di Gabriele De Rosa. In “Nuova Antologia”, a. CXXVII, fasc. 2184, ottobre-dicembre 1992, Le Monnier, Firenze, pp. 145-161.
Luigi Sturzo (Caltagirone, Catania, 1871 - Roma, 1959)
“La Nuova Antologia” ha ottenuto da Gabriele De Rosa l’autorizzazione ad anticipare nelle proprie pagine il testo dell’introduzione ai Discorsi parlamentari di Luigi Sturzo nel periodo in cui fu senatore a vita, dal dicembre 1952 all’agosto 1959. È un’edizione curata dal Servizio studi del Senato della Repubblica.
1. Nel suo esordio al Senato, che avvenne il 27 gennaio 1953, dopo la nomina a senatore a vita conferitagli da Luigi Einaudi, Sturzo intervenne su uno dei temi che a lui furono più cari e che costituì uno dei cavalli di battaglia delle sue polemiche nel secondo dopoguerra: le incompatibilità parlamentari. Fra queste incompatibilità la prima derivava dalle nomine fatte dal Consiglio dei Ministri o dai Ministri direttamente per posti che “in qualsiasi modo creano una dipendenza gerarchica e un controllo d’autorità”. Si trattava di eliminare la figura del controllato-controllore dal Parlamento ovvero del parlamentare che fosse funzionario, a qualsiasi titolo, di enti sottoposti alla vigilanza e tutela dei singoli ministeri o di organi interministeriali.
Di analoga ispirazione è il secondo intervento di Sturzo al Senato (21 agosto 1953), contro il cumulo delle cariche negli amministratori pubblici. Ne aveva già fatto cenno nelle conclusioni del precedente intervento al Senato: «Volere mantenere – aveva detto – i posti di comando nazionali dentro la cerchia di un centinaio di persone, parlamentari e funzionari insieme, sarebbe un metodo erroneo che porterebbe alla creazione di un’oligarchia tanto più potente quanto più limitata ne è la cerchia dei partecipanti e quanto più si trova legata a consorterie di affari che si sviluppano attorno agli enti pubblici».
Come spesso accade, rivedendo discorsi o scritti di Sturzo, il periodare alterna i modi della diagnosi con i modi e i moniti della previsione; egli incomincia con l’individuare il «metodo erroneo» per poi passare alle conseguenze, che i destinatari delle sue filippiche non vedono: «Il cumulo delle cariche – avvertiva – restringe la cerchia dei collaboratori del Governo, quali sono gli amministratori e i sindaci di gestioni speciali dello Stato, come gli enti statali o parastatali o gli enti di diritto pubblico. Quanto più ristretta ne è la cerchia, tanto più facilmente si formano le consorterie di interessi». Da questa constatazione, Sturzo ricavava una conferma della tesi sociologica della «intima connessione del potere con il possesso, non solo in regimi feudali ed autocratici, ma sotto aspetti propri anche in democrazia». Questo neofeudalesimo moderno che si annidava all’interno stesso degli orientamenti democratici, aveva partorita una nuova categoria di privilegiati: «i capitalisti del funzionarismo», che avevano fatto sparire negli organismi statali e parastatali, nei vecchi e nei nuovi enti, il cittadino. Più chiaramente Sturzo aveva espresso il suo pensiero, qualche anno prima: «Il rapporto sociologico fra possesso economico e potere pubblico, che è alla base di ogni gerarchia politica sia in regime oligarchico che in regime democratico, oggi si va consolidando fra i parvenus della politica e le alte gerarchie impiegatizie»[1].
Tutti gli interventi di Sturzo al Senato girano attorno al problema delle necessarie riforme per restituire vitalità e circolarità alla vita delle istituzioni democratiche, per rimettere al parlamento quei poteri di controllo soprattutto nelle gestioni pubbliche, che gli erano stati sottratti dalla partitocrazia. Naturalmente il porro unum era per Sturzo la guerra allo «statalismo sempre più invadente», guerra però che non escludeva la possibilità integrativa dello Stato. Spesso si è visto nell’antistatalismo sturziano una condanna radicale dell’intervento dello Stato, tanto durante il ventennio fascista che dopo la guerra, ma non è esatto. Sturzo precisava così il suo pensiero: «Non nego un misurato intervento nelle varie branche dell’attività privata, specialmente a scopo integrativo, e dove l’iniziativa privata non possa da sé corrispondere adeguatamente alle esigenze pubbliche: aggiungo che non è qui in discussione quanto in questo campo è avvenuto, sia per gli scopi perseguiti dal passato regime, sia per le necessità sorte dalla guerra e dalle conseguenze della guerra, trattandosi di fatti che nessuno potrà mettere in non essere»[2]. Ricordo che Romano Prodi già osservò, parecchi anni fa, come a proposito dell’antistatalismo di Sturzo, dovessero operarsi alcuni «distinguo» e come il vecchio leader del popolarismo non escludesse per certi settori l’intervento integrativo dello Stato. D’altra parte, è molto difficile ritenere che il grande processo di industrializzazione del secondo dopoguerra potesse avvenire senza l’aiuto dello Stato. Quel che Sturzo lamentava era l’ostacolo costituito, oltre che dalla «poca fiducia, più esattamente, dalla paura della libertà (il solito salto nel buio)», dagli «interessi precostituiti di certa burocrazia» e di quel che lui chiamava «avventiziato politico, operanti insieme nei mille e più enti statali e parastatali», ovvero da quell’oligarchia dei «capitalisti del funzionarismo», di cui aveva scritto, sorprendentemente per noi, già nel 1951. Precisava ancora Sturzo nel discorso al Senato del 20 febbraio 1954: «La mia non è la libertà del manchesteriano ‘lasciar fare e lasciar passare’ di quel liberalismo individualista, che ai primi decenni del secolo scorso reagiva al vecchio corporativismo statizzato e fossilizzato, e perciò servì a dare nuovo slancio alla economia europea e americana. Ogni tempo il suo male e il suo bene».
In breve, nel discorso al Senato del 19 febbraio 1954 Sturzo ribadiva il suo tenace convincimento, che il libero corso dell’economia nel nostro paese non fosse insidiato dall’intervento dello Stato nei settori deboli dell’economia, dove l’iniziativa privata sarebbe stata inadeguata, tanto è che egli sosteneva la Cassa del Mezzogiorno, ma dal capitalismo di Stato ovvero dalla «formazione di una nuova ristretta classe politica, costituita da partecipanti a tale capitalismo»: il discorso quindi tornava al fenomeno parassitario e avventuroso dei «capitalisti del funzionarismo». Questa distinzione è importante, perché rende, fra l’altro, omaggio alla memoria di Pasquale Saraceno, che riteneva il pensiero di Sturzo, almeno entro certi limiti, non disomogeneo al suo nella questione del rapporto fra economia libera e intervento pubblico.
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[1] L. S., Il cittadino, in «Realtà politica», 15 dicembre 1951, poi in Politica di questi anni, 1951-1953, Opera Omnia, Zanichelli, Bologna, p. 114. Continuava Sturzo: «Il funzionarismo ha soppresso il libero cittadino; il politicantismo ha soppiantato il libero cittadino; il sindacalismo ha eliminato il libero cittadino. Tutti corrono per avere prebende, gettoni di presenza, cumulo di emolumenti, indennità a getto continuo e così di seguito. E quando per caso qualcuno di tali dirigenti perde il posto, mai più per scioglimento di ente ma per eventualità assai rare, allora ne pretende un altro che si crea se non c’è, sì da rimediare subito al prestigio perduto e alla prebenda venuta meno. In tal ridda non si vedrà mai più il vecchio tipo di gentiluomo di campagna, il libero professionista non intrigante, l’artigiano onesto, il vecchio funzionario fedele e dimenticato». Non era così generalizzato il fenomeno dei «capitalisti del funzionarismo», come vedeva Sturzo, tuttavia la «connessione del potere con il possesso», con la commistione di pubblico e privato, di politica e affarismo, a detrimento dei diritti del cittadino, già contrassegnava le debolezze di un sistema democratico chiuso.
[2] In altro discorso al Senato dell’8 giugno 1955, discutendosi dell’ENI, affermò: «È ben noto a tutti il mio costante orientamento, da sessanta anni ad oggi, circa la libertà economica e la mia insistente preferenza per l’iniziativa privata […]. Premetto che in questa materia non sono a priori favorevole o contrario all’intervento statale: posso ammettere da parte dello Stato sia l’intervento propulsivo quando manca qualsiasi possibilità immediata di serie iniziative private, sia l’intervento integrativo quando l’iniziativa privata non è sufficiente; nego senz’altro l’intervento statale a tipo monopolistico, che precluda, in parte o in tutto, l’iniziativa privata».