquina il corpo elettorale (la questione dei blocchi); la facilità della creazione dei partiti che disfanno le maggioranze parlamentari e minano l’essenza stessa della democrazia». Ma quel che più colpisce, perché contraddice tutte le sue precedenti asserzioni ed esperienze politiche, è l’ultimo motivo: «Per giunta, l’istinto particolaristico che si sviluppa con la proporzionale, tende ad accentuare i difetti del sistema e ad eleminare i correttivi tecnici che gli accorti fautori del passato avevano introdotto fin dai primi esperimenti elettorali». E siamo all’ultima sentenza: «Coloro che oggi parlano di proporzionale pura sono dei ritardatari impenitenti»[7].

    (...)


    [1] L. S., Parlamento ed Elettorato, in «Amministrazione civile», marzo-aprile 1958, pp. 12-18. «Dopo la costituzione, la più importante nell’ordine costituzionale – asseriva Sturzo – è la legge elettorale». L. S., Scritti di carattere giuridico, Opera Omnia, Zanichelli, Bologna, 1962, p. 3.

    [2] L. S., La proporzionale e i blocchi, in «L’Italia», 2 gennaio 1947, in Politica di questi anni, 1946-1948, Opera Omnia, Zanchelli, Bologna, 1954, pp. 102-106. In un articolo di poco successivo, pur rendendosi conto che la contrapposizione dei blocchi contrapposti poteva favorire la formazione di una psicologia da guerra civile, non trovava motivo sufficiente per abbandonare la proporzionale: «Dobbiamo renderci conto che, proporzionale o no, non potranno eliminarsi dal novero dei partiti detti di massa (termine che non è di mio gusto) né il comunista né il democristiano. Se poi i liberali o altri piccoli gruppi […] credono di rimpinguarsi con il collegio uninominale, sarà bene che facciano un esame accurato della loro situazione. Vediamo, per esempio, che solo il prof. Luigi Einaudi si salverebbe in Piemonte e forse nessun altro in Italia». L. S., Guerra civile e proporzionale, in «Sicilia del Popolo», 23 gennaio 1947, poi in Politica di questi anni, cit., p. 128. Sul pensiero di Sturzo circa i sistemi elettorali rinvio all’ottimo saggio di NICOLA ANTONETTI, Sturzo e i popolari, Morcelliana, Brescia, 1988, e alla prefazione dello stesso Antonetti a: LUIGI STURZO, Riforme e indirizzi politici, Laterza, Bari, 1992.

    [3] L. S., La campagna contro la proporzionale, in «Il Quotidiano», 26 febbraio 1947, in Politica di questi anni, cit., pp. 166-170.

    [4] L. S., La proporzionale nel 1946, in «Il Quotidiano», 2 marzo 1947, in Politica di questi anni, cit., p. 171.

    [5] L. S., Elezioni 1953. Proporzionale o collegio uninominale, in «Sicilia del Popolo», 5 settembre 1951, poi in Politica di questi anni, 1951-1953, pp. 44-47.

    [6] L. S., Del «premio di maggioranza», in «Il Popolo», 28 giugno 1952, poi in Politica di questi anni, 1951-1953, pp. 245-248.

    [7] L. S., Proporzionale e Governo, in «Il Giornale d’Italia», 16 gennaio 1954, poi in Politica di questi anni, 1954-1956, pp. 5-7.
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    Predefinito Re: Sturzo senatore a vita (1992)

    Con tutto ciò, Sturzo non trasferisce la sua critica dal presente al passato: per lui la proporzionale del 1919 fu un fatto «rivoluzionario», politicamente positivo perché dava maggiore consistenza alla giovane democrazia italiana, almeno così era nella speranza di Sturzo, Micheli, Turati, Treves: «La proporzionale, necessaria nel 1919 per ridare dinamismo alle istituzioni libere e fare entrare i cattolici nell’agone parlamentare con la loro personalità e fisionomia, oggi è dannosa perché impedisce la formazione di un terzo partito omogeneo e valido da presentarsi come opposizione legale e come alternativa alla D.C.»[1].
    Dunque, il criterio per cui Sturzo optava per il sistema uninominale maggioritario era di opportunità: il rischio della polarizzazione della vita politica nei blocchi contrapposti, unito all’altro di un possibile frazionamento, che avrebbe danneggiato il centro, avevano reso inattuale il mantenimento della proporzionale. Non si trattava più di una scelta rivoluzionaria, ma di conservazione, di stabilizzazione del sistema. Il problema elettorale era visto da Sturzo, si potrebbe dire, entro uno schema paretiano di pretta utilità politica, funzionale al mantenimento degli equilibri specifici del centrismo. In linea logica, il criterio di opportunità non faceva perdere nulla al valore storico del proporzionalismo, che, come il sistema uninominale maggioritario, poteva diventare intercambiabile, a seconda delle situazioni e delle convenienze politiche. Non era tanto questione di confronto di sistemi elettorali, quanto appunto di utilità politica. Sarebbe un errore, a mio avviso, ritenere Sturzo un «pentito» del proporzionalismo o anche un «convertito» all’uninominalismo. Mentalmente egli rimase convinto fino in fondo della validità della proporzionale, e non solo sotto il profilo storico. Egli arrivò ad affermare non l’errore, ma la non-convenienza della proporzionale per cause non intrinseche al sistema, ma per le deficienze della classe politica, per gli eccessi dello spirito localistico e provinciale degli stessi partiti, e non solo in Italia, ma anche in Francia e nei paesi latini, e da questa malattia non si guariva nemmeno col sistema del collegio uninominale a maggioranza assoluta e l’elezione di ballottaggio. Le deficienze, secondo Sturzo, non erano tanto nei sistemi elettorali, quanto negli apparati dei partiti, che in qualunque modo, avevano teso ad «attenuare la libera scelta dei candidati e il libero voto»[2]. Come dire, la proporzionale era stata rovinata dall’uso perverso che ne avevano fatto i partiti. Tanto è vero, che nella premessa ai suoi scritti di carattere giuridico Sturzo poteva scrivere: «Tutte le oscillazioni degli istituti rappresentativi in Francia e in Italia, da un secolo ad oggi dipendono da ben altro che dalla proporzionale, introdotta in Francia nel 1945 e in Italia per breve tempo dal 1919 al 1922 e poi ripresa nel 1945: si tratta di un complesso di elementi storici che nei paesi latini hanno reso difficile la formazione e l’articolazione della classi politiche, la loro aderenza alle istituzioni rappresentative e la possibilità dell’avvicendamento al potere nel binario di tradizioni nazionali ben ferme […]. A questi dati storici si è aggiunta nei due paesi la formazione di forti partiti comunisti, che risultano come corpi estranei alla democrazia parlamentare e quindi impongono metodi e sistemi difensivi, che ostruiscono il naturale svolgimento delle attività elettorali e politiche».
    La legge elettorale, infine, non era per Sturzo solo un fatto tecnico, un mezzo attraverso il quale si esprime la volontà del popolo chiamato alle urne, era un fatto anche di educazione, di costume e di civiltà: «Lo spirito delle leggi elettorali – scriveva – è la sostanza stessa delle istituzioni libere: è quindi la libertà quale è vissuta da un popolo e quale è concretizzata nelle sue istituzioni e nelle sue tradizioni politico-sociali […]. L’osservanza delle formalità legali, poste a garanzia dell’esercizio dei diritti politici, deve essere frutto di educazione; genitori, preti, maestri, giudici hanno la principale responsabilità dell’educazione civica per la quale il rispetto del diritto e della libertà altrui e delle leggi che garantiscono tali libertà deve essere considerato il primo dovere verso la patria». Sturzo concludeva le sue considerazioni con un augurio bellissimo, rivelatore di quella forza utopica, che ispirava e sorreggeva, anche nei momenti dell’ira, delle disillusioni e dei disincanti, le sue battaglie politiche e civili: «I partiti stessi dovrebbero sentire come punto d’onore quello della reciproca lealtà e del reciproco rispetto. Dovrebbe introdursi una specie di nuova cavalleria basata sul senso di onore politico degno del nuovo ordine: il democratico. Il cittadino di una nazione dovrebbe portare questo titolo con lo stesso onore con cui si porta qualsiasi appartenenza a ordini civici o consessi politici e accademici, perché tutto l’edificio di un paese libero è basato sul cittadino elettore e sul cittadino eletto alle cariche pubbliche, in una solidarietà civica che mira al benessere comune e al progresso della nazione»[3].

    Gabriele De Rosa

    https://www.facebook.com/notes/luigi...4070384639677/


    [1] L. S., La proporzionale ieri e oggi, in «Il Giornale d’Italia», 24 gennaio 1954, poi in Politica di questi anni, 1954-1956, p. 9.

    [2] «Si fa colpa del frazionamento dei partiti – scriveva Sturzo – al sistema della rappresentanza proporzionale, specialmente da quando il congegno di tale legge è reso irrazionale dagli interessi dei piccoli partiti con metodi ricattatori. Se la proporzionale ha accentuati così gravi difetti della democrazia, non può dirsi che la malattia non fosse già in atto nei paesi latini per colpa dell’individualismo della classe politica e per lo spirito localistico e provinciale degli stessi partiti anche quando le elezioni erano fatte in Francia e in Italia col sistema del collegio uninominale a maggioranza assoluta e l’elezione di ballottaggio fra i due candidati preferiti nella prima votazione chiusasi senza risultato. In genere, la instabilità dei governi e i facili spostamenti di maggioranze sono accaduti più per intrighi di corridoio e per volontà di capi-gruppo, anziché per il responso dell’elettorato, il quale molte volte si è dimostrato più attaccato alle maggioranze esistenti e ai governi uscenti che non fossero i partiti stessi». L. S., Parlamento ed Elettorato, in «Amministrazione civile», marzo-aprile 1958.

    [3] L. S., Scritti di carattere giuridico, cit., p. 17 e p. 20.
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