di Stefano Folli – In «Nuova Antologia», “Per Giovanni Spadolini”, a. CXXIX, fasc. 2192, ottobre-dicembre 1994, Le Monnier, Firenze, pp. 281-284.


Nei giorni della malattia, nella clinica romana dove si sentiva prigioniero, Giovanni Spadolini guardava alla tv le partite del mondiale americano. «Ha giocato bene l’Italia, vero?» sorrideva soddisfatto dopo una vittoria. Quella per il calcio non era una vera passione. Era piuttosto uno stato d’animo, una nostalgia. Nostalgia per un’altra estate ormai lontana, per giorni felici e imprevedibili in una Roma afosa. Quella folla festosa in piazza Colonna, quel turbinio di tricolori… e in mezzo il presidente del Consiglio laico, il professore, lo storico, l’ex direttore del «Corriere». Con le dita della mano destra a V, a indicare vittoria. Strattonato e spintonato gioiosamente dagli scamiciati. Entusiasta come forse mai nella sua vita, un po’ Churchill e un po’ Peron.
Che giorni erano quelli, nel luglio dell’82 in cui l’Italia di Bearzot batteva l’Argentina e il Brasile. Fino ad allora Spadolini quasi non sapeva cosa fosse il calcio. Ma lo imparò in fretta e scoprì quale intreccio misterioso collegava l’esultanza spontanea della gente alle logiche della politica. Intuì che il sentimento del paese stava cambiando. Si convinse che gli sbandieratori davanti a Palazzo Chigi esprimevano in modo primitivo il desiderio e il bisogno di istituzioni più moderne e leader politici più credibili. Fosse vero o no, da quel momento agì come se lo fosse.
Un anno prima, in giugno, Sandro Pertini gli aveva dato l’incarico di formare il governo. Il primo a guida laica, cioè non democristiana, nella storia della Repubblica, come Spadolini amava ripetere (Ferruccio Parri era laico, sì, ma il suo governo apparteneva ancora al periodo monarchico). Era un imprevisto costituzionale, la prima rottura di un quadro politico che a molti pareva eterno. Non era ancora l’alternativa, ma era già l’«alternanza», come si disse allora in politichese. Il vecchio presidente aveva deciso che dopo lo scandalo della P2 per la DC fosse opportuno un periodo di purgatorio. La formula della solidarietà nazionale si era usurata, il PCI era tornato all’opposizione. La Repubblica era malata, l’opinione pubblica insofferente. C’era bisogno di una novità e al tempo stesso di un punto d’equilibrio che tenesse insieme la coalizione di centro-sinistra, il «pentapartito».
Il prescelto fu Spadolini, segretario di un partito molto rispettato, il repubblicano, che raccoglieva appena il 3 per cento dei voti. Si disse allora che gli altri, democristiani e socialisti, lo accettavano proprio per questo: perché con quella percentuale era troppo piccolo per fare ombra ai grandi. Sbagliavano i conti, non avevano capito che la crisi italiana stava facendo un salto. Il nuovo presidente del Consiglio era l’erede, ma non in semplice continuatore di Ugo La Malfa. Questi nel ’72 gli aveva offerto in un batter d’occhio un seggio di senatore, subito dopo l’uscita traumatica dalla direzione del «Corriere della Sera». Era stato un incontro fecondo quello fra Spadolini e i repubblicani. Portò fortuna a entrambi, come si vedrà alle elezioni del 1983. Anche se lui seguiva un suo filo, talvolta coincidente con il lamalfismo e talvolta no.
Come aveva scritto Indro Montanelli, Spadolini era un crociano assai più liberale che azionista. Da laico si ispirava ad Aldo Moro e non ne faceva mistero. I malevoli dicevano che voleva imitarne la politica di accostamento al PCI. Non era esatto, anche perché i tempi erano cambiati dopo gli anni del terrorismo e la fine del compromesso storico. La verità è che Spadolini aveva una visione complessa della politica. E amava i personaggi complessi. I grandi tessitori, da Giolitti a De Gasperi a Moro. Oppure i grandi eretici, da Gobetti a Giovanni Amendola allo stesso La Malfa. Il volontarismo di Mazzini e la finezza diplomatica di Cavour. Il suo sforzo prima intellettuale e poi politico lo induceva quasi naturalmente a porsi sulla confluenza dei due fiumi, quello laico risorgimentale e quello cattolico. Il primo depurato dagli eccessi radicali e anti-clericali; il secondo riconciliato con lo Stato.
Di certo non amava le lacerazioni. La violenza gli faceva orrore, quella politica in particolare. Qualcuno diceva che il fastidio per gli strappi lo portava a smussare troppi angoli, a conciliare anche ciò che non era conciliabile. Sta di fatto che il suo governo avviò la ripresa delle forze laiche in Italia e mise in difficoltà i partiti di massa. Spadolini parlava molto di «emergenza», un vocabolo-chiave della solidarietà nazionale, ma agiva avendo come punti di riferimento la DC e il PSI. La prima declinante e in procinto di affidarsi a De Mita; il secondo in ascesa sotto la guida di Craxi. Non era un rapporto facile. Il presidente del Consiglio sapeva di poter fare affidamento solo sul suo ascendente personale e su una fragile congiuntura favorevole.
Pian piano si creò un moto di simpatia popolare. Il presidente-professore era visto dalla gente come un solitario galantuomo chiuso in un palazzo dove ogni angolo nascondeva un coltello. Ancora non era nata la Lega e Tangentopoli era di là da venire, ma nel nord la folla in strada lo applaudiva. Era un modo per esprimere distacco dalla vecchia classe politica e fiducia nel signore fiorentino convinto, con Mario Pannunzio, che «l’uomo politico è un intellettuale che vive pubblicamente e che svolge con naturalezza la sua parte nella società».
Piaceva anche il suo aspetto fisico, anzi era parte del successo. Le opulente rotondità sembravano la prova di un carattere portato alla bonomia e all’ottimismo. Forattini prese a disegnarlo nudo e un po’ indifeso, e questo contribuì a creare il mito. Colpiva la fantasia quel politico che a «Tribuna politica» parlava come in un’aula universitaria, colto ma non astruso. Incuriosiva quel suo farsi fotografare sorridente fra i libri di Pian de’ Giullari, la villa sul poggio sopra Firenze, dove erano custodite le sue memorie private. La gente si era fatta l’idea di un signore amante della buona tavola e delle buone letture, in fondo distaccato dalla politica. Amabile persino nei suoi difetti, come certe ingenue vanità.
Non era tutta la verità, naturalmente. Era vero, come diceva ancora Montanelli, che in Spadolini «tutto emanava profumo di bucato», perché tutto sapeva di onestà. Ma dietro la facciata si scopriva un uomo dominato da una frenesia in cui era inevitabile cogliere un’impronta tragica. Quanto meno una profonda, esistenziale malinconia. Lui, crociano, amava ripetere col filosofo che «la vita intera è preparazione alla morte». Spesso i giornalisti gli chiedevano quale fosse il segreto del suo instancabile dinamismo. Invariabile la risposta: «Se ve lo dicessi che segreto sarebbe?». Ma la realtà era che il segreto in sé non esisteva. C’era solo un implacabile organizzatore di se stesso, un uomo che non si concedeva tregue, quasi dovesse pagare con angoscia il pedaggio imposto dall’esistere. In un confronto doloroso con «i maggiori», i grandi maestri del passato i cui profili popolavano le sue opere: sempre alla ricerca di un filo ideale che collegasse la loro vita alla sua.
Conoscendolo, si capiva che era sincero quando rispondeva a un’altra domanda tipica: si sente un uomo fortunato? «Con Machiavelli intendo la fortuna solo nel senso di virtù». Virtù, cioè tenacia e fatica, affermazione costante di sé. E in tanti anni forse solo un episodio lo aveva veramente ferito: fu quando Giuseppe Saragat, in modo inopinato e gratuito disse di lui che «non conosceva cosa fosse la sofferenza». Nel 1987 fu eletto alla presidenza del Senato e i sette anni a Palazzo Giustiniani sarebbero stati fra i migliori della sua esperienza politica. Aveva più tempo per riflettere, per scrivere e ricevere gli amici. Rimpiangeva qualche volta la segreteria del PRI, il non essere più nel cuore delle decisioni. Ma aveva compreso benissimo che il frantumarsi del sistema politico poneva il vertice istituzionale al centro della scena molto più di quanto non fossero ormai i partiti. E questo gli consentiva di esercitare quel ruolo di equilibrio che realmente gli era congeniale. Anni prima da Palazzo Chigi aveva intravisto l’inizio dello scollamento, ma aveva sempre respinto con fastidio intellettuale l’idea di cavalcare la tigre, di mettersi alla testa di un movimento antisistema. «Non posso e non voglio tradire la mia storia, il senso politico di tutta la mia vita» ripeteva in privato. A questo principio rimase fedele anche quando le amarezze superarono di gran lunga le soddisfazioni. Non credeva alle riforme elettorali ed era cauto su quelle istituzionali. Negli ultimi tempi detestava il termine «seconda Repubblica». Per eluderlo ricorreva a un giro di frase: «Il secondo tempo della prima Repubblica…». Nel ’92 perse per un soffio la presidenza della Repubblica, a cui teneva molto. Ma poi con Scalfaro, come in precedenza con Cossiga (che lo aveva nominato senatore a vita), seppe instaurare un rapporto cordiale, di stima reciproca, sfociato in una vera amicizia.
L’Italia stava cambiando in un modo che gli sembrava sospetto, in qualche misura incomprensibile. La sua ultima immagine pubblica è dello scorso maggio e inquadra un volto affaticato e già smagrito. In piedi nell’emiciclo di Palazzo Madama, accanto a Norberto Bobbio e a Leo Valiani, apprendeva di aver perso la presidenza del Senato per un voto. Si chiudeva quel giorno una parabola politica eccezionale. Ma forse Spadolini aveva cominciato già da qualche tempo a ritirarsi dalla vita.

Stefano Folli

https://www.facebook.com/notes/giova...1056988647771/