Carlo Cattaneo (Milano, 1801 - Lugano, 1869)
di Giuseppe Galasso – In «Nuova Antologia», fasc. 2125-2126, gennaio-giugno 1978, Le Monnier, Firenze, pp. 251-259.
La storia della «sfortuna del pensiero di Carlo Cattaneo nella cultura italiana» è l’argomento di un saggio significativamente amaro di Norberto Bobbio, apparso nel 1970; ma è un argomento che può essere continuato senza variazioni sostanziali anche per gli anni posteriori, malgrado la continuità di un interesse filologico e critico e di un riferimento politico che non sono mai venuti meno e che rendono la bibliografia cattaneana stabilmente cospicua, benché incomparabile con quella di un Mazzini o di un Manzoni. Cattaneo è, però, anche un caso esemplare della scarsa capacità di penetrazione in Europa di cui ha dato prova, salvo alcune, peraltro rilevanti, eccezioni, la cultura italiana post-illuministica. E non certo, o non soltanto, per deficiente robustezza o originalità di idee. Proprio Cattaneo è un esempio tipico della formidabile resa di cui, in fatto di problemi della storia e della società, in fatto di capacità di dar vita ad un discorso da «economista militante» (come suona il titolo di un altro saggio recente cattaneano e importante, questa volta del Cafagna), la cultura italiana è suscettibile nelle sue componenti tanto umanistiche e storicistiche quanto naturalistiche e positive.
A che cosa è, dunque, dovuta la «sfortuna» - almeno la «sfortuna» italiana – del pensiero di Cattaneo? E come conciliarla con la ricorrente qualifica di militante che ai varii aspetti della sua personalità (filosofo, linguista, economista) attribuiscono studiosi di competenza pari al rigore (Bobbio, Timpanaro, Cafagna)?
Nessuno dubbio è possibile sulla sorte particolarmente negativa che il corso delle cose riservò alla posizione federalistica ispirata e teorizzata dal Cattaneo nella soluzione finale del moto risorgimentale e in tutti i successivi sviluppi. Da questo punto di vista si era determinato uno iato che non si sarebbe più colmato. Lo stesso ordinamento regionale dato allo Stato italiano con la Costituente repubblicana aveva un significato diverso dal federalismo cattaneano. Quest’ultimo puntava all’aggregazione federale dei vecchi nuclei storici italiani, dei vecchi Stati pre-unitarii in un organismo nazionale dalla trasparente impronta elvetica o americana.
Il regionalismo attuato un secolo dopo in Italia sanciva non già il recupero di un’aggregazione federale degli antichi Stati italiani – che sarebbe stato, come è evidente, impresa senza fondamento e senza costrutto -; bensì un decentramento di competenze legislative e amministrative, politiche e finanziarie su una scala regionale legata alla consuetudine di un secolo di vita unitaria, che aveva identificato le regioni con alcuni raggruppamenti, di assai varia organicità, di province vicine.
La retorica che ravvisa nell’attuazione del regionalismo nell’Italia repubblicana l’avveramento del «sogno» di Cattaneo non vale più di ogni altra mal fondata retorica. Ma, intanto, nel pensiero politico di Cattaneo il federalismo era una struttura portante. Ne derivava per intero il modello di organizzazione politica che egli riteneva congruo tanto alle idee di libertà quanto alle esigenze della vita moderna.
A questo primo iato se ne accompagnò un secondo, di non minore rilievo. A nessuno può sfuggire il rigoroso accento democratico che anima le pagine di Cattaneo e il respiro che ad esse ne deriva nell’ambito del pensiero politico contemporaneo. Ma di quale tipo di democrazia si tratta? La risposta non può essere dubbia: si tratta di una democrazia che ha a suo campo e a suo oggetto le istituzioni, i diritti civili, l’esplicazione della libertà in quanto principio della vita politica e amministrativa. L’egalitarismo giacobino, la petizione socialista sempre più viva nell’Europa romantica, le preoccupazioni che facevano trovare a un Mazzini insoddisfacente lo stesso termine di «democrazia» e preferibile quello di «governo sociale», le idee di riscatto popolare o di superamento dell’antitesi fra capitale e lavoro non rientrarono, se non incidentalmente e in maniera non caratterizzante, nell’orizzonte del pensiero cattaneano.
La sua economia politica come la sua politica economica erano ispirate ad un sostanziale liberismo, e, anzi, attingevano a ciò la loro indubbia e seducente nota di vigore e di modernità. Si verificava il paradosso di un pensatore pienamente assorbibile, per questo verso, nel panorama del pensiero liberale, e che, tuttavia, ne fuoriusciva, in Italia, per le sue istanze istituzionali e politico-amministrative, dato l’orientamento monarchico, unitario e centralistico a cui il liberalismo italiano si era legato con l’unificazione del paese.
Il confronto con Mazzini aveva a sua volta un significato evidente. Ben presto «superato» anche lui dalla affermazione di Marx e di Bakunin, Mazzini rimaneva, tuttavia, sempre un esponente di statura e di risonanza europea, se non altro, di quello che i marxisti finirono col denominare, spregiativamente, «socialismo utopistico». Come tale, egli combatté e fu combattuto fino ai suoi ultimi, e specialmente nei suoi ultimi, anni di vita; e lasciò nel paese una tradizione che doveva rivelarsi duratura, per quanto esigua e localizzata, di organizzazione e di lotta politico-sociale. Da Cattaneo sarebbe discesa una tradizione di influenze politico-culturali di grande rilievo, che sarebbe passata, fra l’altro, per Ghisleri e per Salvemini, ma nulla di paragonabile al carattere veramente cospicuo, sul piano delle fedi come su quello delle tradizioni politiche italiane, dell’eredità mazziniana.
Un terzo punto può, poi, essere ancora additato, per la storia della fortuna (o, con Bobbio, sfortuna) di Cattaneo, in Italia, nel modello di sviluppo economico che la sua analisi e la conseguente proposta indicavano al paese agli inizi della sua unità: un modello, ancora una volta, indiscutibilmente moderno e pregnante, ma strettamente legato, nello stesso tempo, all’esperienza lombarda, di una Lombardia considerata assai più nei suoi molti, attuali o potenziali, nessi europei che in quelli in cui effettivamente lo sviluppo della regione avrebbe avuto, e poteva avere, luogo nel quadro dell’Italia in cui essa venne ad essere compresa con l’unità.
Per Cattaneo economista «la dinamica dominante del capitale è quella di un capitalismo di forma commerciale, la tradizione condizionante è quella di una possidenza agraria florida di rendite differenziali vecchie e nuove, la tentazione è quella della tecnica e dell’industria» (Cafagna). Ma era una triplice ispirazione, che rilevava «una aderenza completa, una immersione totale in una prospettiva regionale» (idem). Lo sviluppo lombardo si sarebbe, invece, prodotto come sezione di uno sviluppo nazionale, obbedendo a condizionamenti e avvalendosi di opportunità che la linea additata da Cattaneo non poteva contemplare. Nello stesso tempo questa linea non poteva parlare, oltre determinati limiti, ad una classe economica che maturava largamente in un ambito che andava oltre i confini della Lombardia cattaneana. Essa, pur praticando per più aspetti e a più riprese, le vie dello sviluppo rientranti nella logica del modello lombardo di Cattaneo, seguiva però, la logica di un modello complessivamente assai diverso, in cui avevano ben altro posto la politica e il controllo dello Stato e in cui, anche nella relazione capitale-commercio-terra-manifatture, l’elemento parassitario e privilegiato della rendita avrebbe avuto per l’espansione del sistema troppo largo spazio rispetto a quello del profitto e dell’accumulazione. Insomma, se è vero che la borghesia come la voleva Cattaneo in Italia non nacque mai (Bobbio) è vero pure che Cattaneo non vide la borghesia che in Italia poteva nascere a nasceva.
Tutto ciò non può – ovviamente – essere interpretato come una malaugurata congiura di circostanze avverse o un effetto della forza delle «scole braminiche» in Italia, ma implica una valutazione del giudizio che Cattaneo si fece delle forze storiche agenti nell’Italia di allora e del loro rapporto con le tendenze di fondo della storia contemporanea. E da questo punto di vista non si può dire che la capacità di penetrazione specifica di Cattaneo si rivelasse pari alla eccezionale acutezza della sua intelligenza critica e all’ampiezza della sua preparazione.
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