di Ugo Magri - In «Nuova Antologia», “Per Giovanni Spadolini”, a. CXXIX, fasc. 2192, ottobre-dicembre 1994, Le Monnier, Firenze, pp. 285-288.


È curioso che molti autorevoli commentatori, pensando di onorare la memoria di Giovanni Spadolini, lo collochino tra le figure eminenti della Prima Repubblica. Non si accorgono che il più tenace avversario di quest’espressione - «Prima Repubblica», come se ne potesse esistere una seconda o una terza o una quarta – era stato proprio lui: Spadolini. Provava un autentico fastidio intellettuale per la pretesa di contrapporre un presunto «vecchio» a un immaginario «nuovo». Lo facevano sorridere, e più spesso lo intristivano, certe pretese di azzerare gli orologi della storia in coincidenza con la fase più acuta di questa contraddittoria, imperscrutabile e ambigua «rivoluzione italiana»: quasi fosse da buttare tutto quanto era stato «prima», e da sottoscrivere quanto invece sarebbe stato «dopo». Da storico, Spadolini aveva lo sguardo troppo lungo per ignorare che le più recenti convulsioni politiche venivano in realtà da lontano, e che forse le trasmetteremo intatte ai nostri nipoti. Era certissimo che quanto oggi appare fresco e luccicante, tra breve sembrerà anch’esso sorpassato e opaco… L’Italia è una, diceva, la Repubblica anche. Perché dunque fargli il torto di incasellarne il ricordo secondo schemi che egli non avrebbe mai approvato?
Una spiegazione, purtroppo, c’è. Nella polemica politica che brucia tutto talmente in fretta, e non si fa scrupoli di abbassare ciò che è alto a scopi di parte, il grande esempio di Spadolini è stato una tentazione irresistibile per chi voleva rinfacciarlo a quanti manovrano oggi le leve della politica. Di qui la corsa a reclutarlo abusivamente tra le file dei perdenti, dei vecchi, dei parssatisti. Con i «vinti» delle ultime elezioni che hanno esclamato in coro: «Spadolini è morto in tempo per non vedere lo scempio provocato dai ‘vincitori’. La malattia gli ha risparmiato infinite amarezze». Falso. La scomparsa anzitempo gli ha semmai impedito di ottenere riconoscimenti e ruoli che con la sua intelligenza, la sua cultura e la sua esperienza avrebbe potuto ancora conquistare. Per molti anni a venire, Spadolini sarebbe stato un sicuro protagonista: altro che sopravvissuto della Prima Repubblica, come certi laudatores insistono a presentarlo.
Certo, Giovanni Spadolini aveva poco in comune con la gran parte di quanti oggi si auto-etichettano come «nuovi». Detestava la volgarità, che adesso invece dilaga. Rispettava le regole, che ora ci si fa vanto di violare. Conosceva la nobile arte della mediazione, che è il punto d’arrivo della tolleranza, del rispetto per le regioni altrui, contro qualsiasi forma di fondamentalismo ideologico. Soprattutto, detestava la prepotenza. E accettò di combattere l’ultima sua sfida politica – quella, sfortunata, per la presidenza del Senato – sorretto da un fronte politico comprendente anche l’estrema sinistra che, certo, non rispecchiava fino in fondo i suoi convincimenti. Si trattava in quel caso di compiere un gesto, di dare una testimonianza, di reagire con ogni mezzo al piglio arrogante di chi, avendo vinto le elezioni, si sentiva padrone dell’Italia e pretendeva di ignorarne la complessità, di calpestarne le sfaccettature. Una battaglia persa, per un voto. Ma anche la consacrazione a vero leader di tutti quanti speravano, e sperano, in un rapido ritorno all’equilibrio, al dialogo, alla fine della politica muscolare sugli opposti fronti. In questa sua veste, Spadolini non sarebbe certo uscito di scena. Anzi. Di lui avrebbero avuto tutti bisogno, non appena il fiume in piena del cambiamento fosse tornato negli argini.
Ma c’è una ragione in più che impedisce di incasellare Spadolini tra i padri nobili della «prima» Repubblica. In quel mondo dove lo si vorrebbe relegare a forza, egli fu sostanzialmente un alieno, un corpo estraneo. Campione di una cultura orgogliosa e minoritaria. Leader di un partito di governo ma scomodo. Ricevette onori, mai però quelli che avrebbe meritato. Ricoprì delicate funzioni nell’interesse del paese, e tuttavia gli venne ripetutamente negata la possibilità di svolgerle fino in fondo e al suo meglio. Con troppa ipocrisia si finge di dimenticare quante guerre allora gli fecero, e quanti torti. Se i «nuovi» non gli piacquero, altrettanto può ben dirsi dei «vecchi».
Chi scrive, ha avuto la fortuna di accompagnare Spadolini per un tratto non lungo, ma importante, della sua parabola politica. E di vivere da vicino, tra il 1981 e il 1986, nella veste di giovane collaboratore, i momenti per i quali sarà ricordato a lungo: il suo difficile governo, la vittoria elettorale che ne seguì, gli anni alla Difesa. Tutto può dirsi, tranne che egli abbia avuto vita facile: a Palazzo Chigi arrivò quasi per caso, all’indomani dello scandalo P2, con la DC che rischiava di essere travolta e Bettino Craxi al culmine del suo potere, sempre più impaziente di avviare l’alternanza nella guida del governo. L’incarico a Spadolini, il 10 giugno 1981, segnò un punto di equilibrio provvisorio, difeso per 18 mesi tra difficoltà indicibili. In quelle condizioni, l’avvio del risanamento economico ebbe un che di sovrumano. L’inflazione frenò, tornò la fiducia, furono gettate le basi per il boom degli anni successivi. Rispetto ai precedenti governi democristiani, quello guidato da Spadolini segnò un netto punto di svolta. L’Italia lo percepì immediatamente. La personale popolarità del capo del governo si riverberò sullo stesso PRI, che nelle elezioni del 26 giugno 1983 superò il muro del 5 per cento. Nelle regioni del Nord, e soprattutto nelle grandi città del triangolo industriale, l’Edera anticipò i futuri successi della Lega: ma senza la stessa carica protestataria, senza le velleità separatiste, in nome soltanto del buongoverno.
Da quel giorno, Spadolini diventò ingombrante. Per la DC di De Mita, che temeva di vedersi erodere un patrimonio elettorale ancora consistente. Per il PSI di Craxi, che scorgeva nel leader repubblicano un ostacolo ai suoi piani di grandezza. Non gli venne concesso nulla più di quello che egli riuscì a strappare, con enorme fatica. Lo sforzo congiunto dei «vecchi» partiti fu di vietargli un bis del trionfo elettorale, a qualsiasi prezzo. Pur di impedire che tornasse a guidare il governo, nel luglio-agosto 1983, la Democrazia cristiana si precipitò a consegnare le chiavi di Palazzo Chigi nelle mani dei socialisti: giudicava meno dannosa, per le proprie fortune, un’ipotesi Craxi a un’ipotesi Spadolini. E proprio Craxi, nove anni più tardi, quando si trattò di eleggere il successore di Francesco Cossiga alla presidenza della Repubblica, preferì mandare sul Colle più alto il cattolico Scalfaro al laico Spadolini, di nuovo considerato intralcio ai suoi progetti. Perché dimenticare tutto questo?
Ci sono pagine di diario, che forse un giorno varrà la pena di pubblicare, nelle quali Spadolini ha documentato giorno dietro giorno i colpi ricevuti, le pugnalate, gli sgambetti. La sua vera «colpa», nel fondo, era quella di sentirsi, di essere, il migliore. Di ritenere che l’unica via per salvare questo paese fosse quella di farlo prendere per mano dalle minoranze illuminate, laiche, eredi di quanti avevano fatto il miracolo del Risorgimento e dunque avevano il brevetto per ripeterlo. Non fu mai complice. La questione morale non l’ha minimamente sfiorato, ha attraversato indenne il cerchio di fuoco di Tangentopoli. Con quindici anni di anticipo ha denunciato i danni della cleptocrazia, della correntocrazia. Credeva nel ruolo dei partiti, purché facessero un passo indietro, rinunciassero a occupare lo Stato. Praticò la politica del rigore quando altri agitavano le piazze, difese le ragioni dell’Occidente quando era in piedi il Muro, percepì i rischi di collasso istituzionale quando si sarebbe stati ancora in tempo, forse, per scongiurarlo. In una parola: con i vizi del vecchio ceto politico, Giovanni Spadolini non aveva nulla, proprio nulla a che fare. Chi lo colloca in quella compagnia, sia pure per innalzarlo un gradino più sopra, rende alla sua azione un cattivo servizio.
I futuri storici, nei quali spesso confidava, ce lo descriveranno invece come un innovatore, prudente ma sincero, capace di scelte. Che fece quanto poteva, tenuto conto degli equilibri sfavorevoli, per far compiere qualche piccolo passo avanti a questo paese. Ci riuscì, e questo è ciò che conta.

Ugo Magri


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