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  1. #1
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    Predefinito Confessioni di uno storico (1990)

    La lezione dottorale all’Università di Bologna


    di Giovanni Spadolini – In «Nuova Antologia», a. CXXV, fasc. 2173, gennaio-marzo 1990, Le Monnier, Firenze, pp. 36-49.


    A Giovanni Spadolini è stata conferita l’11 dicembre 1989 la laurea honoris causa in Storia dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, ultimo atto del ciclo delle celebrazioni del IX centenario dell’Ateneo.
    Nella lezione dottorale – che viene integralmente pubblicata – Spadolini ha tracciato le «confessioni di uno storico»: «il mio impegno culturale è stato volto a riportare alla luce la storia e le vicende di tutta quell’Italia clandestina e sotterranea che non si poteva riassumere negli schemi dell’Italia ufficiale e liberale. Da questi studi nascono i valori fondamentali dell’Italia di minoranza, che hanno costituito negli ultimi trent’anni la base della mia azione politica, congiunta all’impegno culturale e all’impegno civile».
    Il conferimento della laurea è avvenuto in coincidenza con l’inaugurazione dell’anno accademico, novecentoduesimo dalla fondazione dell’Università di Bologna.
    Il magnifico Rettore, Fabio Roversi Monaco, ha sottolineato il particolare significato dell’avvenimento: «Non possiamo non ricordare che fu proprio il presidente Spadolini a intervenire all’inaugurazione delle celebrazioni per il IX centenario dell’Alma Mater. Il momento che stiamo vivendo si ricollega idealmente a quella suggestiva cerimonia».
    Successivamente il preside della Facoltà di Lettere d Filosofia, Antonio Carile, ha letto il dispositivo del Consiglio di Facoltà che ha attribuito la laurea honoris causa […].


    Premessa

    Esprimo il mio grazie commosso al Rettore, al corpo accademico e in particolare ai colleghi della facoltà di lettere che hanno voluto insignirmi di questo titolo, massimo premio di tutta una vita che ha avuto parecchi incontri con la vostra università. Incontri che suscitano una profonda eco nel mio animo e risvegliano care e affettuose memorie, sullo sfondo dei tredici anni di vita – e quali anni! – trascorsi nella vostra città.
    Bologna sta alla storia dell’università italiana come Firenze sta alla storia della lingua nazionale.
    La generazione che chiamerò «carducciana» - quella che segnerà l’Italia del 1870 – sentirà questo debito verso l’ateneo bolognese e identificherà nel natale della istituzione universitaria felsinea il punto di partenza di una tradizione di libertà e di autonomia accademica che era sopravvissuta a tutte le tentazioni centralistiche della decadenza, preservando il principio delle libertà repubblicane della vecchia Italia.
    L’ottavo centenario coincise in questo senso, nel 1888, col recupero di un’identità nazionale che in questo nono centenario si è elevata a identità europea: ponte fra diverse culture e presagio imminente di conciliazione.
    «Quando una città sente sì alta la gloria civile dell’insegnamento, ella è ben degna di aver raccolto nella sua scuola il decoro supremo di tutti gli studi». La voce di Carducci – proprio in quell’ottavo centenario – risuona come una voce di oggi; per noi che ben conosciamo il ruolo essenziale che sarà svolto dall’ateneo bolognese, fra fine Ottocento e primo Novecento, nella resistenza opposta dalla scuola carducciana alle degenerazioni e deviazioni irrazionaliste del dannunzianesimo avanzante: baluardo, Bologna, di una classicità e di una razionalità non inerti.
    Bologna, Carducci: ripenso al discorso pronunciato al collegio «Irnerio» nel quadro del cinquantenario carducciano, il 12 aprile 1957, oltre trentadue anni fa, gli anni del lungo magistero rettoriale di Felice Battaglia, cui si rivolge oggi il mio pensiero commosso.
    Carducci Bologna l’amò più di Firenze. Contro la quale fu spesso spietato ed ingiusto; l’amò più di Roma, dove i labili fulgori democratici e mazziniani erano oscurati ai suoi occhi dalle stesse strutture della controriforma e del secentismo. L’amò più della sua Maremma, della Maremma Davanti San Guido, dei cipressi di Bolgheri, che gli ricordava sempre le aspre e dolorose esperienze della giovinezza lontana. Amò Bologna quasi vi scorgesse un riflesso e un compendio della sua visione della vita, classica e romantica insieme, sempre divisa fra Roma e Ravenna, fra latinità e germanesimo, fra Augusto e Teodorico: sintesi delle esperienze classiche e della cultura moderna. Bologna fu per lui tutto: «la famiglia, l’università, la vita comunale e politica, gli affetti, la reverenza dei giovani e il culto del popolo. Ad essa il suo pensiero sempre tornava quando inseguiva con la mente le solenni strade porticate che paiono scenari classici e le piazze austere, fantastiche e solitarie dove è bello sperdersi pensando nel vespero di settembre o sotto la luna di maggio, e le chiese stupende ove saria dolce credendo fra i colli ov’è divino essendo giovani, amare di primavera, e la Certosa, in alcun lembo della quale, che traguardi dal colle al dolce verde immenso piano, si starà bene a riposare per sempre». Vera «civitas humana», nella quale il cittadino si levava a credente, e i valori umani attingevano l’altezza di valori religiosi.
    Alle soglie del nuovo millennio il primato di questo glorioso ateneo – il più antico ateneo d’Occidente – si riassume in due sole parole: difesa della ragione e difesa della libertà.
    Due parole che tornano a circolare con gli stessi diritti e con lo stesso suono in tutta Europa, al di là delle barriere e delle artificiose frontiere di una volta.
    E mi consentirete di ricambiare il dono della facoltà di lettere, per la laurea in storia, con le confessioni di uno storico che nel 1990, fra pochi giorni, saluterà i quarant’anni del suo insegnamento universitario.

    (...)
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    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #2
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    Predefinito Re: Confessioni di uno storico (1990)

    1. Come nasce la storia contemporanea

    Quando assunsi il primo incarico universitario, quasi quarant’anni fa, nel novembre del 1950, nelle aule, allora screpolate e trascurate, del fiorentino «Cesare Alfieri», la ‘storia contemporanea’ era appena tollerata.
    La peculiarità dell’ordinamento della facoltà fiorentina, erede del vecchio istituto superiore autonomo fino a pochi anni prima, fino cioè alla stretta della statalizzazione – peculiarità che era stata riconosciuta dagli alleati nel momento della transizione, e cioè messa al riparo dalla tempesta che colpì tutte le altre facoltà, tutte più o meno di origine fascista – aveva fatto sì che sopravvivesse, in quelle mura, un insegnamento diviso in due corsi: ‘storia moderna prima’ e ‘storia moderna seconda’.
    Era una convenzione, ipocrita, ma efficace, per far coincidere la ‘moderna seconda’ con la ‘contemporanea’. Una battaglia, quella combattuta, in Via Laura fin dai primissimi anni quaranta da Niccolò Rodolico, che non esauriva il rigore del suo metodo storiografico nel culto della monarchia. E in quello spirito, arricchito dalle aperture delle correnti democratiche e revisioniste post-belliche, Carlo Morandi era stato chiamato, all’indomani della Liberazione, a ricoprire l’incarico di «moderna seconda», affiancandola al suo principale insegnamento, a Lettere.
    Tutto era da rivedere, tutto era da fissare in quegli anni dell’immediato dopoguerra. Il concetto di Risorgimento; il concetto stesso di partiti. In tema di partiti la confusione regnava sovrana, gli equivoci si moltiplicavano. Pochi, lontani e insufficienti i sussidi critici o bibliografici: il Corpaci, il Perticone, libri usciti quasi clandestini durante l’epoca della dittatura fascista.
    In quel clima uscì il volume di Carlo Morandi, I partiti politici nella storia d’Italia. Ognuno di noi, allora poco più che ragazzo, ricorda l’impressione di quel libro: del titolo, dell’autore. E insieme l’impressione, indimenticabile, di quelle pagine calme, riposate, senz’ombra dei risentimenti e delle polemiche che da destra come da sinistra investivano la più recente storia italiana e quasi sembravano subordinarla alle esigenze di un’incerta politica, di una politica in ebollizione e in fermento.
    Un libro di storia, pensato da storico e costruito da storico. Un libro che in cento pagine ci offriva un quadro panoramico, appagante, della formazione e della trasformazione dei partiti, dalla Destra all’Aventino: non senza riandare indietro, ricollegandosi al filone salvatorelliano del Pensiero e azione del Risorgimento (un altro libro decisivo per la nostra generazione) in vista di fissare il concetto di partito, di delimitare il rapporto fra Risorgimento e democrazia.
    Quante suggestioni, quanti temi di lavoro partono da quel libretto di Morandi! Molti di noi che lo leggemmo allora, in fretta, nel corso magari di una giornata sola, quasi divorandolo, ci fermammo su un’immagine, su una frase. Chi si posò sull’«Opera dei Congressi» e sulla distinzione fra democrazia cristiana e cattolici «ultras»; chi sulla «Critica sociale» di Turati e sul valore del riformismo; chi su Gobetti o su Gramsci o sul peso dei vari movimenti ereticali e rinnovatori nell’àmbito del liberalismo o del socialismo. Da lì, da quelle intuizioni anticipatrici di Morandi, mossero tesi di laurea, monografie più o meno originali, saggi più o meno nutriti e resistenti al tempo: mosse comunque tanta parte di quella storiografia dei partiti che doveva rappresentare una delle caratteristiche più singolari e inconfondibili del rinnovamento storiografico italiano dell’ultimo quarantennio.

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    Predefinito Re: Confessioni di uno storico (1990)

    2. Una doppia vittoria

    In quei cinque corsi al «Cesare Alfieri», dal ’45 al ’50, cioè al momento della sua morte prematura, lo storico dei «partiti politici» aveva compenetrato l’insegnamento di quella nascente disciplina con tutto il fervore della sua «contemporaneità», con tutto lo slancio e la passione di chi voleva indagare le pieghe della storia di ieri o dell’altro ieri (basterebbe pensare ai corsi sulle origini della seconda guerra mondiale, assolutamente profetici e sconvolgenti per i tempi).
    Egualmente diffidenti di quella prima «storia contemporanea» che si affacciava timidamente alla Via Laura: i modernisti e i risorgimentisti. I modernisti, decisi a difendere quel loro campo, sterminato e sterminatamente assurdo, dalla scoperta dell’America a Hitler e a Stalin: con tutte le conseguenze, già sperimentate nei licei, di fermarsi alla prima guerra mondiale, come alle «colonne d’Ercole» non superabili di quello che dopo il 1919 diveniva automaticamente campo di divisione politica o di esercitazione, giudicata dall’alto, giornalistica.
    I risorgimentisti, decisi a far coincidere la storia dell’età contemporanea con la storia d’Italia, e dell’Italia nel suo farsi e rifarsi: secondo uno schema che, pur temperato negli ultimi anni, conservava qualcosa della sua origine nazional liberale, non senza influssi o riflessi nazionalisti.
    Firenze è stata sotto questo profilo la culla della storia contemporanea e anche della storia dei partiti politici in senso critico e scientifico, cioè in senso moderno, quella che tanto sviluppo ha avuto poi qui a Bologna, attraverso le edizioni degli amici del «Mulino» che in questo campo si sono tanto specializzati. Quando fui chiamato a succedere a Carlo Morandi, mi dedicai nelle aule del «Cesare Alfieri» a compiere quel ricupero dell’Italia sommersa, che in quello stesso periodo, in quegli stessi mesi e anni mi aveva portato a tracciare, nella loro paradossale e illuminante simmetria, la storia dell’opposizione laica e la storia della prima opposizione cattolica.
    Il mio incontro con l’università è contemporaneo al mio incontro con la politica o meglio con la milizia civile e politica, quale era allora condividere l’impegno e la passione degli amici del «Mondo», concorrere a quel tentativo di revisione e di reinterpretazione della storia e della cultura italiana, sospeso fra Croce e Salvemini. E senza dimenticare un collaboratore assiduo del settimanale romano, Luigi Sturzo. Cattedra universitaria e impegno civile e politico: sempre per me inseparabili. E ogni tema storiografico scelto, crocianamente, in rapporto alla sua contemporaneità, cioè alla sua capacità di suscitare problemi, di rispondere a dubbi o interrogativi sulla nostra condizione civile e politica.

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    Predefinito Re: Confessioni di uno storico (1990)

    3. Le due opposizioni

    Sì. Avevo concepito le due storie, la storia dell’opposizione cattolica e la storia dell’opposizione laica quasi negli stessi mesi, sotto lo stimolo e la guida di Mario Pannunzio, il grande direttore del «Mondo» che voleva esplorare – nelle colonne del suo settimanale rabdomantico e problematico – tutta quell’Italia clandestina e sotterranea che non si poteva riassumere negli schemi dell’Italia ufficiale e liberale, che andava oltre le stesse catalogazioni crociane pur complessivamente sacre alla generazione del «Mondo».
    L’Italia cattolica del non expedit, del voto di castità politico, del non possumus verso lo stato risorgimentale e scomunicato di Porta Pia: di lì la mia storia delle origini dell’azione cattolica.
    Dall’altro tutto il filone dei partiti dell’opposizione democratica protestataria, quelle forze attestate sulle posizioni dell’altro voto di castità politica, quello repubblicano, quello mazziniano, quello del non possumus laico, quello di coloro che per oltre vent’anni, esattamente come i cattolici sull’altra sponda, non avevano riconosciuto la legittimità dello Stato unitario nella forma monarchico-moderata e avevano attivato movimenti di iniziativa politica ai limiti dell’eversione o della sovversione (si ricordi il caporale Barsanti e l’Alleanza repubblicana universale). Momenti o movimenti trascurati o negletti, da parte della storiografia liberale che tendeva a ridurli a qualcosa di rapsodico e secondario: così come aveva ridotto la vera insurrezione di massa, cioè la guerra del brigantaggio, a niente altro che ad un capitolo attinente alla sfera un po’ delle forze armate e un po’ della magistratura.
    La riscoperta di questa Italia illegale, accanto ad un’Italia legale simboleggiata nello Stato censitario e oligarchico del Risorgimento, fu una delle caratteristiche fondamentali di quella generazione e uno degli apporti più cospicui che il gruppo del «Mondo» dette all’avanzamento degli studi storici in Italia.
    Allora scrivere sul «Mondo» non era scrivere su un rotocalco; era scrivere su una rivista che esercitava un peso indubbio negli studi anche se non disponeva di apparati documentari e di possibilità di note a pie’ di pagina. Ricordo che Federico Chabod comprese i miei saggi, per esempio, sui radicali e sui repubblicani fra le fonti cui si richiamò esplicitamente per quel periodo e per quei movimenti nella sua monumentale e fondamentale opera sulla politica estera italiana.
    Non c’è dubbio che avevo dedicato all’opposizione cattolica un rilievo e uno spazio maggiori che all’opposizione laica (per giunta prima quasi a spia di una preferenza, di una scelta ideale). – L’opposizione cattolica si era dilatata ben oltre le puntante concordate con Pannunzio, era arrivata a lambire il Novecento, ad anticipare i fremiti della revisione modernistica e della correzione ereticale del laicato alle posizioni intransigenti del magistero. Di qui il desiderio di adeguare quasi come formato le due «opposizioni», di completare la prima, approfondendo e scavando ulteriormente in quegli spazi storici che avevo percorso nelle misure obbligate del «Mondo» fra il ’50 a il ’51; e insieme il desiderio di dare corpo come feci in quegli anni nelle aule del «Cesare Alfieri» - ad una serie di studi monografici che approfondissero aspetti e momenti della storia del repubblicanesimo e del radicalismo. Ma soprattutto del repubblicanesimo: a partire da Luigi Lotti e da Domenico Berardi.

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    Predefinito Re: Confessioni di uno storico (1990)

    4. I cattolici

    L’opposizione cattolica. Dal 1929 al 1943 era sembrato quasi impossibile parlare di quel mondo, rievocare quei personaggi: addolcire le storie dei seminari, adeguare quelle, lacunose e approssimative, delle pubbliche scuole. Salvo poche e coerenti eccezioni, l’università cattolica per esempio, un monsignor Olgiati o pochi altri, il «milieu» dell’intransigentismo, dominante nelle file cattoliche fino a Giolitti, era relegato in una prospettiva secondaria, quasi confinato in un angolo. A parte i contrasti assai aspri fra fascismo e azione cattolica (e si trattava dei progenitori diretti) non avevano interesse a riprendere quel filo né il cattolici democratici, appartati nella lotta politica, in posizione di sospetto o di avversione al fascismo dominante, talvolta esuli in patria, né i cattolici inseriti nel fascismo o «ralliés» ad esso.
    Dopo la liberazione, quel versante era rimasto egualmente negletto, e per motivi diversi. Rinasceva una democrazia cristiana, partito di governo e poi di maggiorana, che si ricollegava direttamente al neoguelfismo (il movimento di Malvestiti fu una delle prime radici culturali dello Scudo crociato), che poteva risalire al primo e anche al secondo Gioberti, che in taluni, i più avvertiti, giungeva a evocare il filone dei «piagnoni» savonaroliani e magari Tommaseo, e, attraverso l’amicizia con Tommaseo, sia pure sempre in posizione autonoma, anzi sdegnosamente autonoma, Gino Capponi. Senonché erano costantemente titoli di nobiltà «risorgimentale».
    Mai un’ascendenza, al grande e composito partito dei cattolici italiani, che fosse ritrovata o ricercata nell’«Opera dei Congressi», l’organismo nato nel 1874 per riunire il laicato fedele al Papa prigioniero e rivendicante, sia pure sulla carta, Roma vaticana contrapposta a Roma italiana.
    Furono quelli, fra il 1949 e il 1954, gli anni dei miei principali studi sul movimento cattolico. Un angolo visuale assolutamente indipendente dalle influenze o dai condizionamenti della storiografia tradizionale (tutto il filone crociano o post-crociano, al quale direttamente o indirettamente mi collegavo, sia pure tramite la mediazione di Gobetti, aveva sempre relegato in un angolo la storia dei cattolici politici, e quasi ignorato quella dell’intransigentismo).
    La presenza di quella DC al potere, pure assisa sul trono del 18 aprile, non fece perdere al giovanissimo studioso, che nel ’50 avviava i suoi corsi all’Università di Firenze, la visione di un retroterra del mondo cattolico italiano diverso da quello che appariva nelle cartoline illustrate di una storiografia accomodante.
    Di qui le prima pagine sul Papato socialista, che comparvero sul primo numero del «Mondo», il 19 febbraio 1949: con quel richiamo a una tradizione anti-liberale dei cattolici italiani che piuttosto giustificava un appoggio o una propensione verso il socialismo. Di qui dal ’50, e con tutte le polemiche che ne seguirono, l’uscita vera e propria del volume da allora poi sempre ristampato, Il papato socialista: con quella contrapposizione, certamente rigida e schematica, fra monarchia giacobina e repubblica guelfa che serviva a riprendere certe intuizioni dell’ultima pagina della Chiesa e Stato di Jemolo e veniva incontro all’ansia degli spiriti, di tradizione laica e democratica, di approfondire quale tasso di guelfismo fosse entrato, al di là delle apparenze, nella composizione della repubblica italiana. Di qui, nel ’51, i primi studi sull’azione cattolica, pubblicati sempre dal «Mondo» di Pannunzio e prologo, o anticipazione, del vasto volume sull’opposizione cattolica che provocò, rispetto ad un andazzo di studi abbastanza tradizionale e anche condiscendente, un vero e proprio «terremoto» quando uscì, nel giugno 1954.
    Lo stesso De Gasperi, in quella lettera dell’11 agosto ’54 che altre volte ho evocato, rilevava i «tanti steccati ancora da abbattere» con un senso quasi di incredulità: estraneo com’era a tutte le ‘querelles’ del movimento cattolico in Italia. Legato a tutto un altro filone di storia dei cattolici politici, quelli austriaci fortemente inseriti nella legalità costituzionale. De Gasperi non riuscì neanche a capire quanto fosse utile riscoprire quella storia, quanto fosse necessario raccontarla di nuovo. O addirittura, per certi aspetti, per la prima volta.
    Successivamente – fra ’54 e ’59 – dedicai tutte le mie energie alla costruzione del volume che doveva completare la serie dell’Opposizione cattolica, che avrebbe continuato l’Opposizione cattolica. Fu quello il Giolitti e i cattolici. Con una diversa tecnica di lavoro: più attenta ai documenti di archivio che non alle idee generali, più fedele a un’indagine scavante nei particolari che al gusto delle sintesi che ancora accompagnava il lettore di Gobetti e di Oriani degli anni cinquanta. Libro che colloco al centro dei miei studi storiografici e da cui non mi sono distaccato mai.
    Storia del superamento dell’opposizione cattolica non meno, almeno in un certo modo e simmetricamente, dell’opposizione socialista. Momento di quella tregua e di quella distensione giolittiana affidata ai rimedi empirici del nuovo trasformismo politico, ma tale da condizionare in modo decisivo gli assetti globali del paese.
    Nella mia visione era collocato un terzo volume: quello sull’inserzione dei cattolici nello Stato. Il volume sul dopo-Giolitti centrato sulla figura di Sturzo. Avevo raccolto molti elementi in materia cominciando da una serie di colloqui con il sacerdote siciliano, là nell’istituto della Canossiane, con quel volto sempre coperto da montagne di carte, con quella capacità di risposta puntuale e polemica a ogni quesito, che per tanti aspetti ricordava l’asprezza tagliente di Salvemini.
    Quel libro, Da Sturzo a De Gasperi (ricordo che così fu annunciato in un manifesto pubblicitario), non uscì mai. Al suo posto mi dedicati a un’opera di bilancio globale di quelle che erano state le relazioni tormentate, contraddittorie, spesso tempestose, fra Chiesa e Stato, nell’intero arco dell’età moderna in Italia, da Napoleone ai Patti lateranensi. Saranno le Due Rome, la cui prima edizione è datata 1973.
    E tutto questo scavo storiografico, contemporaneo alla più importante trasformazione della Chiesa che fosse possibile immaginare. Nel 1958, nell’estremo autunno del pontificato pacelliano, il «Sillabo» era ancora citato nella dichiarazione elettorale dei vescovi italiani e accenti d’oltranzismo clericale risuonavano nella vicenda del vescovo di Prato, con tutte le chiese di Bologna – ricordate? – parate a lutto contro la legittima sentenza di un tribunale italiano.
    Alla fine dell’anno, con l’avvento del pontificato di Giovanni XXIII, proprio sul giornale bolognese che allora dirigevo, potevo lanciare la formula del Tevere più largo, cogliendo l’apertura della Santa Sede alle forze laiche (il che avrebbe consentito, in termini politici, il centro-sinistra); e arrivato nel 1961 alla quinta riedizione dell’Opposizione cattolica, abbandonai la copertina di don Albertario ammanettato fra i regi carabinieri sullo sfondo delle dolci campagne lombarde di Filighera e la sostituivo con un’immagine emblematica del nuovo corso, un colloquio cordiale fra Vittorio Emanuele II e Pio IX assistiti, rispettivamente, da Cavour e dal cardinale Antonelli. E tutti riconciliati nella pace dei cieli. Fino alla graduale riconsacrazione del Risorgimento che alla generazione del «Mondo» era apparso «scomunicato».

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    Predefinito Re: Confessioni di uno storico (1990)

    5. I laici

    L’opposizione laica dopo l’opposizione cattolica. Negli anni fra il 1950 e il 1955, anni di fervide e appassionate ricerche, fu quello il mio piano, il mio disegno segreto, l’ambizione che mi rimase a lungo nel cuore.
    Restituendo, nelle vecchie sale della «Civiltà cattolica» a Via Ripetta, la storia per tanti aspetti clandestina dell’«Opera de Congressi» e del clericalismo protestatario e intransigente, la mente si volgeva all’altro filone della vita politica italiana, all’opposta sponda sulla quale si agitavano le polemiche e i fantasmi dell’anticlericalismo e del laicismo rigoroso e conseguente. Un segreto vincolo dialettico mi sembrava riunire le due opposizioni, quella cattolica e quella laico repubblicana: entrambe confinate ai margini della legalità, entrambe escluse dalla vita delle istituzioni, entrambe circondate da un’aura di sospetto che riassumeva tutte le ansie, i timori e anche le audacie della classe politica risorgimentale.
    In quel clima nacquero le pagine sul partito repubblicano, gli studi sull’irredentismo, la democrazia e l’anticlericalismo, e gli altri sui «radicali dell’Ottocento», destinati tutti a più largo volume sul post-Risorgimento dal punto di vista laico e democratico.
    Quando quelle pagine comparvero per la prima volta, la storia del partito repubblicano in Italia era ancora tutta da scrivere. Figure e problemi di quell’epoca leggendaria apparivano in una luce irreale, spesso falsata da pregiudiziali politiche o da tradizioni retoriche. Quasi tutti gli studi (anche i più aggiornati e agguerriti sulla storia dell’Italia contemporanea) riserbavano pochissimo spazio alle correnti di opposizione democratica, repubblicani e radicali, insistevano soprattutto sulle grandi forze parlamentari di governo, la Destra, la Sinistra, il trasformismo, il giolittismo, dedicando una particolare attenzione – sulla sponda sinistra – al solo partito socialista.
    Scarsa la bibliografia, pochissimi i contributi analitici, spesso introvabile la documentazione del tempo.
    A superare le difficoltà mi fu di grande aiuto il senatore Giovanni Conti, che mi aprì la sua biblioteca romana, là nella suggestiva Via di Campo Marzio, consentendomi di trascrivere gli atti dei congressi repubblicani nazionali e regionali, di aprire le molte cassette di opuscoli da lui raccolti.
    Repubblicani e radicali. Nei primi vent’anni fra 1870 e 1880 le due storie si intrecciano. C’è l’urto sempre più spietato fra Garibaldi e Mazzini. C’è la divaricazione, decisiva, dalla Comune di Parigi che vede Mazzini schierato contro ogni forma di comunismo o collettivismo e Garibaldi inneggiare al «sol dell’avvenire». C’è la svolta non meno decisiva dei patti di fratellanza mazziniani che nel 1871, all’indomani di Porta Pia e alla vigilia della morte del profeta, segnano la nascita di quella specie di sindacalismo nazionale e di socialismo nazionale, che avrebbe potuto essere mazzinianesimo, se gran parte del suo stato maggiore non avesse ceduto alle seduzioni o alle tentazioni dell’internazionalismo proletario.
    C’è il corso sinuoso, tormentato, contraddittorio dei rapporti fra repubblicani e socialisti, cioè fra mazziniani e anarco-marxisti del ventennio che va dal 1871 al 1892, data di nascita del partito socialista italiano alla Scala Sivori di Genova. Di quel corso fu studioso incomparabile e anticipatore Nello Rosselli allorché avviò la sua lotta ideale contro il fascismo e, mentre il fratello elaborava le basi del socialismo liberale, pubblicò presso le vecchie edizioni Bocca, quel libro che tanto ha pesato nella storia e nella formazione della nostra generazione, Mazzini e Bakounine.
    Due visioni della vita, quella radicale e quella repubblicana, che avevano radici comuni ma che poi seguiranno una strada alla fine incompatibile ed in ogni caso incomparabile. Il partito radicale, quello che aveva raccolto tutto l’impeto e lo sdegno di Cavallotti, destinato a diventare partito di governo neanche con Giolitti – demiurgo dell’apertura a sinistra – ma con Sonnino, l’avversario scontroso e accigliato da destra dello statista piemontese. E poi verrà il radicalismo che si consumerà nelle collaborazioni ministeriali e che finirà per favorire il passaggio da Giolitti a Salandra e cioè dalla sinistra alla destra liberale, con tutte le conseguenze, quelle sì «di regime», che ne scaturiranno in coincidenza con l’intervento nella prima guerra mondiale.
    Dall’altro lato il partito repubblicano che pur inferiore ai socialisti come forza parlamentare e come forza di popolo, contenderà palmo a palmo il terreno ai socialisti, a cominciare dalla Romagna. Nulla cederà all’antico competitore. In nulla si adatterà alla mistica del fronte unico di sinistra, una volta usciti dai pericoli reazionari che avevano caratterizzato la fine del secolo col decretone Pelloux e con l’aria di svolta liberticida chiusa dal revolver di Monza.
    Un partito che si consolida sia pure nelle sue limitate proporzioni come partito di opposizione istituzionale, di alternativa radicale ed intransigente, diffidente e sospettosa di ogni crescente ammiccamento istituzionale di quella che Missiroli chiamò la «monarchia socialista»: cioè l’indifferenza dei socialisti alla questione istituzionale, e il loro adeguarsi alla monarchia in Italia come nel mondo scandinavo o nel mondo britannico. E semmai i repubblicani portati a sentire piuttosto la vicinanza con le correnti protestatarie della sinistra del radicalismo e fuori del quadro del socialismo, come i sindacalisti rivoluzionari, per esempio, o come gli anarchici o come quelle frazioni libertarie sopravvissute all’esperienza marxista in Italia.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Confessioni di uno storico (1990)

    6. L’Italia di minoranza

    È lo spirito di quella riesplorazione e riscoperta dell’Italia moderna che mi indusse a studiare la storia delle forze politiche perseguitate e sacrificate. È lo spirito di quella fedeltà alle posizioni di principio che fece dire ad Arturo Carlo Jemolo, indimenticabile amico e maestro – dopo l’uscita del primo capitolo su Mazzini e i mazziniani sulle colonne del «Mondo» agli inizi del ’51 – che talvolta la linea dell’ascetismo e della separazione politica conta più dell’inserzione ad ogni costo, precipitosa e interessata, nella vita delle istituzioni.
    Di qui i valori fondamentali dell’Italia di minoranza, che hanno poi costituito, negli ultimi trent’anni e particolarmente negli ultimi venti, la base della mia azione politica e congiunta all’impegno culturale e all’impegno civile. La battaglia parlamentare unita alla più larga e lunga battaglia ultratrentennale nelle pagine della «Nuova Antologia».
    Un’Italia di minoranza più larga di quella lontana opposizione catacombale; un’Italia che investiva le correnti ereticali e dissidenti del Novecento, comprendeva la battaglia della «Rivoluzione liberale» di Gobetti non meno di quella del «Mondo» di Amendola, la storiografia di un Salvemini, di un Salvatorelli, di un Omodeo mai svincolata dalla milizia politica e dalle sofferenze civili; Croce come noi lo sentimmo al di fuori di ogni appagamento definitivo e di ogni evasione consolatoria; Albertini come momento di un incontro non secondario e non strumentale fra il giornalismo e la società italiana; le forze di minoranza rispetto all’Italia giolittiana non meno delle forze di minoranza rispetto alla dittatura fascista e rispetto agli equilibri costruiti nei primi trent’anni di storia della Repubblica.
    Minoranza? È un termine che da tempo il diritto internazionale si è annesso o quasi per identificare i gruppi che in qualsiasi organismo e quindi particolarmente in quello statuale si distinguono nelle comunità dominanti o maggiori in cui sono inseriti, per differenti caratteristiche etniche, linguistiche, religiose o modelli di cultura e di costume diversi. Quelle minoranze che il diritto moderno delle genti tutela largamente con misure e provvidenze ispirate al principio della tolleranza e del rispetto delle fedi diverse, quasi si trattasse di gruppi «altri da sé», differenziati in qualcosa di essenziale e di connaturale.
    No, non è questo il sentimento di minoranza cui ci richiamiamo. Anche se non mancò, ai tempi del mazzinianesimo o del partito d’azione, una certa coscienza perfino ombrosa o rabbiosa di diversità, di estraneità al costume nazionale accomodante o compromissorio: la prima letteratura antifascista potrebbe offrire più di uno spunto in questo senso.
    Le minoranze, su cui si è soffermata la mia attenzione di storico o di politico, sono quelle forze politiche di élite o di qualità, appunto il repubblicanesimo, il partito d’azione, la sinistra liberale e radicale, i movimenti ereticali del socialismo, tutto il frastagliato «terzaforzismo» del secondo dopoguerra che Giorgio Amendola in una polemica sollevata proprio da un mio libro, L’Italia della ragione, nell’agosto 1978 – bollò come «quella corrente permanentemente sconfitta sul piano politico».
    Gli sconfitti: Salvemini, Einaudi, Amendola, Gobetti, La Malfa: «Anche i vinti – scriveva Giorgio Amendola, comprendendo suo padre in quella falange – recano il loro contributo alla cultura e la loro storia è importante, ma certo non si può ignorare il peso esercitato dalle forze riuscite vittoriose».
    Sconfitti? Ci limitammo a replicare ad Amendola, cui ci legava una vecchia e affettuosa amicizia, con un quesito: sarebbe stata possibile la revisione profonda in atto, revisione profonda nel mondo comunista, allora ’78 ed eravamo appena all’eurocomunismo di Berlinguer, non meno che in quello cattolico dopo le grandi e straordinarie novità del Concilio, senza il continuo assillo della cultura laica, illuminista e razionalista, e le sue pur limitate proiezioni politiche?
    La storia che siamo stati chiamati a vivere in questi ultimi anni, a cominciare da quella che viviamo ora per ora, dall’Europa dell’Est, conferma il valore essenziale dei princìpi di libertà e di tolleranza oltre a tutte le frontiere e tutte le barriere. È quasi il trionfo dell’89 due secoli dopo.
    Ci torna in mente la risposta di Luigi Salvatorelli quando anche a lui fu rivolta nel primo dopoguerra l’accusa di essere rappresentante di un’Italia di sconfitti. Riapro l’edizione gobettiana del Nazionalfascismo: «noi teniamo fede a valori oggi eminentemente inattuali, al pensiero, alla fraternità umana, alla coscienza individuale. Ma non avendo interessi da difendere né ambizioni da soddisfare, possiamo permetterci di avere pazienza: la pazienza della storia». Che questa volta è stata largamente premiata, per chi queste posizioni assumeva accanto a Silone e a pochi altri; chi ricorda la collaborazione di Silone in quegli anni sul «Resto del Carlino» ricorda la posizione sull’Europa orientale, che io tenni costantemente e fermamente.
    Ecco perché nel breve volgere degli anni – sono allo fine, cari amici – l’Italia di minoranza sarebbe diventata non più soltanto materia di speculazione storiografica o filosofica ma materia di adozione e di impegno civile. Quell’Italia, nel più stretto intreccio con l’Italia cattolica, potrebbe contenere in sé il germe di una nuova storia, di una storia perfino diversa. Anche per noi laici vale quanto diceva Seneca nelle Lettere a Lucilio: «In ogni uomo valente non si sa quale Dio, ma un Dio abita».

    Giovanni Spadolini

    https://www.facebook.com/notes/giova...1053184912680/
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