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    Predefinito Gaetano Salvemini nella società italiana del tempo suo (1959)





    di Eugenio Garin – In AA. VV., “Gaetano Salvemini”, Laterza, Bari 1959, pp. 149-210.

    1. – Nel 1954 Paolo Spriano pubblicava una lettera di Gobetti su Salvemini, del 10 agosto del 1922. Si erano incontrati alla stazione di Torino ed avevano chiacchierato per circa un’ora. Fresco dell’impressione provata, Gobetti delineava un ritratto molto acuto di quello che, allora, era uno degli italiani più significativi: «quest’uomo, pur nei suoi limiti addirittura spaventosi e volutamente accentuati, è di una lucidità straordinaria. Di tutto ciò che ha studiato s’è formato una sua idea che conserva questa caratteristica, di essere di un semplicismo apparentemente infantile. Eppure, più ci ripensi e più ti avvedi che non si trattava affatto di un’idea comune e che è molto difficile dire di più. Ha una faccia sola. Vede tutte le cose linearmente. La sua sincerità entusiasma e può sembrare deplorevole. Tutti i suoi difetti si riassumono nella sua primitività di stile. Questi sono gli scherzi, le ironie della franchezza. Salvemini è troppo poco complicato per essere capito»[1].
    Venticinque anni prima qualcuno, sulla «Critica sociale», aveva chiamato «stile da maresciallo dei carabinieri» quel modo, più che di scrivere, di aggredire con la penna, che fu così caratteristico in Salvemini[2]. E tuttavia Gobetti, pur rilevandone i limiti, ne coglieva bene la forza, e metteva felicemente a fuoco alcuni tratti dell’uomo, individuando le ragioni del suo isolamento e, insieme, della sua presenza nella vita italiana. Lucidezza e semplicismo, sincerità e primitività, aperta franchezza e ironia tagliente, sdegno della retorica e rifiuto di fumi filosofici: Gobetti scolpiva nette le linee di un volto. Con lui, aggiungeva, è molto difficile, in sede di pensiero critico, fare delle riserve e procedere per sfumature: «del resto – concludeva – i suoi vogliono essere più scherzi che pensieri filosofici». Né senza malizia lo univa a Luigi Sturzo per aver promosso entrambi, in Italia, il «più recente esperimento di illuminismo politico, offrendo il metodo ad alcuni esempi di problemismo pratico». Oltre l’ironia velata, l’avvicinamento aveva un fondo serio, e sottolineava una volta di più i pericoli della posizione salveminiana, fornendo un’indicazione interpretativa tuttora non trascurabile. Anche se resterà sempre difficile, nonostante tutto, non rimaner colpiti subito dalla quasi eccezionale paradossalità di una figura che non trova termini di confronto[3].
    In un’Italia invasa culturalmente dalla retorica dannunziana, dal genialismo alla Papini e dagli scherzi futuristi; in un paese dove gli uomini più eminenti e più noti nel campo del sapere erano due filosofi sostanzialmente conservatori, le cui idee non sempre apparivano molto lineari, come non dare un posto a sé a questo non-conformista, ribelle sul serio fra tanti rivoluzionari da gazzette e da caffè, di mestiere insegnante universitario di storia, pronto ad opporre, in nome del buon senso e dell’onestà, Cattaneo a Hegel, e disposto a difendere il più screditato positivismo contro l’idealismo ovunque trionfante?
    Isolato sempre per quel suo gusto di una polemica senza sottintesi, per quel suo moralismo intransigente e per quel suo franco illuminismo, era un sentimentale con la maschera del razionalista; e tanto più rigido razionalista quanto più disarmato sentimentale. Non riesce a togliersi dal cuore i contadini della sua terra e gli allievi della sua scuola: i compagni di lavoro che sperano in lui e i giovani che credono in lui e che hanno fede nella vita; guardando a loro non può abbandonarsi un istante solo al compromesso. Sa che gli uomini semplici e le menti pure non capirebbero i calcoli, e si sentirebbero amaramente traditi anche se dall’apparente tradimento avessero a trarre poi un vantaggio: potranno perdonargli errori anche fatali; non gli perdonerebbero tortuosità ed infingimenti.
    In un mondo cinico, capace solo della retorica della commozione, non mai della commozione vera, Salvemini si commuove sempre dinanzi alla fede schietta. Si commuove nel Mazzini del 1905 al ricordo della preghiera cristiana: «nessuno di noi può riandare quella preghiera infantile senza sentir palpitare in sé un fervido desiderio di giustizia, di amore, di pace». Si commuoverà mezzo secolo dopo, nel 1955, di fronte ai giovani e alle ragazze che combattono nelle file di quel comunismo che egli avversa con veemenza; dinanzi alla loro fedeltà e alla loro ispirazione morale pensa a quegli altri giovani che, sul cadere dell’Ottocento, avevano lottato con lui nelle file del socialismo[4].
    Questo fratello dei più diseredati fra i contadini del Sud, diventato professore di una delle più dotte università italiane, unirà sempre in quel suo trepido affetto, che dette tanta forza anche alle sue posizioni più deboli, i suoi scolari, e tutti i giovani in loro, e i suoi compagni contadini – che saranno sempre i contadini pugliesi. Il problema dei contadini meridionali, quello di tutta la scuola italiana, studenti e insegnanti: ecco le due cause per cui Salvemini si batté fino all’ultimo giorno – le due cause che dettero calore a ogni altra battaglia, e che fanno apparire così austeramente saggio l’uomo che ad Anna Kuliscioff, che gli voleva bene, sembrava matto da legare[5].

    (...)


    [1] P. SPRIANO, Inediti di Piero Gobetti, «Il contemporaneo», 24 aprile 1954, pp. 3-4. Ma è da confrontare con questa lettera il giudizio, in gran parte esattissimo, recato in Rivoluzione liberale, Saggio sulla lotta politica in Italia, Torino, 1950³, pp. 97-101.

    [2] «Critica sociale», VII, 1897, p. 269.

    [3] «Per certa rigidità intransigente, per certi impeti sdegnosi e per la irriducibilità dei propositi si avvicina alla tendenza del radicalismo puritano» (M. VINCIGUERRA, Un quarto di secolo, 1900-1925, Torino, Piero Gobetti editore, 1924, p. 47).

    [4] Il pensiero religioso politico sociale di Giuseppe Mazzini, Messina, Trimarchi, 1905, p. 68; Opere, I, Scritti sulla questione meridionale, 1896-1955, Torino, Einaudi, 1955, p. XXXV.

    [5] F. TURATI – A. KULISCIOFF, Carteggio, vol. I (maggio 1898-giugno 1899), a cura di A. Schiavi, Torino, Einaudi, 1949, p. 465. Il testo è finemente ripreso da E. RAGIONIERI, Gaetano Salvemini storico e politico, «Belfagor», V, 1950, p. 517. Cfr. l’allusione dello stesso Salvemini nel discorso al Congresso nazionale socialista dell’ottobre 1910, in cui, rivolgendosi a Turati, esclamò: «Dal momento che Anna Kuliscioff pensa allo stesso modo mio, se sono matto io, è matta anche lei» (G. SALVEMINI, Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano. Saggi critici, Bologna, Cappelli, 1922, p. 119).
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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini nella società italiana del tempo suo (1959)

    2. – Da Molfetta a Firenze: dal seminario e dallo zio prete all’Istituto di studi superiori di Firenze, alla scuola di Comparetti e Vitelli, di Villari e Trezza, ove il culto della scienza rigorosa e un senso alto della poesia di ogni tempo si univano, non solo a una difesa aperta della libertà culturale secondo le tradizioni risorgimentali, ma anche a una battaglia concreta per la redenzione degli uomini. Erano uscite a Firenze nel ’78 le Lettere meridionali di Pasquale Villari che restano una delle denunce più forti dello sfruttamento disumano dell’uomo da parte dell’uomo. È di Villari la visione che Salvemini sottolineerà così bene nella commemorazione del 1918, di un riscatto dei poveri che lavorano e sono sfruttati quale prosecuzione del programma di unità nazionale. È delle Lettere meridionali il monito: «L’uomo che vive in mezzo agli schiavi, accanto agli oppressi e corrotti, senza resistere, senza reagire, senza combattere, è un uomo immorale che ogni giorno decade»[1].
    La libertà che gli italiani hanno conquistato deve compiersi nell’attuazione di una concreta giustizia sociale, se la vita nazionale non vuole svuotarsi di ogni significato, condannando a una triste aridità coloro che sentirono più viva la missione liberatrice. «[Allora] c’era una guerra, una speranza, un sacrificio ed un pericolo continuo, che sollevavano lo spirito nostro. Oggi è invece una lotta di partiti… senza un Dio a cui sacrificare la nostra esistenza. Questo Dio era allora la Patria, che oggi sembra divenuta libera per toglierci il nostro ideale. A noi manca come l’aria da respirare, perché non troviamo più nulla a cui sacrificarci. Eppure l’aiutare coloro che soffrono vicino a noi, è il nostro dovere, è il nostro interesse, supremo, urgente; e ci restituirebbe l’ideale perduto». In Villari, nel conservatore Villari, questa vocazione è limpidamente sentita e affermata: il raggiungimento dell’Unità non può essere fine a se stesso, deve farsi redenzione di tutta la nazione. Quanti hanno combattuto per la libertà, devono liberare tutti i cittadini da tutte le oppressioni. Quello che Villari ha scritto allora, colpisce oggi per la sua chiarezza coraggiosa. «La camorra, il brigantaggio, la mafia sono la conseguenza logica, naturale, necessaria, di un certo stato sociale, senza modificare il quale è inutile sperare di poter distruggere quei mali… Lo so anch’io che vi sono uomini, ai quali se si mostra una moltitudine che affoga nella miseria, nella fame e nella corruzione, hanno sempre la stessa risposta: - Bisogna aver fede nella libertà. Il secolo, il progresso, i lumi! Con questa gente io non so né ho voglia di ragionare. A loro non saprei dire altro che una cosa sola: - Spegnete i vostri lumi e andate a letto»[2]. Rigore di storico e forza morale si uniscono nella raffigurazione di una «plebe» sfruttata ed oppressa, e perciò insieme «misera e corrotta». Nulla di idillico, o di evasivo, mai: un richiamo a responsabilità precise e la denuncia di colpe molto pesanti. Nella mancanza di tutto, perfino di pietà, «l’uomo si abbrutisce, si demoralizza e diviene facilmente un nemico della società che lo tratta così spietatamente». È facile esaltare la libertà, e sciogliere inni alle «armonie» che mirabilmente scaturiscono come per legge provvidenziale: «ma quale libertà? quella che dà al picconiere il diritto di ammazzare o demoralizzare i fanciulli per guadagnare qualche scudo di più?».
    Nitti, nel suo saggio del ’92 su La legislazione sociale in Italia e le sue difficoltà, trarrà da Villari la sua pagina più terribile sulle condizioni dei lavoratori siciliani della zolfare. «Non solamente non si pigliano in esse tutti i necessari provvedimenti a salvare la vita degli operai, che qualche volta restano soffocati dai gas che n’emanano, ed anche si accendono; sepolti sotto le volte che cadono, perché male costruite, o perché l’intraprenditore ha fatto assottigliare i pilastri per cavarne altro minerale: ma segue di peggio ancora. La creatura umana è sottoposta a una lavoro che, descritto ogni giorno, sembra ogni giorno più crudele e quasi impossibile. Centinaia e centinaia di fanciulli e fanciulle scendono per ripide scarpe e disagevoli scale, cavate in un suolo franoso e spesso bagnato. Arrivati nel fondo della miniera, sono caricati del minerale, che debbono riportare su, a schiena, col pericolo, sdrucciolando su quel terreno ripido e mal fido, di andar giù e perder la vita. Quelli di maggiore età vengono su mandando grida strazianti, i fanciulli arrivano piangendo. È noto a tutti, è stato mille volte ripetuto, che questo lavoro fa strage indescrivibile fra quella gente. Molti ne muoiono; moltissimi ne restano storpiati, deformi o malati per tutta la vita»[3].
    Così, commenterà Salvemini, Villari, compiuta l’Unità, divenne l’apostolo del popolo oppresso; e proprio quel conservatore, quel Cavaliere dell’Annunziata, seppe trovare «la parola cruda e squillante del rivoluzionario»; e i suoi scritti, se non riuscirono a farsi «aculeo all’inerzia plumbea dei partiti del cosiddetto ordine», furono una «miniera di argomenti autorevoli» per la propaganda socialista. «Non ha lasciato senza un grido d’allarme nessuna delle nostre malattie nazionali: la camorra, la mafia, il brigantaggio, i contratti agrari, l’usura rurale, le amministrazioni locali, l’igiene di Napoli, il lavoro dei carusi nelle zolfare, la miseria delle trecciaiuole toscane, il domicilio coatto, la tratta dei fanciulli, i tumulti universitari, la disorganizzazione della scuola media, le continue facilitazioni negli studi e negli esami, la campagna contro gli studi classici di una borghesia che vuole godere dei privilegi sociali ma rifiuta di compiere qualunque sforzo intellettuale per meritarli». Fra la fine dell’800 e il principio del 900 la voce di Villari sonò come «la voce della… coscienza morale, serena, sincera, importuna»[4]. Per questo alla sua scuola anche i figli dei borghesi diventavano socialisti; per questo è difficile non dare un valore a parte, nella formazione di Salvemini, all’incontro con Villari. E tuttavia, ancor prima di esaminare da vicino il peso di quell’incontro, converrà considerare nel suo insieme quell’ambiente fiorentino nel quale il giovane studente pugliese venne ad educarsi; converrà particolarmente, mettere a confronto la realtà di una cultura seriamente operosa nella società con una strana immagine polemica che l’autorità di nomi illustri ha fatto passare per storia.

    (...)


    [1] G. SALVEMINI, Pasquale Villari, estr. dalla «Nuova rivista storica», III, 1918, p. 21.

    [2] P. VILLARI, Lettere meridionali, Torino, Bocca, 1885², p. 10.

    [3] P. VILLARI, op. cit., pp. 18 sgg.; F. S. NITTI, Scritti sulla questione meridionale, vol. I, a cura di A. Saitta, Bari, Laterza, 1958, p. 201.

    [4] G. SALVEMINI, Pasquale Villari, pp. 21-22.
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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini nella società italiana del tempo suo (1959)

    3. – Fra il 1916 e il 1920 Benedetto Croce ospitò nelle pagine de «La Critica» una serie di saggi del Gentile, raccolti dall’autore nel 1922, nel volume su Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono. Ne esce il ritratto di un piccolo mondo provinciale, senza «idee nette e ferme», dominato da interessi piuttosto che storici eruditi, pervaso da un’atmosfera piuttosto che religiosa bigotta, con una cultura sempre al margine della conferenza divulgativa e della conversazione salottiera. A parte Capponi, Lambruschini e Tommaseo, pur visti in limiti fortemente accentuati, come epigoni delle correnti moderate del Risorgimento, la Toscana, e particolarmente Firenze, vengono raffigurate come il teatro di un movimento neopiagnone, collocato sotto il segno di Savonarola e Tommaseo: piagnone perfino il Villari, fra la Crusca da un lato e dall’altro la «tradizione paesana» delle Conferenze Fiorentine: un movimento di cultura – così Gentile concludeva il suo libro - «veramente esaurito».
    Con innegabile abilità di montaggio lo storico idealista, isolando alcuni elementi, riusciva a trasferire nel vicino convento di San Marco tutto l’Istituto di studi superiori; parlava del rugiadoso Conti e taceva del Trezza; scriver di Savonarola diventava ai suoi occhi indizio di candida pietà; gli uomini che seppero mettere in fermento lo spirito del giovane Salvemini, e ne scossero tutte le credenze fino alle radici, venivano presentati come una schiera di chierichetti osannanti dalle pagine della «Rassegna nazionale», organo delle «forze insieme cattoliche e liberali d’Italia».
    A dire il vero il libro di Gentile è per non piccola parte un pamphlet che la cultura meridionale del primo Novecento, fiera della rinascita idealistica che aveva promosso, lanciava contro la cultura toscana, per screditare insieme il rigore storico-filologico della scuola universitaria e i furori superficialmente iconoclasti alla Papini, cui pure, in origine, proprio il Croce aveva guardato con simpatia. Croce e Gentile, ancora uniti, presentavano se stessi quali unici eredi legittimi dei De Sanctis e degli Spaventa di fronte agli epigoni degli ultimi piagnoni ottocenteschi. Un sapere vivo e vitale, veramente nuovo, moderno ed europeo, al culmine di una luminosa tradizione, giudicava e mandava gli ultimi stanchi figli di un’erudizione senza nerbo e senza efficacia destinata a spegnersi in un malinconico tramonto provinciale fra il chiasso dei caffè e il salmodiare dei conventi. Villari come Tocco erano stati legati anch’essi, e con ben stretti vincoli personali, ai De Sanctis agli Spaventa e ai Labriola. Ma perfino chi è venuto documentando taluni di questi legami si è lasciato vincere dalla seduzione di quella polemica camuffata da storia, insistendo su un contrasto tra due tipi di cultura: da un lato – in Toscana – filologismo e moralismo, e incapacità di «assurgere all’idea»; dall’altro – nel Sud - «una cultura filosofica che non solo non abdica all’universalità del sapere, all’organicità della conoscenza, ma pensa che la realtà si costituisce nel pensiero e che il vero pensiero ha precise responsabilità storiche e sociali»[1].
    Ora, se è innegabile una profonda diversità fra cultura toscana e cultura meridionale, nulla può pensarsi di più arbitrario e volutamente tendenzioso del profilo sotto cui, dopo il fortunato libro del Gentile, si è soliti presentare quella differenza. E nulla v’è di più convenzionale e falso dell’immagine della cultura fiorentina che si è soliti trarne, dimenticando stranamente tutto il fondo di polemiche novecentesche di cui quella presunta storia è un’eco, a volta partigiana e stizzosa.

    (...)


    [1] F. DE SANCTIS, Lettere a Pasquale Villari, con introd. e note di Felice Battaglia, Torino, Einaudi, 1955, pp. IX-X.
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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini nella società italiana del tempo suo (1959)

    4. – La scuola in cui nel 1890 Gaetano Salvemini venne a studiare, e che incise così fortemente su tutta la sua personalità, la scuola dei suoi «anni mirabili», era veramente altra cosa da una mortificante confraternita laica di esangui eruditi e di pii sagrestani. Una ventina d’anni prima Alessandro Herzen il giovane aveva suscitato le ire degli spiritualisti per avere difeso il «nauseabondo» darwinismo[1]. E n’eran nate polemiche violente con Lambruschini, col Tommaseo e col luogotenente filosofico del Mamiani, il Ferri. Per rozzo e pesante che fosse il naturalismo dello Herzen, era pur sempre il segno di un interesse vivace per le teorie dell’evoluzione e per i nuovi orientamenti del sapere. Ci fu chi volle vedere nel resoconto con cui «La Nazione» sottolineò il successo di pubblico della conferenza dello studioso russo la mano dell’autore medesimo: resta comunque certo che Firenze non era solo piagnona. Già qualche anno prima della polemica sulla «parentela tra l’uomo e le scimmie», Comparetti si era scontrato con Lambruschini a proposito di Max Müller e delle sue teorie sul linguaggio. Senza dubbio «il Comparetti non poteva intendere il Lambruschini, né questi esser contento della baldanza razionalistica di lui»; ma possiamo noi identificare la vera cultura toscana, anzi tutta la cultura toscana, con Lambruschini?[2].
    Fra il ’73 e il ’74 Capponi metteva di nuovo il campo a rumore intentando un processo allo Schiff per gli «ululati strazianti» di alcuni «animali martiri» del vicino laboratorio, e Schiff e il suo assistente rispondevano molto vivacemente. Ma la polemica Tocco-Herzen del ’79 sulle «condizioni fisiche della coscienza», nel suo tono cortese, nella reciproca considerazione, ha altro significato e ci indica, di nuovo, un diverso atteggiamento nei riguardi delle ricerche di fisiologia e psicologia condotte dagli scienziati[3]. Tocco, allievo di Spaventa e legato a Labriola, non dimenticava i suoi amori per l’antropologia e per i crani della Papuasia: e se studiava il francescanesimo e le eresie medievali, del resto con rigoroso metodo critico, studiava e pubblicava insieme al Vitelli Bruno, ed era tra i primi seri commentatori di Kant. La filosofia non era solo – come voleva il Carducci - «la semiofficiale filosofia ortodossa del Signor Augusto Conti, la quale sotto forma di ristretti eleganti a pochi soldi, svolazza e si volatilizza nei cervelli giovanili per le scuole italiane!»[4].
    La chiamata di Maurizio Schiff, che s’era portato seco come assistente Alessandro Herzen, aveva significato pur qualcosa, e non solo nel campo della fisiologia. Né può dirsi davvero che Schiff e il suo metodo rappresentassero un’importazione straniera senza radici. Non può leggersi senza qualche commozione la lettera che il vecchio Maurizio Bufalini, il 31 luglio del ’74, pochi mesi prima di morire quasi novantenne, indirizzò proprio allo Schiff rivendicando a sé il merito di aver sempre sostenuto il metodo sperimentale combattendo costantemente contro l’uso di «riguardare la scienza dei corpi viventi, come se i fenomeni di questi provenissero da una fase tutt’affatto speciale regolata da leggi solo proprie di essa». E soggiungeva: «La prego di considerare che io ho sempre patrocinata una piena riforma del metodo di trattare la scienza della vita corporea; è questo metodo ch’io assunsi fino dai primi primissimi miei studi, e che ho procurato di chiarire maggiormente e di completare, aggiungendo alle illustrazioni del Galilei alquante mie ulteriori considerazioni»[5].
    Certo Schiff e Herzen non avevano suscitato solo consensi. Nel primo numero de «L’Ateo», un giornaletto che cominciò le sue pubblicazioni a Livorno la domenica 19 agosto 1877, col preciso programma di far «guerra allo spiritualismo, seguendo le investigazioni della scienza moderna», si può leggere che nel luglio di quell’anno, in una sala fiorentina, «fra un circolo di persone quali, a giudicare dagli abiti lindi e attillatissimi, si sarebbero dette di qualche numero, cadde il ragionamento sopra il materialista tedesco Maurizio Schiff, e quei nobileschi, tutti conservatori e ravviluppati ognora da una nube del tanfo leopoldino, riportando in campo le questioni indecorose agitate, non è molto, a Firenze, proclamarono essere Schiff nemico di Dio e del progresso!». A quei «nobileschi» «L’Ateo» opponeva, e sono nomi significativi, non solo Schiff, ma Moleschott, e si rifaceva a Feuerbach e a Strauss, e in prima pagina metteva una lettera augurale di Garibaldi: «Miei cari amici, far guerra ai preti, comunque sia, è opera santa. Sarò con voi per la vita». Non era solo questione scientifica: non a caso Schiff conservava religiosamente fra le sue carte i ricordi della sua partecipazione al ’48, che l’aveva visto fra i membri del primo congresso dei «democratici repubblicani» in Francoforte. Un suo articolo uscito nel primo numero del giornale «Die Lanterne», intitolato Der Terrorismus auf dem preussischen Throne, auspicava «un nuovo tempo con una umanità nuova».

    (...)


    [1] Sulla parentela fra l’uomo e le scimmie, lettura del dott. ALESSANDRO HERZEN fatta a Firenze nel Reale museo di storia naturale il 21 marzo 1869. Seconda edizione coll’articolo del sen. Lambruschini e la risposta del dott. Herzen, Firenze, A. Bettini, 1869; L’uomo e la scimmia. Lettere dieci di NICCOLÒ TOMMASEO con un discorso sugli urli bestiali datici per origine delle lingue, Milano, Agnelli, 1869; A. HERZEN, Polemica contro lo spiritualismo. Lettera al prof. Luigi Ferri, estr. dalla «Rivista europea», Firenze, 1871.

    [2] G. GENTILE, Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze, Vallecchi, 1922, p. 338.

    [3] La condizione fisica della coscienza. Discussione fra i professori FELICE TOCCO e ALESSANDRO HERZEN, estr. dai Rendiconti della Società italiana di antropologia e psicologia, 1879, Firenze, 1880.

    [4] G. GENTILE, op. cit., p. 354.

    [5] Per questa lettera e per i documenti appresso citati mi valgo di due filze di carte Schiff della Biblioteca della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Firenze.
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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini nella società italiana del tempo suo (1959)

    5. – Schiff e Herzen rappresentarono, certo, una punta estrema. Trezza, invece, di cui in tutto il libro del Gentile non ricorre mai il nome, era un’espressione esemplare di un aspetto importante dell’eredità risorgimentale. «Un maestro – scriverà Salvemini[1] - che mi fece fermentare, fu il professore di letteratura latina, Gaetano Trezza… Nella crisi attraversata dal clero cattolico durante il Risorgimento italiano, si era spretato, passando dalla fede nella Bibbia alla fede in Lucrezio. Era un uomo bellissimo e splendido parlatore», e a quei giovani indicava i mondi nuovi da scoprire, «spalancava» finestre «sul mondo».
    L’aveva fatto chiamare proprio il Villari nell’ottobre del ’68 a una cattedra che era stata di Atto Vannucci; ed una volta Max Müller, dopo averne sentito una lezione, l’aveva paragonato a Macaulay. Nel ’97, commemorandolo con una rara sobrietà, Villari ne sottolineava i limiti, ma per osservare poi che «i giovani i quali lo ascoltavano, massime i più intelligenti, ne ricevevano un grande stimolo a pensare. Educati a studi speciali, a metodi rigorosi, a ricerche determinate e limitate, spesso necessariamente aride, si sentivano improvvisamente, potentemente, da una vera eloquenza trascinati in mezzo al mare tumultuoso, tempestoso e senza confini del pensiero. Nella loro coscienza allora pareva che vibrasse tutto ciò che l’uomo aveva pensato, sentito e sofferto: era come una visione di tutte le aspirazioni, di tutte le incertezze ed i pericoli cui va incontro l’anima umana nella ricerca del vero e del bello»[2].
    No! Trezza non era un piagnone; né lo erano Coen, Tocco, Malfatti, il grande Vitelli. Chi legga i ricordi di scuola del giovane Salvemini ha l’impressione di un rigore culturale unito a una serietà di vita, a un impegno e a una disciplina umana non comuni. Solo per Conti si fa eccezione; solo Conti è uno di quei filtri a rovescio, dove l’acqua entra chiara ed esce torbida. Ma è Conti che ci si mostra come un’eccezione in quell’accordo fra sapere positivo e critica spregiudicata. È il vacuo spiritualismo di Conti che stona in mezzo al metodo scientifico, non chiuso ai problemi umani e ai valori dell’arte, ma sempre seriamente professato. Agli occhi del non indulgente Salvemini, Tocco si colloca degnamente accanto al Villari; è una mente lucida che fa capire anche Kant; l’aspra precisione di Coen[3] non contrasta con l’impeto di Trezza; la grandezza di Vitelli convive con la precisa dottrina di Cesare Paoli.
    «Quei vecchi maestri appartenevano quasi tutti a quella corrente di pensiero, che oggi è disprezzata come ‘positivista’, ‘illuminista’, ‘intellettualista’. La loro e la nostra cultura era anzichenò angusta, arida, terra terra, inetta a levarsi verso i cieli dell’intuizionismo e dell’idealismo. Ai tempi di quella cultura terra terra, non ci classicavamo nettamente in credenti e non credenti, monarchici o repubblicani, individualisti o socialisti. Il bianco era bianco e il nero era nero. Il bene era bene, e il male era male. O di qua o di là.» Fu questa, poi, la forza di Salvemini; fu, anche, la sua debolezza di uomo politico, che gli precluse la possibilità di incidere direttamente sulle forze reali in giuoco o, addirittura, lo portò ad offrire in forma equivoca armi ed argomenti proprio a coloro che si troverà ad avversare più crudamente. La sua richiesta di opposizioni nette – di qua bene, di là male – se ne fece spesso un educatore impareggiabile, gli tolse ogni efficacia politica profonda. La realtà è animata da passioni varie: è tutta sfumata nel complesso rapporto delle forze in lotta. Il suo moto fa nascere continuamente dalla morte la vita e travolge nella morte la vita. La realtà umana è storia, e le vie della storia sono difficili e tortuose. La netta divisione – qua bianco, là nero – richiesta da Salvemini, se può essere feconda sul terreno della propaganda, poco giova così alla visione dello storico come a una vasta attività politica. Del resto i giudizi recati proprio da lui su uomini e cose, a volte bruscamente rovesciati, indicano bene i limiti di certi fondamenti, più ancora che teorici, psicologici. Eppure, sconfitto sempre, prima e dopo il fascismo, e, spesso, non senza sua colpa, per valutazioni immediate erronee – come del resto con quella sua impagabile franchezza spesso riconobbe egli stesso – gettò nella vita italiana germi fecondi, vide chiaro come pochi altri, ed esercitò, anche se a lunga scadenza, una funzione critica non facilmente calcolabile. Quando, nel ’55, «a costo di far ridere il mondo alle sue spalle», auspicò, per cominciare a risolvere la questione meridionale, di mandare nel Sud qualche buon insegnante medio settentrionale, delineò paradossalmente la propria fede e la propria vocazione. Era, in fondo un «contadino» pugliese che si era destato in una scuola, che aveva visto tutto il mondo attraverso quella «società» - professori e compagni, prima; professori ed allievi, poi. Così, con queste armi, e con questa mentalità, aveva affrontato gruppi, partiti, parlamenti. La sua fiducia, la sua intelligenza, la sua onestà, l’avevano fatto ascoltare da molti, amare profondamente da pochi, seguire da pochissimi; ma anche sconfitto, riuscì a operare sottilmente su moltissimi, educando a un modo di affrontare le questioni, di impostare i problemi, di ‘far la politica’. Senza Salvemini molte delle posizioni assunte da gruppi politici rilevanti non si intenderebbero; senza la sua opera, e magari senza i suoi errori, una parte non trascurabile dell’Italia più vitale non sarebbe stata, o, almeno, non sarebbe stata così.

    (...)


    [1] G. SALVEMINI, Una pagina di storia antica, «Il Ponte», VI, 1950, pp. 116-31 (I miei maestri, nel vol. Che cosa è la coltura?, Modena, Guanda, 1954). È il discorso tenuto il 15 novembre 1949 all’Università di Firenze, nel riprendere l’insegnamento di Storia moderna.

    [2] Commemorazione del prof. Gaetano Trezza fatta nell’aula magna del R. Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento in Firenze il 16 maggio 1897, Firenze, Tip. Carnesecchi [1897], pp. 8-9 (del discorso di Villari, cui segue il discorso di G. Melli).

    [3] Su Coen in particolare cfr. G. SALVEMINI, Achille Coen, «Archivio storico italiano», 79, 1921, II [1923], pp. 320-22.
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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini nella società italiana del tempo suo (1959)

    6. - «Io dai miei maestri non imparai nulla, salvo tutto quanto poi ho imparato da me» - amerà ripetere Salvemini fino agli ultimi suoi anni. In realtà quella scuola rigorosa esercitò su di lui un’influenza decisiva. Era, in un certo senso, scuola di «positivismo»; più assai che i dieci volumi della «Rivista di filosofia scientifica», letti per consiglio della a lui carissima Ernestina Bittanti poi sposa di Cesare Battisti, incise su di lui il metodo positivo di uomini che proprio per non essere ‘filosofi’ positivisti ma ricercatori sul serio, sperimentarono del positivismo gli aspetti validi e le esigenze vitali. I Comparetti o i Vitelli, i Villari o i Coen, non erano filosofi di professione, e quando, come capitò a Villari, si mettevano a scrivere di filosofia in senso tecnico, non davano i loro frutti migliori[1]. Ma critici e storici rigorosissimi («i miei maestri erano nati storici»), aperti a problemi generali e di metodo, sensibili alle grandi questioni, legati alla cultura europea più avanzata, erano maestri esemplari di ricerca positiva consapevole, nel campo delle scienze morali. Nella prolusione del ’49 Salvemini ricorderà ancora con un sorriso ironico la sua immutabile fedeltà alle bassure positivistiche: «per conto mio sono sempre rimasto ancorato, o se preferite dir così, insabbiato, dove i maestri di allora mi condussero: masso erratico abbandonato nel piano dal ghiacciaio ritiratosi sulle alte montagne»[2]. Probabilmente alcuni di quei maestri avrebbero addirittura rifiutato l’etichetta di positivisti. Eppure Salvemini coglieva bene un loro atteggiamento generale di fronte alla vita non meno che di fronte alla scienza. Uomini che avevano spesso preso parte attiva a un momento decisivo della storia nazionale, sentivano il loro sapere solidale con la loro opera di cittadini: non erano solo educatori e dotti, ma anche uomini d’azione, in campi specifici, di propria competenza. Storici e filologi, amavano il bello e potevano essere come Vitelli interpreti mirabili di un mondo lontano; ma non amavano né gli schiamazzi dei letterati da caffè, né una cultura ‘evasiva’.
    Come dimostrò il Villari con tutta la sua condotta politica, ma soprattutto con la sua battaglia per la redenzione del Mezzogiorno, avevano il coraggio di ogni denuncia quando si trattava di difendere posizioni che avevano fatte proprie. Erano l’intelligenza chiara di una società, concretamente impegnati a operarvi dentro per orientarla secondo quello che a loro sembrava il miglior modo per attuare una convivenza giusta. Erano lontanissimi, non solo dal tipo dell’artista o dello scrittore disinteressato, ma anche dalla immagine dell’intellettuale al servizio di gruppi particolari sul terreno ideologico e propagandistico. Appartenevano essi ai gruppi dirigenti e attivi dell’Ottocento italiano, e individuavano bene i punti di crisi di una società. E se dal meridionalismo ‘conservatore’ di Villari verrà il meridionalismo socialista di Salvemini, se dalla scuola di Villari i giovani allievi usciranno socialisti, questi socialisti saranno in realtà i figli legittimi di quei conservatori. Il positivismo che li unisce è un indice molto significativo di una parentela reale.
    Di Villari non si potrà mai parlare abbastanza a proposito di Salvemini, che avrà anche trovato delle guide più feconde per i suoi studi specifici in Cesare Paoli o, per altro verso, in Bartolomeo Malfatti, ma che da Villari apprese ben altra lezione. «Che le sue fossero lezioni di metodo storico – scriverà nel ’49 – non direi. Altri in quella casa smobiliata o male ammobiliata che era la mia cultura, si prendeva ciascuno la sua stanza e insegnava a metterla in ordine, restaurare i mobili sciancati, eliminare quelli di cattivo gusto. Lui entrava in tutte le stanze, spalancava porte e finestre, faceva circolare l’aria e la luce, disfaceva magari l’ordine degli altri. Ufficialmente insegnava storia medioevale e moderna. In realtà mi insegnò a non essere una mummia»[3].
    Del positivismo il Villari s’era vantato una volta di avere avviato per primo il discorso in Italia sul «Politecnico», e aveva polemizzato con i comtiani francesi, e s’era compiaciuto della lode d’Ardigò. Salvemini sottolineerà spesso il suo modo di intendere la funzione degli studi storici: «necessità di sottomettersi alla rigida disciplina dei metodi filologico e storico»; ma «nella scelta degli argomenti, a cui vuole applicare la curiosità, [lo storico] deve essere guidato da un vigile sentimento della funzione che hanno i suoi studi nella cultura politica e nelle preoccupazioni morali del suo tempo… Non v’ha errore più pericoloso per la cultura politica di un paese, che negare la storia per la erudizione, e rompere così ogni ponte di passaggio fra il passato e il presente»[4].
    Impegno etico-politico e rigore di metodo ‘positivo’ sono i due temi che in Salvemini torneranno lungo tutta l’opera; e sorreggeranno una storiografia con preciso intento pedagogico e moralistico, legata più che non sembri a taluni aspetti dell’eredità ottocentesca: ove la scientificità si manifesta quasi esclusivamente in certo disdegno per le idee generali troppo spesso estenuate in parole generiche (si pensi all’apertura «nominalistica» della Rivoluzione francese), e in una certa staticità di visione legata a un’impostazione sociologica piuttosto che storicistica. Salvemini rivede e corregge le sue opere (il Mazzini e la Rivoluzione, sensibilmente rimaneggiate nelle successive edizioni); accresce il patrimonio dei dati; ma se mutano atteggiamenti e valutazioni etico-politiche (nel Mazzini, ad esempio), i «concetti» non mutano, né il metodo si approfondisce. In quasi cinquant’anni le idee di Salvemini, ivi comprese le riflessioni sulla storia, cambiano ben poco: la sua opera storiografica non ha storia; la sue variazioni sono il frutto di decisioni pratiche, non di ragionate indagini in progresso.
    Comunque la scuola fiorentina non fu per il giovane pugliese solo scuola di positivismo, di concretezza, di «moralismo». Il Gentile nel suo quadro più volte citato, menziona le Conferenze Fiorentine come tipica espressione della curva discendente della Firenze ottocentesca, così come si sofferma a lumeggiare le vicende dal ’79 in poi della cattolica «Rassegna nazionale», la cui Ninfa Egeria fu il liliale Augusto Conti. Non ricorda invece la «Rassegna settimanale», fondata a Firenze nel ’78 da Leopoldo Franchetti e dal Sonnino («che faceva allora una magnifica campagna contro la camorra meridionale e l’opera corruttrice del governo»), e poi trasferita a Roma, che intendeva scuotere l’opinione pubblica italiana intorno alla questione sociale, e su cui proprio il Villari pubblicò alcuni articoli molto notevoli. «La questione sociale – scriveva fra l’altro – piglia forme diverse nei popoli diversi. In Italia essa è principalmente una questione agraria… Non ci parlate di progresso, di libertà, di produzione aumentata. Noi vi inciteremmo a cercare le province più civili d’Italia. Trovereste nelle pianure lombarde la terra fertile, l’irrigazione ammirabile, l’agricoltura eccellente, i prodotti ricchissimi, e il contadino ripiegato dalla fatica, consumato dagli stenti, assalito dalla febbre, e dalla pellagra, cacciato nell’ospedale dei pazzi»[5]. Ove non può non colpire la presenza proprio di quel tema che è stato indicato fra i più originali nell’interpretazione salveminiana della questione meridionale: ossia il rifiuto di ogni antropologia razzista, invocata, più ancora che a render ragione delle miserie del Sud, a giustificare ogni forma di indifferenza e di oppressione[6].
    Ma per tornare alle maltrattate Conferenze Fiorentine, fra i cui promotori figura col Villari Carlo Placci a cui nel ’99 Salvemini dedicherà Magnati e popolani, come non ricordare, a proposito della questione meridionale, le cinque conferenze di Nitti tutte importanti, ma fra cui è particolarmente degna di nota proprio quella sul brigantaggio durante il regime borbonico[7].
    Nel 1900 Salvemini discuterà vivacemente Nord e Sud di Nitti allora uscito, e pur riconoscendone i meriti incontestabili, gli opporrà una soluzione federalista, sottolineando insieme che, sì, «la ricchezza del Nord è prodotto della miseria del Sud», ma non perché vi sia lotta fra Nord e Sud. «Non vi è lotta fra Nord e Sud: vi è lotta fra le masse del Sud e i reazionari del Sud; vi è lotta fra le masse del Nord e i reazionari del Nord; e come i reazionari del Nord e del Sud si uniscono insieme per opprimere le masse del Nord e del Sud, così le masse delle due sezioni nel nostro paese debbono unirsi per sconfiggere a fuochi incrociati la reazione, sia essa delinquente con la camorra e con la mafia, sia ipocritamente onesta con Colombo e Negri; viva essa sul lavoro non pagato dei cafoni pugliesi o su quello delle risaiole emiliane; prenda a suoi rappresentanti Crispi o Saracco; si affermi nel ‘Corriere della Sera’ o nei libri scientifici del Nitti». Salvemini aveva scelto la sua strada che, allora, correva sotto il segno di un Marx e di un Cattaneo molto personalmente interpretati e uniti. Ma come non rilevare che, venendo a studiare da Molfetta a Firenze nell’ultimo decennio dell’Ottocento, il giovane pugliese entrava in un ambiente ricco di quei temi che agiterà poi per tutta la vita, lungo linee di metodo che non è difficile riannodare alla sua prima vera formazione mentale[8].
    Quello che nella Firenze piagnona disegnata dal Gentile sarebbe stato un ribelle dalla genesi incomprensibile, si colloca molto bene in quell’orizzonte di cultura e di vita che, del resto, Salvemini stesso amò ritrarre a più riprese idealizzandolo in forme profondamente commosse, quasi a riconoscere un debito incancellabile.

    (...)


    [1] Villari, come è noto, destò non piccola eco col suo saggio La filosofia positiva e il metodo storico, uscito nel «Politecnico» il gennaio 1866, e poi incluso nei Saggi di storia, di critica e di politica, Firenze, Tip. Cavour, 1868, pp. 1-36 (Arte storia e filosofia. Saggi critici, Firenze, Sansoni, 1884, pp. 437-89). Nella prefazione alla raccolta di Saggi del ’68 (divenuta la Poscritta dell’ed. 1884, pp. 490-505) il Villari si difenderà dalle critiche dei comtiani e del Fiorentino. Nel 1884, pp. 505-6, osserverà: «La fiera opposizione da me incontrata, quando osai, la prima volta in Italia, parlare di positivismo, se non è scomparsa del tutto, è di certo molto scemata. Non pochi di coloro che mi combatterono, hanno poi mutato strada, e sono andati anzi assai più oltre di me, spesso con metodo tutt’altro che scientifico e rigoroso, senza più ricordarsi delle accuse mosse contro il positivismo, e contro chi assai modestamente aveva esposto alcune verità in esso contenute. La nuova filosofia trovò però anche valenti sostenitori, fra i quali citerò A. Gabelli… Al di sopra di tutti s’innalzò… il prof. Ardigò…». L’Ardigò, ne La morale dei positivisti, aveva, a sua volta, indicato nel Villari «il primo che ponesse la questione del positivismo (nel senso che ha oggi) in Italia». Quanto al Croce e al suo atteggiamento [nel 1895] verso il Villari filosofo, cfr. Primi saggi, Bari, 1919, p. 60, 71-2, a proposito del saggio La storia è una scienza?, uscito nel ’91 sulla «Nuova Antologia».

    [2] Su questa ostinazione «positivistica» del Salvemini cfr. alcune giuste considerazioni di P. Spriano nella sua recensione all’antologia de «L’Unità» («Rinascita», XV, 1958, pp. 539-41). Per osservare la staticità della «filosofia della storia» del Salvemini basterà confrontare La storia considerata come scienza del 1901 (estr. dalla «Rivista italiana di sociologia», VI, 1902) con le lezioni su Storia e scienza tenute a Chicago nel 1938 (ed. italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1948), sulle quali sono da vedere i rilievi crudeli, ma non del tutto ingiustificati, del Croce, «Quaderni della Critica», n. 13, marzo 1949, pp. 93-95 («Il Salvemini è rimasto al 1893»).

    [3] G. SALVEMINI, Una pagina di storia antica, loc. cit.

    [4] G. SALVEMINI, Pasquale Villari, p. 11 («non solamente era il nostro maestro, era il nostro grande amico…»).

    [5] P. VILLARI, Lettere meridionali, p. 315.

    [6] E. RAGIONIERI, op. cit., p. 523.

    [7] Cfr. G. SALVEMINI, L’autobiografia di un brigante, «Lares», Boll. d. Soc. di etnografia italiana, III, 1914, pp. 61-86; IV, pp. 163-84; per i seguenti giudizi su Nitti, v. G. SALVEMINI, Scritti sulla questione meridionale, pp. 106-7.

    [8] Sarà ancora il nome del Villari, con quello del Franchetti e di Umberto Zanotti-Bianco, che si ritroverà nel 1908 alla fondazione della Società del Mezzogiorno.
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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini nella società italiana del tempo suo (1959)

    7. – Non paia soverchio l’indugio sulla preparazione fiorentina del giovane Salvemini; ha osservato di recente il Sestan che due fattori impedirono a Salvemini di rimanere un fenomeno molfettese: la sua tempra morale e la sua venuta a Firenze. Ove non solo si lasciò prendere dal ‘positivismo’ dei suoi maestri, ma con un gruppo di compagni di studio si volse ben presto al marxismo. Scriverà più tardi che «a quel tempo in Italia tutti diventavano socialisti. Diventò socialista o giù di lì anche Benedetto Croce… I maestri dell’Istituto sapevano quel che succedeva fra noi. A Villari spiegai che l’ultima spinta a diventar socialista me l’aveva data proprio lui…».
    Su questo marxismo del Salvemini, entro una conversione vasta dell’intelligenza italiana verso il socialismo, sarebbe necessario un lungo discorso, che non potrebbe non rifarsi al modo in cui Croce, intorno al primo quarto di questo secolo, cercò di definire l’orientamento della ‘società culturale italiana’ alla fine dell’Ottocento. In alcune pagine efficacissime della Storia d’Italia, collocando nell’ultimo decennio del secolo XIX un generale e «forte appassionamento» della gioventù per le dottrine del socialismo, andò ricercandone le origine nel «vuoto che vaneggiava nel pensiero e negli ideali italiani sotto l’azione dissolvitrice del positivismo e del correlativo pessimismo, e che i giovani sentivano e di cui assai parlavano, bramosi di una luce dall’alto, di un fuoco per le loro anime, di un fine a cui tendere le forze, che non fosse alcuno dei piccoli fini della vita pratica e professionale, di un fine che aveva valore universale ed etico». L’analisi del Croce, rivolta sul piano teorico al marxismo del Labriola e su quello delle esperienze alla propria personale vicenda, ritrae bene quella che fu la posizione di non pochi giovani colti, che di lì a poco dovevano trascorrere ad altri esperimenti, rivolgendosi all’idealismo, al nazionalismo e così via. E, in certo senso, le parole crociane sembrano incontrarsi sia con i rilievi del Villari sul vuoto d’ideali dopo il ’70 negli uomini che avevano combattuto per l’Unità, sia col modo in cui proprio Salvemini, che al marxismo s’accostò anch’egli, almeno in parte, attraverso il Labriola, parla del socialismo: «la nostra era una religione coi suoi dogmi e coi suoi sacerdoti». Quello che né Croce né Salvemini cercano di determinare meglio è il complesso di ragioni più profonde che favorì il diffondersi del socialismo, alimentando insieme una serie di equivoci proprio fra quella gioventù ‘borghese’ che era spinta, piuttosto che da coscienza di classe o da ponderati motivi, da sentimenti e appassionamenti e bisogni ideali.
    Il positivismo tutto al contrario di quello che il Croce pensava, invitando alla religione dell’umanità, mettendo a fuoco la vita associata, aveva contribuito potentemente a indicare in posizioni di solidarietà umana un nuovo credo. D’altra parte, negli anni torbidi del Crispi e dei suoi successori, fra conati di governo autoritario, fra stati d’assedio e tribunali militari, in mezzo a brutalità poliziesche e a miserie d’ogni sorta, stringersi attorno alle pattuglie socialiste, che costituivano la punta più forte e più decisa nella difesa delle libertà costituzionali, era naturale per chiunque non vagheggiasse ritorni di tirannidi borboniche o pontificie. Nello scioglimento di società operaie, nella manomissione di istituzioni come l’Umanitaria di Milano, negli arresti di Turati, di Bissolati, di Costa, della Kuliscioff, del Romussi e di don Albertario; nelle repressioni sanguinose in cui innocenti a centinaia caddero uccisi o feriti in sparatorie delittuose, la parte più consapevole della nazione sentì incombente una minaccia per tutti. Quando l’«Avanti!», che fu veramente all’avanguardia della resistenza, e stimolò la battaglia ostruzionistica, salutò ironicamente nel «compagno Pelloux» l’artefice principale di una importante affermazione socialista, indicò felicemente nell’estremo tentativo di reazione la causa di una singolare convergenza di forze democratiche. Scriverà con molta esattezza proprio Salvemini nel 1907 che «il partito socialista, fra 1892 e il 1901, non fu un partito socialista ma un partito liberale con bandiera socialista, il quale però ebbe sui vecchi partiti liberali il vantaggio immenso di poter contare sulla collaborazione di forti nuclei proletari, affacciatasi alla consapevolezza dei loro interessi di classe e tratti alla lotta politica dal bisogno di rompere quanti ostacoli si opponessero alla loro volontà di organizzazione»[1].
    Ma dopo la vittoria elettorale dei cosiddetti «partiti popolari» del 1900, dopo lo sciopero generale di Genova, con la formazione del ministero Zanardelli-Giolitti nel febbraio 1901, in mezzo al prorompere di agitazioni fra il 1901 e il 1904, nell’abile e sottile politica giolittiana, lo schieramento del paese venne mutando. Molte adesioni al socialismo, soprattutto di intellettuali, si consumarono, e non di rado, per usare un’espressione gobettiana, «senza critica e senza crisi».
    E tuttavia, in quegli avventurosi approdi al socialismo, e nei successivi distacchi, converrà ulteriormente distinguere le varie vicende e i diversi orientamenti. Croce fisso alle sorti, non solo della cultura napoletana, ma delle classi dirigenti che avevano preso le redini del movimento di unificazione nazionale, vide nell’esperienza marxista un contributo a un maggior realismo politico: una lezione di machiavellismo. «Col marxismo ritornava in Italia quel Machiavelli, che si diceva dagli stranieri che gli italiani avessero sempre in mente, e che, invece, gl’italiani avevano abbandonato e dimenticato fin dalla metà del secolo decimosettimo, e in ultimo era capitato nelle mani dei professori, che nell’esporne il pensiero gl’infliggevano prediche moralistiche e lo avrebbero voluto saggio e moderato come loro.» Croce pensava qui a Villari: al positivismo e al moralismo di Villari; agli uomini che, dopo l’Unità, di fronte all’urgere dei problemi sociali di cui riconoscevano il senso, legati a una società di cui sentivano la carenza ma a cui non sapevano rinunciare, educavano i figli a un umanitarismo che poteva sfociare nel socialismo, ma che del socialismo coglieva più spesso l’apparenza che la sostanza. A Croce Marx aveva insegnato la spregiudicatezza di una tecnica di governo. Come sul piano teorico il marxismo diventa in lui un canone metodologico, sul piano pratico si trasforma in una lezione di nuovo machiavellismo. «Giovava che si lasciassero un po’ stare, insieme con la parola ‘libertà’, le altre di ‘umanità’, ‘fraternità’, ‘giustizia’, e simili, non perché non designassero tutte cose belle, ma perché ogni cosa è bella nel suo luogo… In cambio, riprese rilievo il concetto di ‘forza’…». Machiavelli e Marx vengono interpretati come maestri di una politica intesa quale rapporto di forze reali, incurante di ipostasi ideali. Svuotati entrambi della loro ‘moralità’ più profonda, vengono così chiamati a contribuire anch’essi alla elaborazione delle ideologie della «classe economica dominante». Il marxismo di Salvemini era, in realtà, molto più disarmato. Si alimentava di sentimento e di fede; si inseriva, invece che su una ben articolata cultura hegeliana, su un’ispirazione positivistica; si trasformava in un mito capace di incontrarsi col mito del federalismo di Cattaneo. Mentre Croce, dopo avere «speso alcuni anni a imparare il socialismo, e altrettanti a disimpararlo», si veniva componendo in un atteggiamento conservatore lucido e coerente, Salvemini era destinato a vivere in una continua tensione fra questioni morali e arido tecnicismo. Non a caso nel ’13, proprio su «L’Unità» il Carabellese cercò di varare la formula di «socialismo mazziniano», «rimanendo bene intesi che del mazzinianismo debbasi rifiutare l’elemento mistico, e del socialismo la lotta di classe»; che era quanto dire un mazzinianismo senza Mazzini e un socialismo senza Marx[2]. Questo, certo, non era Salvemini a dirlo: ma era l’esito possibile di un rigoroso moralismo congiunto a una sistematica distruzione delle idee generali per la concretezza dei problemi singoli. La polemica contro le ideologie senza un saldo ancoraggio a una verità generale rischiava di rovesciarsi da un lato nella distruzione di ogni orientamento e di ogni programma e dall’altro in una sorta di profetismo senza seguaci. Chi rilegga le precise considerazioni che Salvemini andò pubblicando sulla «Critica sociale» del 1897 a proposito dei socialisti di Imola, non può non restare colpito dal rigore di una diagnosi impeccabile. «Invece di fare della propaganda concreta, dimostrando ai suoi uditori gl’interessi che dividono gli operai dai padroni, il propagandista, non avendo intorno a sé né operai, né esempi di lotte, scivola facilmente nelle disquisizioni generali, che non conchiudono niente…: pizzica delicatamente il chitarrino del sentimento, si fa applaudire; e quando s’è sgolato per un’ora, ha fatto un mondo di male. Nella sua cicalata il socialismo è diventato la cosa più bella e più semplice di questo mondo…; tutti possono essere socialisti, ricchi e poveri, studenti e operai, professionisti e impiegati; basta aver buon cuore, credere nell’evoluzione, essere molto intelligenti, desiderare la rigenerazione di tutto l’universo abitato e disabitato, sentirsi pronto a soffrire per l’idea… Quando l’oste vuol fare lo stufatino di lepre e non ha la lepre, ci mette il gatto; così noi, volendo fare a tutti i costi lo stufatino socialista, in mancanza della lepre proletaria che non c’è o ci sfugge, abbiamo cucinato del gatto borghese; piccolo, magro, se si vuole, ma borghese. È una parte della borghesia che si incarica di combattere contro la borghesia per conto del proletariato. Si formano così delle organizzazioni socialiste, nelle quali la spina dorsale operaia o manca o è oppressa dalla ciccia piccolo borghese»[3].
    La critica salveminiana era singolarmente esatta e calzante. Solo che, subito dopo, lo stesso Salvemini, passando alla parte costruttiva, osservava: «Quando si tratta di questioni generali, che interessano tutta la nazione – e questo è il caso delle lotte politiche – in un paese analfabeta e balordo come l’Italia, è difficile trascinare il pubblico alla lotta; quand’anche voi proponeste la espropriazione simultanea di tutti i proprietari da farsi con decreto reale, nessuno ci si riscalderebbe su, perché in Italia il signor Tutti non ha nulla a che fare col signor Me. Nella desolante ignoranza di tutte le classi sociali italiane, il concetto dei legami che uniscono l’individuo alla generalità non esiste; qui la lotta di classe astratta non dà noia a nessuno; bisogna fare la lotta contro quella classe determinata che si trova in quel paese, anzi contro quelle persone che si chiamano così e così e vivono così e così. Se voi concretizzate le questioni, se le localizzate, se le personificate, quella stessa gente che prima sarebbe stata indifferente davanti a un terremoto universale, si appassionerà ora per una questione di un soldo».
    Si era nel ’97. Salvemini era socialista in pieno.
    Eppure i due testi sono esemplari per intendere tutta una vita politica. Prima la condanna chiara di quella piccola borghesia sentimentale che giuoca a fare del socialismo, e non sa dove il socialismo stia di casa; e tutto questo, sembrerebbe, in nome della lotta di classe. Poi lo svuotamento dall’interno della coscienza di classe, la distruzione del concetto di classe, la lotta frantumata in piccoli contrasti locali non coordinati a problemi fondamentali. All’astrattezza delle generalizzazioni vuote viene sostituita l’astrattezza ugualmente insidiosa dei fatti puntuali, delle situazioni non connesse a problemi di insieme. Dietro la polemica contro la generalità si affaccia una profonda sfiducia nel popolo, nelle masse così degli operai come dei contadini («il contadiname… in tutti i paesi del mondo – arriverà a dire nel ’49 – ha bisogno di ‘guide’: queste guide non possono venirgli dalla piccola borghesia intellettuale»). Colui che sarà il più felice critico dell’involuzione corporativa del socialismo, riducendo le grandi lotte sul piano delle «questioni di un soldo» viene a dare il maggior contributo possibile, senza rendersene conto, alla distruzione integrale del socialismo. Quest’uomo che, a un certo punto, si batté con singolare energia per le grandi conquiste, non vede che, anche se concesse, resteranno sulla carta, se non vi sia chi le rende operanti, ossia una grande forza che raggiunta la consapevolezza di sé come ‘classe’ esprima dal suo seno uomini capaci di guidare le masse. La grande insidia del ‘concretismo’ salveminiano era già evidente in quel primo fiducioso socialismo: ed era nel non rendersi conto che bisogna sì far chiaro ed efficace il combattimento nelle «questioni di un soldo», di una persona contro una persona, ma mostrando a un tempo, e con tutta evidenza, i legami delle situazioni particolari con le condizioni generali, e rendendo operanti attraverso l’azione le grandi visioni d’insieme. Altrimenti nel puntualizzare la lotta nelle persone si finisce col rimanere ossessionati da un uomo, dai limiti magari enormi di un uomo, lasciandosi sfuggire, non solo le possibilità reali offerte dalle situazioni, ma i pericoli insiti al fondo di certe battaglie[4]. Così l’adesione di Salvemini al marxismo si svuotò subito: mentalità, più ancora che di positivista o di illuminista, di empirista, sentì oscuramente che nel positivismo italiano dell’ultimo Ottocento qualcosa non andava, ma non si rese mai ben conto che esso era l’ ‘ideologia’ di quella borghesia intellettuale contro cui scagliava tanto pittoresche invettive. Né vide il nesso fra il positivismo e quella insufficienza del socialismo italiano di cui era poi critico feroce. Di qui una strana battaglia che rifiutava sul terreno concreto proprio quello che difendeva sul terreno del metodo. D’altra parte fu proprio il suo esser condizionato da un positivismo equivoco che gli precluse, non solo la comprensione teorica del marxismo, ma anche la possibilità di renderlo operante sul piano politico. Il suo motto «non badiamo alle parole, badiamo ai fatti»; la sua affermazione (del 1903): «democrazia e aristocrazia sono parole astratte, che da sé sole non dicono nulla: e io per conto mio preferisco l’aristocrazia liberale inglese alla democrazia giacobina della Francia», implicano una visione rigidamente deterministica dei fatti, di una strutturazione degli eventi, e una svalutazione della possibilità di rendere operose le idee per una trasformazione radicale dei fatti[5].

    (...)


    [1] B. CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, 1928, pp. 214 sgg.; M. VINCIGUERRA, op. cit., p. 46. G. SALVEMINI, Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio, p. IX; G. ARFÈ, Storia dell’«Avanti!» 1896-1926, Milano-Roma, Edizioni «Avanti!», 1956, I, pp. 37-9 [dell’opera di L. BASSO, Gaetano Salvemini socialista e meridionalista, Editore Lacaita, Manduria, 1959, uscita quando questo saggio era compiuto e consegnato, non si è potuto, purtroppo, far uso].

    [2] «L’Unità» di Gaetano Salvemini, a cura di Beniamino Finocchiaro, Venezia, Neri Pozza, 1958, p. 30 (B. CROCE, Il partito come giudizio e come pregiudizio); P. CARABELLESE, La politica de «L’Unità», «L’Unità», II, 22, 30 maggio 1913, p. 310. Cfr., su questo punto, il giudizio sostanzialmente esatto di Gobetti, La Rivoluzione liberale, p. 98. Quanto poi a Salvemini mazziniano cfr. P. SILVA, Chi è Gaetano Salvemini, Roma, «La Voce», 1919, pp. 26-7.

    [3] UN TRAVET, Il partito socialista di Imola, «Critica sociale», VII, 16, 16 agosto 1897, pp. 265 sgg., pp. 286-7.

    [4] E c’era al fondo la tesi del Mosca, più tardi accettata dal Salvemini senza riserve (Scienza e storia, pp. 97-8), anche se in mezzo a strani equivoci.

    [5] G. SALVEMINI, Per la scuola e per gl’insegnanti, Discorsi, Relazioni, Documenti, Polemiche, Messina, 1903, p. 239. GOBETTI, La Rivoluzione liberale, p. 98, parlò non a caso di «semplice realismo politico, riferito a un liberalismo radicaleggiante con qualche accento di solidarismo… Gli sfuggono i termini più schiettamente marxistici: il suo marxismo rimarrebbe una semplice antipatia contro le superstrutture ideologiche…». Sull’iniziazione al marxismo cfr. G. SALVEMINI, Scritti sulla questione meridionale, p. XIII.
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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini nella società italiana del tempo suo (1959)

    8. – Il saggio sul Comune di Molfetta del ’96 e l’analisi che lo stesso Salvemini ne fece nel ’55 sono molto chiari. I fatti molfettesi danno torto alle impostazioni marxiste, alla lotta di classe e così via; quindi il marxismo, utile «per svegliare gli animi dormienti», non serve a nulla sul piano dell’azione. «Il rispetto per la realtà concreta», e l’odio per le «formule» che l’uomo del 1955 lodava nel giovane del ’96, se era degno di molto rilievo, nascondeva un’incomprensione profonda del marxismo stesso, le cui formule non erano «spiegazioni», o non erano soltanto spiegazioni di una realtà data, ma precise indicazioni di una realtà da costruire. Quanto di fiducia nell’uomo e di riconoscimento delle sue possibilità c’era in Marx sfuggiva a Salvemini, mentre non sfuggiva a Croce. Croce, «borghese» di grande tradizione, aveva il senso preciso della fecondità dell’azione; e dal marxismo trasse incentivo alla sua concezione dell’uomo come soggetto costruttore della storia. Il positivismo salveminiano, aperto alle seduzioni deterministiche, nelle idee rischiava di non vedere che astrazioni, mentre una profonda, anche se non confessata sfiducia negli uomini, negli Italiani quali li vedeva, lo portava a svalutare ogni «grande» lotta, per trincerarsi dietro l’azione del rapporto individuale come rapporto di educazione di un io rispetto a un tu, di un professore rispetto a un allievo: salvare un’anima nell’impossibilità di salvare un popolo. «La sua concezione razionalistica – scriveva Gobetti – si risolve in un’azione di illuminismo e di propagandismo che può riuscire utile a una società di cultura, non a un partito.»
    Così se il socialismo fu per molti, in quella fine di secolo, un’avventura sentimentale, in Salvemini fu, almeno come marxismo, un fatto culturale, una filosofia della storia, che gli servì a scrivere Magnati e popolani, se poi – e non è pacifico affatto – di una posizione marxista compresa a fondo, discussa e rifiutata nei suoi fondamenti, si potrà parlare in senso proprio[1].
    Del resto l’ammirazione per Cattaneo manifestatasi molto presto è già significativa; e più significativo ancora è il modo di quell’ammirazione. Proprio al principio del ‘900 Salvemini scriverà: «su Carlo Cattaneo e sul suo fratello intellettuale Giuseppe Ferrari, la scienza ufficiale ha fatto finora la congiura del silenzio; gli stessi repubblicani e democratici hanno – salvo pochi studiosi lombardi – dimenticato i tesori scientifici e gl’insegnamenti fecondi raccolti nelle opere di Cattaneo e di Ferrari, e si sono perduti dietro al misticismo inconcludente di Mazzini e di Saffi. Ma la nostra democrazia, appena finirà di trastullarsi col dio, a cui non crede, e col popolo, che non sa cosa sia, appena finirà di essere congrega di sognatori per divenire partito d’azione e di governo, dovrà necessariamente risalire, scavalcando le formule mazziniane, alle dottrine positive dei due più eminenti discepoli di Gian Domenico Romagnosi»[2]. Il soggiorno lombardo e i contatti con Arcangelo Ghisleri avevano ormai congiunto nella mente di Salvemini il socialismo a Cattaneo. Il mito salveminiano di Cattaneo era nato.
    Anche qui converrà considerare con cautela l’entusiasmo reale per l’opera dello scrittore lombardo, la accettazione del federalismo, e di certo suo modo di affrontar le questioni. È probabile infatti che avessero ragione quelli, fra gli elogiatori di Salvemini (e non mancarono), che lo avvicinarono anziché a Cattaneo a Mazzini. Ché, se da Cattaneo attinse molti elementi periferici, v’è da chiedersi in che misura ne facesse propria l’ispirazione fondamentale. È stato detto che l’antologia del ’21 per la collana dell’Ojetti, con le lucide pagine dell’introduzione, costituisce, nella storia dell’influenza di Cattaneo, un punto fermo; e, certo, nessuno può negare che il profilo salveminiano sia molto efficace, e taluni aspetti dell’attività del Cattaneo messi egregiamente a fuoco[3]. Ma può dirsi altrettanto del positivismo del Cattaneo, del suo metodo, del modo della sua sintesi (perché a una sintesi il Cattaneo e tendeva e giungeva)? Non a caso del lavoro su La città pubblicato sul «Crepuscolo» si dice bensì che è ‘magnifico’, ma non sembra se ne faccia uso rilevante. Il senso del concreto è valorizzato piuttosto nell’aspetto negativo, nel frammentarismo delle indagini sui fatti, che non nell’idea direttrice di un metodo, e di una sintesi raggiunta attraverso la storia di un’unità viva, in un movimento operoso e costruttivo. Cattaneo aveva, prima ancora che la teoria, il senso dell’umanità come società che opera: per questo i suoi scritti, anche quando sembrano più puntuali e isolati, danno sempre l’impressione di rannodarsi a un centro, a un gruppo umano storicamente definito nel cui orizzonte tutto si anima, dalla terra alle mura di una città. E v’è, in Cattaneo, una gran fiducia nell’uomo, nella sua operosità, nel suo fabbricare. V’è in Cattaneo, una storicità che invano si cercherebbe così in molti storicisti come nei sociologi positivisti.
    In Salvemini c’è, in fondo, una grande sfiducia proprio nei gruppi umani. Egli potrà anche sperare di imbattersi qualche giorno in un galantuomo; ma come ogni moralista intransigente, appassionato alla separazione manichea qua bene-là male, qua bianco-là nero, è portato a vedere dovunque dei bricconi che ingannano dei poveri diavoli. I massoni, i preti neri e i preti verdi, i clericali e gli anticlericali, gli avvocati ‘e simili insetti’, i burocrati, i politicanti, i questori e i prefetti, i deputati, visti come categorie, sono sempre fieramente anatemizzati, anche se poi, singolarmente, qualcuno può salvarsi. Ma si direbbe che un peccato d’origine pesi sempre sulle ‘menti associate’, come pesa sui sistemi di idee, sulle sintesi, sui concetti generali.
    Per questo come già Marx così anche Cattaneo è per Salvemini, da un lato, un complesso di suggerimenti particolari, dall’altro un mito, anche se, beninteso, un mito salutare lanciato nella cultura italiana proprio da questo pugliese, così pieno di problemi meridionali e così sfiduciato nei riguardi del mondo meridionale.

    (...)


    [1] Anche il Sestan (Salvemini storico e maestro, «Rivista storica italiana», 70, 1958, p. 19) è molto cauto nel parlare del marxismo di Salvemini; «anche se non proprio secondo il più rigoroso materialismo storico marxistico, del quale ignorava la dialettica» - dice, riprendendo una osservazione di E. RAGIONIERI, loc. cit., p. 629 [e, del Sestan, cfr. il saggio incluso in questo volume].

    [2] «Critica sociale», X, 1 (1° gennaio 1900), p. 13. Cfr. Scritti sulla questione meridionale, p. XVI: «Ero non solo socialista e repubblicano ma anche federalista. Nell’inverno 1898-99, mentre insegnavo storia al Liceo di Lodi, scoprii nella Biblioteca comunale gli scrittori politici lombardi del Settecento e dell’Ottocento, e Carlo Cattaneo, che sopra tutti com’aquila vola». Ma per farsi un’idea più precisa di questa lettura converrà scorrere le annate de «L’educazione politica», cui il Salvemini collabora abbastanza attivamente, e in cui Gioia, Romagnosi e Cattaneo son nomi assai cari.

    [3] Il giudizio è del Sestan, loc. cit., p. 29, il quale, tuttavia, soggiunge: «ma che cosa egli debba a Cattaneo è difficile dire; all’infuori della illuminazione sulla storia politica lombarda nell’800, manifestata nel pamphlet del ’99 [RERUM SCRIPTOR, I partiti politici milanesi nel sec. XIX, Milano, Ed. Educazione politica, 1899], si trattò, direi, più che altro di un incontro con uno spirito affine, ma quando la mente di Salvemini aveva già conseguita la sua maturità». In realtà, fino a che punto erano spiriti affini?
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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini nella società italiana del tempo suo (1959)

    9. – Del resto, il processo di svuotamento di ogni posizione ‘ideale’, di ogni ‘ideologia’, è in Salvemini sistematico. Fino dal 1903 tale direzione si manifestò chiaramente nella condanna dei partiti politici, e non in una polemica transitoria, ma in una ragionata conclusione. Discorrendo delle Camere del lavoro che, «come i Comuni del Medioevo rappresentarono nella società feudale i primi nuclei della società moderna, così sono nel seno della presente società capitalistica le prime costruzioni della futura società», conclude: «esse trovano certo nelle incoercibili tendenze del proletariato, che vi si raccoglie, la ragione perenne di evitare alcuni contatti e di accettarne altri; e sarà ben difficile che una Camera del lavoro si allei in una battaglia elettorale, per combattere il partito socialista, col partito clericale: ma pur muovendosi nelle loro battaglie politiche su un campo d’azione non illimitato, quanta libertà di movimenti esse non esercitano di fronte ai partiti politici secondo i tempi e i luoghi!... Sono organizzazioni professionali, che si alleano volta per volta ai diversi partiti politici per promuovere i loro permanenti interessi professionali. E quanto più intensa e vorticosa diventerà la vita politica, quanto più complessa e differenziata e molteplice sarà la struttura sociale, tanto più comuni saranno i contatti provvisori e più rare le fusioni definitive dei gruppi professionali nei partiti politici; i vecchi partiti politici, anzi, quali oggi li concepiamo e quali si adattavano ad ambienti sociali arretrati e relativamente semplici, finiranno con lo sparire, e i contrasti non avverranno fra gruppi politici perenni e quasi cristallizzati, ma fra federazioni transitorie di gruppi professionali, agglomeratisi per l’attuazione di speciali circoscritti programmi, e scioglientisi per passare a nuove agglomerazioni non appena sia stato raggiunto lo scopo immediato della campagna»[1].
    Siamo nel 1903, e Salvemini è nel partito socialista dal ’96. Si potrebbe dire che, qui, egli pensasse al momento in cui, giunte al potere le classi lavoratrici, i partiti politici in senso tradizionale sarebbero spariti. In realtà c’era qualcosa di più; c’era veramente una svalutazione in genere dei partiti politici organizzati. C’era, in formazione, l’atteggiamento che sbloccherà nelle polemiche de «L’Unità», non a caso destinata a ospitare il famoso articolo di Croce del 6 gennaio del ’12, in cui si contenevano affermazioni molto precise. Il Croce, dopo aver chiamato il concetto della lotta di classe «logicamente assurdo… e praticamente pernicioso perché distruttivo della coscienza dell’unità sociale», non solo sottolineava l’urgenza di restaurare tale coscienza «scossa dalla lunga consuetudine dell’ideologia socialistica», ma soggiungeva anche che «la vera azione politica richiede sempre un trarsi fuori dai partiti per affisare, sopra di essi, unicamente la salute della patria»[2]. Naturalmente il discorso del Croce era ben più sottilmente articolato, e si fondava sulla polemica contro «l’indebito trasferimento della dialettica hegeliana dai concetti puri alle classificazioni empiriche». Ma a parte il valore «speculativo» di quella polemica, il Croce stesso discorrendo in quel modo su un giornale che non era tecnicamente «filosofico» agevolava, a sua volta, una confusione non meno perniciosa, aprendo la strada a un’indiscriminata polemica ‘politica’ contro i partiti proprio in sede empirica. E quel «trarsi fuori dai partiti» rischiava di assumere un ben diverso significato alle orecchie di teorici meno provveduti: di Mussolini, per esempio, di cui su «L’Unità» del 26 settembre 1913 poteva leggersi un elogio del tutto singolare proprio perché, «come tutti i veri uomini di fede, che gl’imbecilli chiamano ‘teorici’, ha quel sentimento della realtà profonda che manca agli ebeti del praticismo grossolano»[3].
    L’articolo sui «partiti» era di Croce, non di Salvemini, il quale nel marzo del ’12 ribadiva essere la crisi socialista nata dal fatto che il partito non rappresentava «l’intera classe lavoratrice, ma interessi particolari di gruppi» di lavoratori («Il socialismo, oggi, in Italia – ribadiva il 13 aprile – non è un movimento politico della intera classe lavoratrice: è semplicemente il movimento politico di una modesta frazione della classe lavoratrice, i cui condottieri, mentre parlano in nome dell’intera classe lavoratrice, in realtà non si preoccupano che dei soli interessi immediati e parziali dei soli gruppi con cui si trovano in contatto»). Egli non aveva inteso «rinnegare sic et simpliciter gl’ideali della sua gioventù». E tuttavia proclamava «il bisogno di una nuova azione politica, non legata a nessuno dei partiti tradizionali, oramai tutti irreparabilmente screditati e disfatti». E ribadiva, programmaticamente: «I nuovi valori intellettuali, morali, che noi procureremo di importare nella vita pubblica, non hanno nulla a che vedere con gli ideali tramontati e superati dei vecchi politicanti… All’infuori di ogni dottrinarismo di parte o di pregiudizio di setta, e dal solo punto di vista di quello che ci sembra l’interesse permanente della nostra nazione, noi ci proponiamo, fra gli altri fini, appunto quello di contribuire alla già bene avviata scompaginazione dei vecchi gruppi politici, e di promuovere la formazione di nuovi aggruppamenti più seri non intorno a simboli di fede astratta, ma sulle soluzioni di determinati problemi concreti». Croce, su «L’Unità» del 27 gennaio, era ben giustificato nel chiedere se fosse poi necessario parlare ancora di democrazia. A suo parere conveniva «contare sugli uomini saggi, lavoratori e consapevoli del loro dovere verso la patria»; e mentre, in sostanza, rifiutava la democrazia, ricordava la sua «filosofica incapacità a parlare a uomini di partito» e per contro, «la comodità» di indirizzarsi, almeno idealmente, agli «uomini di buon senso e di buona volontà». Molto assennatamente Gino Luzzatto avvertiva: «per quanto poco valgano i partiti esistenti, essi rappresentano sempre qualcosa di meglio dell’individualismo assoluto e della completa disorganizzazione». E soggiungeva: «un partito, per quanto sia decaduto, per quanto mostri evidente la tendenza a trasformarsi in una setta chiusa e utilitaria, è sempre l’unione spontanea di persone, che serviranno forse inconsciamente all’ambizione o all’interesse di pochi, ma che per devozione ad un’idea si sottomettono a doveri di solidarietà e disciplina, che altrimenti non sentirebbero o non accetterebbero mai». Quasi profeta, concludeva che i partiti erano pur sempre una forza a cui non si doveva rinunciare «con troppa leggerezza»[4].
    Salvemini, non solo li metteva in parentesi, ma accumulava gli strali contro di essi, e contro la democrazia e le istituzioni parlamentari in genere: «la più parte dei deputati e giornalisti della democrazia italiana – sieno radicali, sieno repubblicani, sieno socialisti – non costituiscono oramai più che una matta e bestiale accozzaglia di urlatori disorientati, di deficienti abulici, di ribaldi che si vendono all’incanto». E ancora: «questa è la tattica della democrazia nostrana: ignorare tutte le vere riforme democratiche, lasciare indisturbati gli interessi dei conservatori, e gemere periodicamente sulla immatura morte del Signor Giordano Bruno»[5]. Gli esempi si potrebbero moltiplicare; nemico delle formule egli era affascinato da una formula: studiare le questioni concrete, proporre soluzioni concrete, fare programmi concreti su cose precise e su questi stipulare alleanze ed accordi precisi. Quando Gramsci parlò di messianismo culturale e di giacobinismo professorale (Salvemini trovava proprio in Crispi un perfetto temperamento di giacobino per gli «squilibri di pensiero» e le «intemperanze di linguaggio»), disse una notevole verità, e soprattutto colse nel segno quando sottolineò la terribile astrattezza di questa concretezza, il suo valore tutto intellettuale, la sua mancanza di senso del reale[6]. Salvemini aveva la candida fiducia che l’Italia fosse una classe di scolari resi indisciplinati da alcuni cattivi professori. Viene un buon professore, fa una bella lezione, e tutto è accomodato. «La realtà invece è che un paese, e specialmente l’Italia per le particolari condizioni del suo popolo, è diversamente preparata nei singoli individui, e solo uno sforzo assiduo, paziente, di diecine di anni, una determinata idea riesce a diffondersi efficacemente negli organismi liberamente costituiti, che liberamente accettano un indirizzo e liberamente operano in armonia.»
    Salvemini ignorò sempre la faticosa opera di formazione di un popolo, le sfumature richieste dalla complessità delle situazioni e dalla mobilità degli uomini. La sua chiarificazione, aveva ben visto Gobetti, era soprattutto schematizzazione, e quindi astrattezza: era un’altra astrattezza, nata nel gusto dei simboli matematici piuttosto che dei termini verbali, mentre il suo illuminismo si muoveva ai limiti di una mistica fede da illuminato. Quando i ‘tecnici’ hanno precisato la ‘verità’, il popolo, che è fondamentalmente buono quanto sciocco, opera bene. E se questo non si verifica, da un lato l’ottimismo si rovescia in pessimismo e dall’altro in una sorta di attesa del miracolo: e ci si muove fra la caccia fanatica al ‘cattivo’ o ai ‘cattivi’, e una profonda sfiducia, di sapore quasi religioso, verso ogni aggruppamento, destinato a corrompere le doti native dei singoli.
    Il linguaggio che i primi critici di Salvemini – che pur ne avevano sentita più forte la seduzione – usano, caratterizza con le sue inflessioni religiose un modo non casuale di reagire: messianismo, profetismo; «opera quasi di predicatore», dicono Gramsci e Gobetti. Vinciguerra parlerà di «radicalismo puritano», e Gobetti insisterà sul «fanatismo», sulla tendenza a sottolineare «quasi religiosamente» il fondo di misticismo delle moltitudini. E di fatti l’assoluta intransigenza morale, il semplicismo manicheo, l’oscillazione fra ottimismo ingenuo e pessimismo radicale, e soprattutto la fede che, anche senza faticosi processi intermedi, il bene e la verità finiranno col trionfare, sembrano caratterizzare, piuttosto che l’uomo politico, l’apostolo e il profeta.

    (...)


    [1] G. SALVEMINI, Per la scuola e gl’insegnanti, pp. 239-40.

    [2] L’Unità, a cura di B. Finocchiaro, p. 31.

    [3] Un passo falso, «L’Unità», II, 39, 26 settembre 1913, p. 379.

    [4] L’Unità (a cura di B. Finocchiaro), pp. 25, 27, 33, 43, 67.

    [5] Meminisse juvabit, «L’Unità», I, 12, 2 marzo 1912. E nella Commemorazione di Giuseppe Kirner, Bologna, 1906 [Padova, Tip. Gallina], p. XVI, si legge: «I nostri uomini di Stato – così è abitudine chiamarli – se vivessero un po’ più a contatto con la vera vita del paese e un po’ meno in quello strano villaggio di 508 pettegoli che si chiama Camera dei deputati…». Del resto la più vistosa fraseologia contro le mediazioni sia del Parlamento che dei partiti si trova già in Salvemini (per non parlare dell’altra fraseologia, tutta violenza e minaccia, contro i ‘neutralisti’, all’epoca dell’intervento e della prima guerra mondiale). Quanto al giudizio su Crispi, cfr. G. SALVEMINI, La politica estera di Francesco Crispi, Roma, «La Voce», 1919.

    [6] A. GRAMSCI, Scritti giovanili, Torino, Einaudi, 1958, p. 273; L’Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, 1954, p. 258.
    Ultima modifica di Frescobaldi; 13-08-20 alle 01:51
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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini nella società italiana del tempo suo (1959)

    10. – Nel 1922, ormai in pieno fascismo, Gobetti, in un certo senso il più intelligente dei salveminiani, definiva addirittura spaventosi i limiti di Salvemini: ed aveva senza dubbio ragione. Eppure in circa un trentennio di attività, con tutti i suoi limiti, Salvemini si era battuto con singolare energia e con grande chiarezza su questioni di vitale importanza. Periodizzare può sembrare relativamente facile: dall’adesione al partito socialista nel ’96 alla sua uscita nell’’11; dalla collaborazione a «Critica sociale» fra il ’97 e il 1910; dalla partecipazione al movimento vociano fino alla fondazione dell’«Unità» nel 1911. Ma a dir vero sarebbe molto difficile indicare un reale sviluppo dell’atteggiamento salveminiano, il quale, puntualizzato su questioni singole, e animato da sentimenti piuttosto che da concezioni generali, amò ripetere taluni motivi con martellante insistenza piuttosto che non approfondire e comprendere i nessi.
    Su «L’Unità» del 18 aprile 1913, e con la consueta chiarezza, Gino Luzzatto tracciò le vicende di quei giovani che s’erano avvicinati al socialismo sul finire dell’Ottocento: «Io credo che la maggior parte dei giovani, che sono venuti al socialismo prima del ’98, vi siano stati trascinati per una parte dal fascino di una filosofia della storia, che dava al corso delle vicende umane il carattere di una logicità spietata, e permetteva, o sembrava permettere, di vedere, attraverso l’esteriorità e le ideologie dei partiti, i veri moventi dell’azione politica; per l’altro dalla convinzione profonda della giustizia e della necessità della lotta di classe, che non rappresenta affatto il trionfo dell’egoismo materialistico ed antinazionale, ma il pieno sviluppo del sentimento di solidarietà fra gruppi di uomini, che acquistano coscienza di una comunanza di interessi. Molti di noi vennero allora al socialismo, non dalla democrazia, ma in odio ai vecchi partiti liberali e democratici, attratti appunto dal soffio di sincerità e di schietto idealismo, che il cosiddetto materialismo storico e la propaganda di una coscienza di classe portavano in sé, in perfetta antitesi con l’ipocrisia delle vecchie ideologie liberali e democratiche destinate a coprire il più cinico affarismo e il più intollerante spirito di setta».
    In Salvemini «la filosofia della storia» non incise profondamente; il suo concetto della storia, sostanzialmente costante attraverso i decenni, sa di positivismo e di sociologia, e non giunge a formulazioni sicure e salde; né della storicità del reale la sua mentalità avrebbe mai potuto divenire profondamente consapevole. Domina, invece, nel suo socialismo la polemica e, insieme, il «sentimento» dell’unità della classe lavoratrice. Il suo meridionalismo stesso prende consistenza nell’affermazione che i contadini del Sud e gli operai del Nord devono unirsi contro gli sfruttatori così del Nord come del Sud. Accanto alla sua battaglia per la scuola, è da porsi la battaglia costante fino alla esasperazione per l’unità dei lavoratori, per un’unità consapevole, così delle campagne come delle città, così del Nord come del Sud.
    C’era, al fondo, un’esperienza personale, espressa nel ’99 con parole commosse e commoventi su «Educazione politica»: «lottare nell’oscurità di una piccola città di provincia a ogni momento contro le insidie, le menzogne, le calunnie, i tranelli di tutta la piccola borghesia, che pur è la classe in cui si è nati e si vive; vivere coi contadini una vita di miserie, mentre un piccolo cambiamento di condotta vi procurerebbe l’agiatezza e la pace; sentirsi combattuto e odiato senza misericordia da tutti i ‘galantuomini’, che sono pure la nostra classe naturale, mentre dipende da voi, solo da voi, il rientrare, festeggiato, adulato, premiato, in pace coi vostri nemici». Questo è Salvemini, col suo amore per i contadini pugliesi e col suo odio implacabile – è la parola – contro la piccola borghesia cosiddetta ‘intellettuale’ di miseri impiegati e di meschini burocrati, servi e strumenti degli sfruttatori e degli oppressori, sempre conformisti e ministeriali, avvocati, letterati da strapazzo, «teste vuote» uscite dalle università meridionali. Dopo l’articolo crudele su Cocò all’università di Napoli o la scuola della mala vita, uscito sulla «Voce» del 1908, sul «Ponte» del ’52 scriverà in modo non diverso: «mi basterebbe che i comunisti ‘facessero fuori’ nel Napoletano, nella Sicilia e nella Sardegna, non più di ventimila dottori in legge, e sopprimessero, in quelle regioni sventurate, tutte le facoltà di giurisprudenza, scienze economiche e scienze politiche, insieme con gli insegnanti. Inoltre, domanderei che i comunisti italiani istituissero ovunque cliniche per insegnare a uomini e donne il segreto per non far figli, cioè per non riempire l’Italia meridionale con nuovi straccioni tracomatosi, e dottori in legge perdigiorno. A quell’uopo sarei disposto ad essere io stesso uno dei primi ad essere ‘fatto fuori’…».
    Piccolo borghese intellettuale che aveva scelto come compagni i proletari, e i proletari del Sud, i ‘cafoni’ pugliesi che non avevano le possibilità degli operai del Nord, vive la necessità di una solidarietà di tutti i lavoratori d’Italia contro i ‘borghesi’ e i loro strumenti (e, come al solito, guarda spesso piuttosto alle piccole comparse che ai grandi registi). Proprio quest’urgenza lo fa critico implacabile dell’involuzione corporativa del partito socialista. E quando riesce a non maledire, a non inveire; quando ascolta la sua ispirazione più profonda, allora ritrova tutta la ‘fede’ dei suoi ‘anni mirabili’. Nel gennaio del ’12, su «L’Unità», dopo la solita invettiva contro il partito socialista, esclama d’un tratto: «per fortuna, la marcia della classe lavoratrice non può essere fermata neanche dal… partito socialista. Resa inerte e malefica una forma di organizzazione, la forza proletaria che si sviluppa cercherà altre vie e troverà altri porti. La degenerazione inonorata del partito socialista non è la morte del socialismo: è il semplice fallimento di alcuni nomi e di alcune formule: alcuni anni di disorientamento e di crisi: e poi la nuova via e la nuova vita». Erano le tesi sostenute da anni e proclamate con vigore al Congresso del ’10: il «partito socialista… deve essere il partito della intera massa lavoratrice… deve correggere le tendenze localiste, egoiste, corporativiste… Il partito, essendosi tutto sequestrato a servizio delle minoranze organizzate, ha perduto il contatto con le grandi masse: non ha più né vigor di vita né forza di espansione»[1].
    Qui era il più grande Salvemini: nel rifiuto costante di considerare socialismo il malcontento di piccoli borghesi infidi, nella rivendicazione dell’unità dei lavoratori, e nella denuncia dei privilegi di gruppo in seno alla classe operaia medesima, destinati fatalmente a frantumarne la compattezza a favore dei gruppi borghesi (e questa è la ragione della polemica contro il giolittismo che punta sui ‘privilegi’ operai, per spezzare l’unità dei lavoratori). Poco importa se, mentre denunciava l’insidia latente nella riduzione della lotta di classe «a contrasti frammentari e locali fra alcuni gruppi borghesi e alcuni gruppi proletari», Salvemini non si accorgeva che il suo famoso «concretismo» finiva proprio nei medesimi scogli. La fragilità del teorizzamento si riscattava nella validità di un principio saldamente proclamato in una costante polemica. Capace piuttosto di distruggere che di costruire, Salvemini riuscì a conservare sempre il senso della solidarietà con i lavoratori, facendone, fino all’avvento del fascismo, il centro della propria azione. Naturalmente, anche su questo punto, anzi proprio su questo punto, non dovremo chiedergli logica articolazione di tesi, o accordo preciso con se stesso. L’aver scoperto nel Sud, al posto di una lotta di classi nettamente definite, contrasti di fazioni mascherate da partiti all’interno della stessa classe, ossia della piccola borghesia professionista e impiegatizia, aveva messo in crisi il suo marxismo; né si accorse mai che la battaglia per l’unità dei lavoratori in una lotta comune, proprio questa, era tanto marxista quanto poco lo era, al contrario, la sua meccanica applicazione del concetto della lotta di classe alle situazioni meridionali.
    In realtà quello che lo portava a sostenere con tanta forza la soluzione della questione meridionale attraverso un movimento dei contadini del Sud, alleati con i lavoratori del Nord contro la piccola borghesia al servizio dei latifondisti e dei governi, non veniva da lui inserito in una visione generale e «reale», ché anzi nella lotta concreta la stessa «intuizione» felice quasi si perderà nella polemica particolare o sfumerà nei «miti», finché nel ’49 arriverà a sostenere che la piccola borghesia intellettuale del Nord deve esser la ‘guida’ del ‘contadiname’ del Sud. Laddove la rivolta contro una presunta inferiorità «razziale» dei meridionali si colorava di felici argomentazioni, proprio la «concretezza» di una complessa situazione si perdeva di nuovo, quando a rimedio di tutti i mali, si invocava prima il suffragio universale e, alla fine, l’invio di qualche buon insegnante settentrionale.
    Quando i poteri taumaturgici del voto non spazzarono subito via le camorre, Salvemini cercò di individuarne le cause in pressioni esterne e in singoli ‘colpevoli’, proprio lui che, con tanta esattezza, indicherà tra le ragioni della vittoria del fascismo, prima ancora della violenza, la crisi interna del socialismo («un partito che nell’ora della difficoltà vede a fiotti le sue schiere rivolgersi verso le bandiere nemiche, dove cercare la ragione di quella rovina in una profonda debolezza morale propria, anziché nella semplice violenza materiale degli avversari»). E quando non spererà più in miracoli di ‘riforme’, si rifugerà nella speranza di ‘evangelizzare’ gl’ignoranti e i cattivi con qualche professore, visto in sembianze di missionario e di predicatore.
    È stato detto, con molto acume, che Salvemini procedeva sempre per «intuizioni» («ma separate e sparpagliate l’una dall’altra»): era, questa, la rigorosa conseguenza del suo «problemismo» e del suo «concretismo», del suo esasperato «empirismo», che tendevano a puntualizzare sempre una questione particolare, non solo al di fuori dei suoi molteplici nessi, ma nell’isolamento «atomico» dei singoli aspetti. La sua avversione alle vedute d’insieme, alle idee generali, alle idee astratte che sono pure necessarie almeno come strumenti per coordinare e connettere; il suo odio per la ‘filosofia’ (anche per una filosofia ‘positiva’), se gli consentirono un uso rigoroso ed acuto dell’intelletto gli preclusero le sintesi della ragione. Il discorso salveminiano, perfettamente logico entro un ambiente limitato, non cercava mai agganci ulteriori per una più vasta unificazione. D’altra parte, poiché non è possibile operare senza connettere in qualche modo in un centro i molti processi singoli, invece che sul piano di un’integrazione razionale, l’unità si proponeva su un altro piano: come giudizio morale. Mentre veniva rifiutata la possibilità, sia pure come ipotesi di lavoro, di «visioni del mondo», una divisione netta fra bene e male veniva a sostituire un’articolazione logico-dialettica sdegnosamente respinta sia sul piano delle interpretazioni storiche che su quello dell’azione politica.
    Di qui, accanto a una dirittura morale singolarissima nella nostra vita nazionale, accanto a un fervore che trasfigurava ogni anche piccola battaglia in una crociata liberatrice, un frammentismo che poteva giungere al limite della contraddizione. E se, certo, bellissimo – e da ricordare – è il suo motto che «la chiarezza è l’integrità morale della mente», andrà tuttavia soggiunto che, se per chiarezza s’intende, non un’evidenza «atomica», ma la coerenza formale di un intero e complesso discorso, non sempre Salvemini riesce chiaro. Onde quel motto, che è pur valevole, non lo è per lui; in lui opera un altro canone: che l’onestà è la misura unica di ogni proposizione; ed è un canone altrettanto bello, anche se, di fatto, deve essere ulteriormente chiarito nel senso che, in tal modo, le affermazioni vengono considerate, non in rapporto alla verità e al sapere, ma in funzione di una moralizzazione, il cui criterio, a sua volta, non è frutto di discussione, ma alcunché di immediato, una voce della coscienza umana uguale per tutti («un fondo inesauribile di aspirazioni al bene»). Ove, a parte il presupposto del «senso comune», che solo un empirista puro o un animo religioso può accettare senza discutere, si affaccia un evidente spunto, più ancora che moralistico, pragmatistico, anche se di un pragmatismo non mediato e non approfondito. Ma una cosa è certa: che dietro la superficie di ‘razionalismo’ il vero foco dell’opera salveminiana è in una presa di posizione sentimentale, in una serie di impeti sempre generosi, non in un rigore razionale. La sua morale è una morale del sentimento di tipo settecentesco.
    Questo, e solo questo, può spiegare il suo procedere per «miti»: marxismo e socialismo, positivismo; Cattaneo; l’incontro col movimento vociano e con Prezzolini, che ebbe l’abilità di riunire le forze più disparate proprio facendo appello a quella componente che negli uni era dichiaratamente irrazionalistica e misticheggiante, e nei più seri era appassionamento ‘moralistico’ (onde i più seri si venivano via via staccando tutti dalla «Voce» su una «questione morale» dichiarata o inespressa). E questo spiega ancora quel battersi per grandi cause – suffragio universale, anticolonialismo, unità della classe operaia – ma senza saldarle fra loro e senza saldarle alle situazioni particolari, viste benissimo nella loro particolarità, ma senza una congiunta analisi degli anelli intermedi. Di qui la lotta contro la campagna libica e quella a favore dell’intervento, l’una alimentata soprattutto dallo sdegno per la retorica giornalistica falsificatrice di una situazione, l’altra da una visione parziale che non approfondiva le condizioni italiane. Di qui il delenda Austria e tutto il modo di impostare la questione dei trattati; di qui la valutazione di taluni aspetti dello stesso fenomeno fascista, anche dopo il ritorno dall’America. Di qui l’intransigenza morale unita all’evidente «ingiustizia» di tante sue condanne e polemiche: da Giolitti a Croce. Già Gobetti osserverà – in parte forzando – una certa convergenza di fatto fra Salvemini e Giolitti («Giolitti… come uomo di governo aveva le sue stesse idee, i suoi metodi, i suoi pregiudizi»). Non sarebbe difficile, forzando ugualmente, indicare certe convergenze con Croce, o con altri suoi avversari. Né sarebbe difficile mettere in evidenza tutte le contraddizioni in cui si involse, mostrando come i tratti suoi più validi non di rado siano felici incoerenze. Basti pensare, del resto, alla sua accettazione incondizionata della tesi del Mosca, e alla difficoltà di accordarla con troppi altri aspetti della sua polemica politica. Sì che, di continuo, dietro questo esaltatore di Cattaneo e critico di Mazzini, vien fatto di ravvisare piuttosto l’ombra di Mazzini che quella di Cattaneo.

    (...)


    [1] Lo sforzo di non definirsi, «L’Unità», I, 6, 20 gennaio 1912; Tendenze, p. 114.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 
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