di Cosimo Ceccuti - In «Nuova Antologia», “Per Giovanni Spadolini”, a. CXXIX, fasc. 2192, ottobre-dicembre 1994, Le Monnier, Firenze, pp.429-433.


Quei primi anni al «Cesare Alfieri»...

«Il Signor Professore!». Così Alfio, l’indimenticabile custode della facoltà fiorentina di Scienze Politiche «Cesare Alfieri» annunciava Giovanni Spadolini, primo titolare della cattedra di storia contemporanea in Italia, che entrava in classe alle tre del pomeriggio dei primi tre giorni della settimana per tenervi la sua lezione. Ci alzavamo in piedi. Era prima del ’68, dovevamo farlo con tutti i professori. Ma c’era modo e modo di alzarsi in piedi. Alcuni, quelli che ci apparivano «meno degni» della cattedra, soprattutto per il modo vessatorio, punitivo con cui intendevano il rapporto docente-studente, dovevano attendere un po’ per vedere l’intera classe, lentamente e svogliatamente, tirarsi su dai banchi.
Spadolini, con Maranini e pochi altri, non doveva attendere per ricevere un gesto di rispetto e di omaggio, che sentivamo spontaneo e naturale. Così come spontaneo era l’applauso che gli riservavamo alla fine di ogni corso e, in certi casi, alla fine di una particolare, suggestiva, coinvolgente lezione.
Credo che le ragioni principali fossero tre. Prima, la sua preparazione, la ricchezza della lezione che dava tanto di più rispetto a ciò che si poteva trovare nei libri, qualunque fosse l’argomento del corso. Mai eguale o ripetitivo, nei diciotto anni di effettivo insegnamento, volto alla rianimazione del processo di costruzione dell’Italia nel quadro della costruzione dell’Europa moderna, fuori da ogni agiografia, con una visione interdisciplinare, che dava largo spazio alla storia della cultura, sia che scegliesse per tema i rapporti fra Chiesa e Stato, la storia dei partiti e delle ideologie, oppure quella straordinaria storia del Parlamento nascente nel nostro paese attraverso lezioni che tenne nei tre anni 1959, ’60 e ’61, coincidenti con il centenario dell’unità nazionale. Tematiche diverse, ma unite dal filo comune della democrazia e dal nesso fra politica e società.
Seconda ragione del nostro consenso, il rapporto con noi studenti. Disponibile, sempre, a continuare la lezione nel corridoio, a chiarirci dubbi, ad offrire ulteriori approfondimenti. Per diversi anni non ebbe una stanza sua per riceverci, né assistenti. Richiestissimo per le tesine, era orgoglioso gli venisse chiesta la tesi, che individuava e seguiva con attenzione, fornendo spesso i libri base agli studenti, traendoli dalla sua straordinaria biblioteca: che oggi ci ha lasciato, composta di circa settantamila volumi riuniti, ma non tutti, a Pian dei Giullari (ma è quasi ultimata la biblioteca predisposta dalla Cassa di Risparmio di Firenze, per la completa apertura al pubblico).
Agli esami, in epoca in cui certi colleghi umiliavano il candidato impreparato, dandogli – nei tradizionali trentesimi – voti ironici, quali 9 oppure 15 e lode, Spadolini non ha scritto nella sua vita un solo «R», respinto, su nessun libretto. «Lei è bianco in volto, non sta bene» diceva al candidato particolarmente impreparato. E se questo non capiva («ma sto benissimo, Professore»), insisteva: «No, no, glielo dico io: lei non se ne accorge, ma sta male. Si accomodi, torni la prossima volta». Era la cosiddetta «formula del malore», che consentiva il rispetto della serietà del giudizio e insieme della dignità della persona.
Esami particolari e indimenticabili, quelli di Storia contemporanea: una vera e propria «battaglia». Spadolini formulava la domanda e proseguiva con la risposta: parlava soprattutto lui. I compagni più maliziosi dicevano, con qualche verità, che se il candidato annuiva, faceva col capo e con gli occhi ampi segni di assenso e di partecipazione alla risposta che dava il professore, riusciva a superare l’esame in pratica senza parlare. Ricordo quell’esame, nel giugno 1967, come uno dei più belli e faticosi del mio curriculum universitario. Ero preparatissimo, sapevo rispondere a ogni domanda, quindi parlavamo costantemente in due. Io per disperazione, convinto che ogni intervento del Professore significasse una lacuna nella risposta, che non aveva né tempo, né modo di articolarsi. Il voto finale, trenta e lode, mi confortò e mi illuminò.
Disponibilità e familiarità con gli studenti, che non significava il venir meno di certe forme. Spadolini vestiva sempre, impeccabilmente, di scuro. A noi era consentito anche un abito che non fosse bleu, ma guai a presentarsi all’esame senza giacca e cravatta. Gli ignari, informati all’ultimo momento, ricorrevano a un’unica via: il prestito della giacca e cravatta dal custode, il solito Alfio, che indossava in servizio quella di «ordinanza».
Eppure, al di là delle forme – ecco la terza ragione – ci colpiva l’umanità del Professore, quel suo modo paterno, affettuoso e gioviale di intrattenersi con noi, di interessarsi ai nostri problemi non inerenti solo agli studi, ma alle scelte stesse della vita che ci attendeva una volta usciti da via Laura. Riusciva a trasmetterci la passione, l’entusiasmo con cui affrontava egli stesso la vita, dalle lezioni universitarie all’attività di giornalista, e, più tardi, alla militanza politica. Io ho avuto in sorte di seguire un corso particolare, in un anno particolare: il 1966-67, quello condizionato dall’alluvione. Il pozzo librario in via Laura allagato, i libri e i giornali nel fango. Ricordo cosa rappresentò per noi studenti, impegnati senza mezzi a salvare il salvabile, l’arrivo davanti alla facoltà – appena fu possibile transitare nei giorni successivi al 4 novembre – di un camion che occupava tutta la strada, carico di carta da rotativa che ci consentì di recuperare libri e giornali, isolando e asciugando pagina per pagina. Era la «carta di Spadolini», il dono prezioso che il professore ci mandava da Bologna, dal «Resto del Carlino», di cui era allora direttore. In quegli stessi giorni uscì – argomento del corso – il volume di Firenze capitale, che raggiunse in poche settimane cinque edizioni o ristampe: «Un atto di fede in Firenze», si leggeva sulla fascetta rossa. Era un testo preparato da tempo, per la ricorrenza centenaria della capitale (1865-1965), ma a molti parve un incoraggiamento alla ripresa della città, un «atto di fede» appunto.
Quasi quarantacinque anni di fedeltà al «Cesare Alfieri», una lezione ininterrotta anche nel lungo periodo di aspettativa per mandato parlamentare, dopo l’uscita dalla direzione del «Corriere della Sera» e l’elezione al Senato nel 1972. Una lezione continuata attraverso gli allievi di ieri, oggi docenti in facoltà, e direttamente, col seguire la vita dell’Istituto, della facoltà, gli insegnamenti del settore storico, gli argomenti delle tesi di laurea. E soprattutto attraverso la ricerca, gli studi, che Spadolini non ha mai messo in secondo piano, come dimostrano le opere fondamentali pubblicate in questi anni. Una lezione di storia e di vita, la sua. Ecco perché per noi, che abbiamo i capelli grigi, o addirittura bianchi, resta e resterà sempre il Professore, senza bisogno di aggiungere altro, ma con la «P» maiuscola.


… e gli ultimi anni a Pian dei Giullari

«Professore carissimo». Ho cominciato sempre così, in tutti questi anni di intensa collaborazione i biglietti o i fax che quotidianamente inviavo da Firenze a Roma per dare notizie sulla biblioteca, sulla villa, sulla «Nuova Antologia» e sulle altre iniziative editoriali, sulla facoltà o più semplicemente per accompagnare bozze e dattiloscritti.
In Giovanni Spadolini l’uomo pubblico e lo studioso erano tutt’uno: ma le «sedi ideali» erano nettamente distinte. Roma e Milano erano il centro della vita politica; Firenze racchiudeva insieme agli affetti e alle memorie familiari, l’intero patrimonio culturale: il «Cesare Alfieri», la facoltà dove aveva iniziato l’insegnamento appena venticinquenne; la scuola dei suoi allievi, di più generazioni; la biblioteca, o meglio la «casa dei libri», quei libri che aveva quasi un bisogno fisico di toccare e di sistemare, di leggere e di rileggere, o di farsi leggere (passi e citazioni) magari per telefono, d’improvviso, ovunque si trovasse; la casa editrice Le Monnier, la «Nuova Antologia», con la scarna redazione (lui ed io), la raccolta dei cimeli risorgimentali, che sistemava nel raro tempo libero, in prima persona, senza mai concedermi delega; la Fondazione, l’istituto fornito di autonoma personalità giuridica destinato a raccogliere intera la sua eredità, morale e materiale, ed assicurarla alla pubblica fruizione, come accadrà in tempi brevi, secondo la precisa volontà testamentaria.
Il suo rammarico, specie negli ultimi anni, era di dedicare poco tempo, troppo poco tempo a Firenze, alla sua biblioteca, nella quale amava rinchiudersi quando poteva, una volta la settimana o, più spesso, ogni quindici giorni.
Evitava di ricevere visite, a parte quelle dei parenti. A cena usciva con gli amici, soprattutto per aggiornarsi sulle vicende fiorentine e lanciare iniziative politiche e culturali: da «Omero» o alla «Loggia», alle «Giubbe rosse» dei fratelli Smalzi, impegnati nel recupero delle tradizioni futuriste, o dal «Latini», dove Narciso ha riempito le bacheche del ristorante con libri dedicati e immagini di Spadolini in ogni età, a partire dai lontani anni del Paiolo…
Nella villa di Pian dei Giullari, seduto al tavolo della sala da pranzo (più largo e comodo della scrivania, sempre sovraffollata di carte), con le porte chiuse e il divieto assoluto di essere interrotto, anche per telefono («Ci sono solo per il presidente della Repubblica, della Camera e il presidente del Consiglio…») lavorava. Lavorava sempre, come ha fatto per tutta la vita, e ogni attimo sottratto al lavoro gli sembrava rubato, e quasi se ne faceva una colpa.
«Lavorare» significava in quel caso leggere e documentarsi, con uno scrupolo e un’umiltà da principiante, per scrivere un articolo di giornale, o una prefazione, o la rilettura delle bozze o la «costruzione» e stesura di un libro…
Un rapporto tutto particolare, quello del Professore coi suoi volumi, i suoi scrittori, la sua biblioteca, il «tempio della cultura laica», come amava definirla. Un rapporto tutto personale, direi esclusivo. In certi momenti anche io, che ho trascorso intere accanto a lui quelle domeniche nell’ultimo venticinquennio, mi sentivo «al di fuori», testimone casuale di «qualcosa di religioso» che andava al di là della mia stessa comprensione. E dire che quella biblioteca l’ho montata insieme a lui, libro dopo libro, settore per settore, con totale dedizione e passione. Eppure per me quelli erano libri, alcuni più entusiasmanti, affascinanti, perfino commoventi, ma pur sempre libri. Per il Professore no, c’era in quelle pagine un che di trascendente che solo lui avvertiva. Ricordo che talvolta entrava, in assoluto silenzio, nella stanza della biblioteca che accoglie gli autori più amati, i cosiddetti «maestri e compagni»: Croce, Gobetti, Salvatorelli, Omodeo, Salvemini, Calamandrei, Einaudi, Montale…
Si avvicinava a un palchetto o all’altro, sfiorava i volumi allineati, quasi carezzandoli, li rimetteva a posto secondo la costola affinché ognuna fosse esattamente a fianco dell’altra, e ne sceglieva uno, quasi lo avesse scorto per caso e ne fosse rimasto incuriosito. Lo apriva con delicatezza, leggeva qualche riga. Se si trattava di più di una pagina, sedeva sulla punta del divano.
Io ero lì, nella stanza dalle porte aperte, ma era come se non esistessi, non potevo né dovevo parlare, interrompere il silenzio. Se lo facevo, magari per commentare la scelta del libro, ed esprimere il mio apprezzamento, gli davo sicuramente un dolore. Se interrotto, alzava gli occhi e mi guardava con affettuoso rimprovero, come per chi non comprende cose più grandi di lui. «Perché interrompi il dialogo coi miei fantasmi?». E tornava a leggere, guardandomi bene, io, dall’aprire nuovamente bocca.
Era il dialogo coi suoi grandi, il filo ininterrotto col passato. Era la boccata di ossigeno, di «aria pura», l’attimo di respiro che lo sollevava dagli affanni della tormentosa vita politica. Nel vederlo così assorto, mi tornava in mente quella pagina di Machiavelli, del «suo» Machiavelli, nella lettera a Pier Vettori: «Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittorio; et in su l’uscio mi spoglio di quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali e curiali; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per 4 hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottiscie la morte: tucto mi trasferisco in loro». Professore carissimo…

Cosimo Ceccuti


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