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    Predefinito Cavour, lo statista di uno Stato europeo che ancora non c’era (1984)

    di Giovanni Spadolini - «La Voce Repubblicana», 19-20 aprile 1984


    «Dominanti i costumi della demagogia e della teocrazia Cavour ha saputo incominciare il processo moderno di una rivoluzione liberale, pur disponendo solo di un esercito e di una dinastia. Educatore e diplomatico, ha trovato l’adesione del popolo senza corromperlo. Paragonato con gli uomini politici che lo seguirono, tranne Sella, appare di un’altra razza…».
    Queste parole di Piero Gobetti, che pure ha legato il suo nome a una visione ereticale e dissacrante del Risorgimento, associata a un titolo di infinta e realistica malinconia e di eccezionale forza antiretorica, il «Risorgimento senza eroi», ci sembra la migliore introduzione a questo omaggio che insieme vogliamo rendere alla memoria del grande statista piemontese, la cui lampeggiante parabola umana – da statista vero, senza titanismi statuari o miracolistici – fu caratterizzata da una duplice predestinazione: il senso della missione nazionale e la devozione al governo parlamentare.
    Il profondo realismo politico dei Cavour, che rivelava anche talune ascendenze machiavelliane, non fu mai angusto conservatorismo, chiuso alle innovazioni spesso imprevedibili che sono prodotte dal corso degli eventi. Capacità di cogliere tutte le occasioni offerte dalla storia, che è però fabbricata dall’uomo, costruita dall’uomo, mai fatalisticamente accettata o subita. Celebrazione, quindi, delle più alte virtù di iniziativa, di fantasia, di coraggio, che costituiscono il portato delle grandi rivoluzioni moderne, aperte dall’umanesimo e culminate nell’illuminismo.
    «Duplice predestinazione»: ho detto. E questa linea direttrice del pensiero e dell’azione di Camillo Cavour esce rafforzata dal terzo e ultimo volume della gigantesca opera di Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo (1854-1861), edita da Laterza: mille pagine che si aggiungono alle altre milleottocento dei due precedenti volumi. Mille pagine segnate da un’indagine che non è mai agiografica, che è condotta con un rigore da grande storiografia, mai sentimentale, mai stucchevole, mai nostalgica, attenta a cogliere il gioco delle forze, pronta a registrare i punti in attivo e quelli in passivo, ostile a tutte le inclinazioni che hanno caratterizzato troppe volte la storiografia italiana su questo tema, all’alternanza di scomuniche e di apologie.
    C’è un legame ideale fra Cavour e il suo biografo: Romeo è «cavouriano» nel senso dello stile, dell’ispirazione di vita, delle fonti culturali. È cavouriano come poteva essere definito Mario Pannunzio, che teneva il solo ritratto di Cavour dietro la sua scrivania, nel vecchio studio di via Campo Marzio, ai tempi del primissimo «Mondo»: l’amico Romeo ricorda bene quelle stanze, in cui ci incontrammo per la prima volta 35 anni fa.
    «Cavouriano» è Romeo esattamente come poteva esserlo Luigi Ambrosini, il grande giornalista giolittiano che ha dedicato a Cavour alcune delle pagine più belle della letteratura politica italiana; così come non lo era stato nessuno dei grandi storici dell’Italia moderna e contemporanea (basterebbe ricordare che lo storico autore delle più belle pagine su Cavour prima di Romeo, cioè Adolfo Omodeo, tutto si poteva definire tranne che un «cavouriano», in quanto prevalevano in lui piuttosto un’impronta e un’influenza mazziniane).
    Eppure Rosario Romeo non ha mai tradotto il suo cavourismo in un limite all’indagine storiografica, in un freno all’interpretazione spregiudicata e spesso sorprendente dei fatti. Nulla è sfuggito alla sua indagine storiografica. Romeo ha visto tutto: testi editi e inediti, fonti importanti e taluni anche meno importanti; documenti di prima mano consultati in tutti gli archivi europei, nonostante le precedenti ricerche, particolarmente importanti quelle dei Valsecchi riguardanti l’alleanza di Crimea, e non solo negli archivi europei.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Cavour, lo statista di uno Stato europeo che ancora non c’era (1984)

    “Non solo un ministro qualunque”

    Il biografo ha controllato, soppesato, misurato. Da storico educato alla scuola di Federico Chabod, non traduce mai in italiano le citazioni francesi o inglesi o tedesche. Il suo libro non è sotto questo profilo, per il lettore comune, di agevole lettura: troppe volte le citazioni o i lampeggiamenti in straniero interrompono il filo del discorso, che nella sua ispirazione ideale è sempre unitario.
    Romeo ha, come Chabod, il culto delle note esplicative, talvolta più importanti del testo. Guarda al quadro globale in cui l’azione dell’uomo si inserisce. Non cede mai al mito carlyniano dell’eroe, che foggia la storia secondo un suo modello michelangiolesco, quasi fosse un metallo da plasmare, una creta da dominare.
    Ritorna le lezione di Croce che è stata essenziale e indimenticabile per Rosario Romeo: lo storico che pure è stato il primo ad affrontare la evoluzione della grande industria e che ha arricchito la tematica liberal-democratica con quegli apporti originali e illuminanti che provenivano dalla sua stessa esperienza, dall’esperienza e dagli stimoli della scuola economico-giuridica (la stessa dei Salvemini e dei Volpe).
    Ecco perché la biografia di Cavour, riassunta in questi tre volumi mirabili, è in realtà la storia del tempo di Cavour. Non a caso il titolo, un po’ antico, cui è ricorso questo storico modernissimo, è Cavour e il suo tempo: che potrebbe anche essere trasformato ne Il tempo di Cavour.
    Rapporto organico, e intimo, fra l’uomo e il suo mondo. Ma il mondo studiato in tutte le sue componenti: diplomatiche, politiche, militari, culturali, economiche. Con l’abbondanza, perfino eccessiva, di dati. Con riferimento a tutte le statistiche possibili e immaginabili: per rompere lo schema della storiografia idealistica «ancien régime», dalla storia tutta fondata, e soltanto fondata, sull’uomo.
    Già leggemmo con grande attenzione i primi due volumi del «Cavour» e ricordiamo con quanto fervore e quanta passione Romeo, nel secondo volume della sua grande opera – quello che si soffermava sugli anni 1842-1854 – polemizzò contro coloro che tendevano a «processare» il «connubio» Cavour-Rattazzi, presentandolo come una variante del deteriore machiavellismo nazionale, come un limite al ricambio o all’avvicendamento delle classi di governo.
    Il quadro che Romeo tracciò dei partiti piemontesi fu impeccabile. C’era dentro tutto: senza acrimonia ma con una sovrana padronanza delle forze storiche, delle loro radici di classe, dei loro limiti ideologici. C’era la democrazia radicale, quella che urlò ancora dopo Novara «onore, onore», che non volle arrendersi alla realtà dei fatti, che aveva tanto pesato sul malinconico epilogo della sfortunata avventura albertina. C’era la destra clericale e savoiarda che accompagnò i passi indipendenti del Re Carignano con tante titubanze, con tante perplessità, con tante interiori ripugnanze. E non mancavano i vari filoni del liberalismo piemontese, in cui solo dopo il ’49 si delineò un proprio programma, autonomo, di Cavour, progressista e riformatore. Infine ammiccavano all’orizzonte i nuovi settori, inquieti e compositi, dell’emigrazione democratica in Piemonte, specchio di un’Italia frastagliata, variegata, perfino insondabile.
    E mai una pregiudiziale, mai una scomunica. Questo storico, che è tutto per Cavour, è stato il primo a capire e a registrare, in quelle pagine, il peso che ebbe la corrente democratica subalpina nella dialettica del Piemonte, il valore di stimolo cui assolse per l’attuazione dei disegni cavouriani, lo stesso raccordo che tenne coi motivi fondamentali della predicazione mazziniana.
    Il «Connubio»: uno spartiacque nell’azione di Cavour, essenziale per tutti gli svolgimenti di poi. La coscienza, precisissima nel Conte fra il 1851 e i primi del 1852, che la versione galantomista e ripiegata su se stessa, non senza una vena di nobiltà elegiaca, del liberalismo azegliano non bastava più. L’intuizione che il colpo di Stato del principe-presidente nella Parigi del ’51 bloccava la nascita del socialismo in Europa (l’incubo del Cavour del ’48), ma obbligava il Piemonte sabaudo a spostarsi sulla sinistra, a recidere i vincoli col vecchio mondo feudale e clericale, a compiere un salto di qualità sulla via della difesa del regime costituzionale.
    Ecco la trama del connubio, la grande operazione politica cui sarà legato il decennio successivo, «l’atto più bello della mia vita», come dirà il protagonista. Creare un nuovo centro parlamentare, egualmente lontano dalla destra dei Revel e dalla sinistra giacobina, ma assorbendo il centro-sinistra di Rattazzi, esponente del nuovo con tutte le sue impazienze e insofferenze, ceto medio emergente, nella provincia piemontese. Portare Rattazzi alla presidenza della Camera: inizio e avvio di una rivoluzione parlamentare che il Re Vittorio II non tardò a capire se, istintivamente conservatore com’era, tanto si oppose a quella mossa (altro che fatti parlamentari senza conseguenze dei fatti politici!).
    Vittorio Emanuele II e Cavour. Un rapporto tutto ancora da esplorare; una relazione fra il Re e il presidente del Consiglio, molto più complessa, tormentata e variegata di quanto si sia creduto finora.
    «Dopo le parole che voi ieri pronunciaste, qualunque ministro avrebbe dovuto dare a quest’ora le sue dimissioni. Ma io non sono un ministro qualunque… Pertanto rimango». Così scriveva Camillo Cavour al re, Vittorio Emanuele II, dopo una delle tante scenate che ritmarono il rapporto fra il sovrano e il suo primo ministro (che si chiamava soltanto ministro, perché allora la carica di presidente del Consiglio era poco più che ornamentale, il potere si identificava ancora con le insegne dimesse e funzionali dell’antica amministrazione subalpina).
    Quella volta la scenata si era svolta lontano da Torino, fuori di casa, e quindi tanto più cocente per il conte, che aveva un senso profondo e geloso della dignità, nascosto sotto il volto sorridente e cattivante, sotto quella smorfia di ironia degradante nella malinconia. Era avvenuta niente meno che sullo sfondo solenne del fiorentino Palazzo Pitti, in occasione della prima visita che il re di Sardegna, da poche settimane re anche della Toscana e delle Legazioni, aveva compiuto il 16 aprile 1860 nel capoluogo toscano, cedutogli, con alterezza da pari grado, da Bettino Ricasoli.
    Cavour era tornato al potere da metà gennaio del ’60, dopo l’esilio a Leri successivo a Villafranca, era stato «reintegrato» controvoglia dal sovrano. Prima designato a capo della delegazione sarda al congresso di Zurigo; poi in poche ore, di fronte al disfacimento della tela ordita da Rattazzi e La Marmora, supplicato di tornare a fare il primo ministro, da parte del sovrano che non ne sopportava nulla, né il genio, né la popolarità, né il prestigio, né l’influenza politica.
    E quel giorno, in una città come Firenze, così lontana dal suo gusto tutto torinese, nelle sue estenuazioni lorenesi, il sovrano lo aveva trattato con particolare durezza, e gli aveva rivolto una serie di acri rilievi a proposito della cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, proprio davanti ai dignitari dello Stato, davanti ai rappresentanti del moderatismo toscano e italiano, così da indurre a mandare – lo annoterà lui stesso in un’altra lettera - «Sua maestà al diavolo».
    Cavour aveva avuto uno scatto corrispondente al suo temperamento collerico, mutevole, impressionabile, tutt’altro che appagato e riposante come lo rappresentava l’iconografia di moda. Aveva interrotto il viaggio ufficiale, aveva sbattuto la porta a Firenze e al Sovrano, ripartendo per Torino, via Livorno e Spezia. Si preparava ai nuovi colpi del «dualismo» con la Corona, che sarebbero stati acuiti dalla ormai imminente spedizione di Garibaldi in Sicilia, da tutta la complessa e tormentata vicenda culminata nel finale trionfo della monarchia, a Teano, grazie alla strategia sapiente, e in qualche momento spietata, elaborata dal conte.
    «Io non sono un ministro qualunque». In questa espressione si riassumeva intero il sentimento di una storia, che fondeva il senso di una «predestinazione» (un senso quasi calvinista) col rigore di una missione ideale, col fascino di un grande compito da assolvere. Ecco perché le conclusioni di Romeo non sono molto lontane da quelle. Non senza avvicinarsi a quelle di un uomo che Romeo non ha mai amato, e continua a non amare neanche in queste pagine, Luigi Salvatorelli: almeno per quanto riguarda il rapporto cruciale Cavour-Garibaldi.
    Una cosa è certa. Chi legga con spirito critico e disincantato i due capitoli essenziali di questo terzo volume, «la formazione dell’unità d’Italia» e «il nuovo Stato», vedrà che la conclusione di Romeo è molto simile a quella che Omodeo aveva solo anticipato per non essere arrivato nella sua opera a quegli anni, ma che Salvatorelli aveva spiegato e illuminato in quelle pagine balenanti del «Pensiero e azione del Risorgimento» che Romeo, a nostro giudizio a torto, continua a considerare nutrite «di dialettica di idee spesso ridotta a dialettica di sole parole».
    È un rapporto di integrazione, reciproca e costante, fra l’iniziativa moderata e l’iniziativa popolare. È un rapporto di intreccio, tutto italiano e tutto irripetibile, fra la monarchia e la rivoluzione. È un rapporto, misterioso e spesso inestricabile, fra i colpi dell’iniziativa monarchico-moderata, guidata con genio diplomatico incomparabile da Cavour, e i capi dell’iniziativa popolare, sempre minacciati o tentati da Mazzini e, in modi diversi e peculiari, realizzati da Garibaldi: in una dialettica che è il segreto del Risorgimento e fa sì che la realizzazione dello Stato unitario non sia né la conquista monarchica né la conquista piemontese.
    Una vera novità significativa emerge dalle pagine di Romeo: a correggere i clichés spesso deformanti di quella storiografia radicale, aperta dall’amico Denis Mack Smith, che tendeva a rigettare tutte le colpe del dissidio Cavour-Garibaldi sullo statista piemontese, esentandone l’Eroe dei sue mondi con quella larghezza e liberalità che scaturivano dalla tradizione intimamente e irriducibilmente filo-garibaldina della cultura e della storiografia anglosassone.
    Ricordiamo quanto aveva scritto lo storico inglese nel capitolo conclusivo di Garibaldi e Cavour nel 1860: «Cavour ebbe un atteggiamento talvolta ingannatore, spesso incerto e sempre più o meno ostile a Garibaldi». E poco dopo egli sottolineava: «Il loro contrasto rappresentava la naturale divisione tra la destra e la sinistra, l’impeto e la cautela, il radicalismo e la conservazione, il metodo della spada e quello della diplomazia».
    Romeo non accetta queste semplificazioni, cui reagisce con quel fondo di forte passione civile che continuamente increspa l’imperturbabilità dello storico (e Romeo è uomo di così ferme convinzioni da escludere ogni patteggiamento, ogni finzione o sotterfugio diplomatico).
    I biografi del Conte sottolineano il costante rispetto per il Generale, che anima Cavour: pur nel radicale dissenso sulla filosofia politica che deve guidare il nuovo Stato, pur nel costante timore che l’azione generosa dell’eroe sia poi guidata o indirizzata da Mazzini verso i fini repubblicani della Costituente e della rivoluzione francese, cui Cavour oppone il suo modello di garantismo britannico, nutrito di tanti succhi della cultura elvetica e della cultura della Francia della restaurazione e dell’età orleanista.
    «Garibaldi ha un carattere generoso, istinti poetici; nello stesso tempo ha una natura selvaggia, presso la quale certe impressioni lasciano tracce incancellabili». Ecco un giudizio tra i tanti in una lettera di Cavour a Nigra del 12 luglio 1860. Ma ce n’è un altro del 9 agosto 1860, che è ancora più rivelatore (siamo nel momento culminante del dissenso per l’imminente liberazione di Napoli): «se domani entrassi in conflitto con Garibaldi, è possibile che avessi con me la maggioranza dei vecchi diplomatici, ma l’opinione pubblica avrebbe ragione, perché Garibaldi ha reso all’Italia i più grandi servigi che un uomo potesse renderle: egli ha dato agli italiani fiducia in loro medesimi, e ha dimostrato all’Europa che gli italiani sapevano battersi e morire sui campi di battaglia per riconquistare una Patria».
    Non a caso Cavour seguì la spedizione dei Mille con profonda apprensione. La sua maggiore preoccupazione sarà quella di evitare uno scontro armato con Garibaldi, tale da indebolire la monarchia.
    Evitare uno scontro armato con il Generale: ecco l’obiettivo che spingerà Cavour, nel settembre 1860, ad offrire a Vittorio Emanuele le proprie dimissioni, quando Garibaldi aveva ormai deciso di puntare su Roma.
    Convinto che «altri consiglieri» avrebbero potuto e con maggiore facilità – sono parole dello statista - «scongiurare i probabili conflitti col dittatore dell’Italia meridionale». Dopo che Garibaldi si era mostrato ancor più ostile a Cavour: nella speranza di conquistare la simpatia del Re, costantemente sospettoso verso il suo Ministro.
    Quelle dimissioni saranno rifiutate da Vittorio Emanuele, anche e soprattutto per il timore di una reazione negativa del fronte moderato all’allontanamento di Cavour. Ma le preoccupazioni dello statista si acuirono col passare di quei giorni tremendi, fino al momento in cui egli manifesterà al sovrano, con totale sincerità, quali fossero i suoi sentimenti verso Garibaldi. «È il più fiero nemico che io abbia, eppure io desidero ardentemente per il bene dell’Italia e l’onore di Vostra Maestà ch’esso si ritiri pienamente soddisfatto».
    Garibaldi fu probabilmente ingiusto quando respinse la proposta del suo amico Candido De Vecchi di dire una parola, una parola sola, al momento della morte di Cavour che non aveva neanche terminato, il 6 giugno 1861, i cinquantuno anni: il primo presidente del Consiglio nella storia d’Italia, e finora l’unico, che sia morto in carica, a tre mesi appena dalla fondazione del nuovo Stato.
    È un silenzio che diventa più crudele dopo le ferite inferte al conte nel dibattito parlamentare sulla sorte dell’esercito meridionale. È un silenzio che si collega intimamente a quella che fu la costante, insuperabile insofferenza del generale verso Cavour: seguace appunto di una visione dell’Italia, e di una concezione democratico-parlamentare del potere, che rifuggivano dalle scaturigini nazional-popolari di una democrazia patriottica, non senza trasalimenti giacobini come quella del condottiero.
    Ma dobbiamo dire che quel silenzio di Garibaldi è ancora nulla rispetto all’ostentato e un po’ cinico distacco del re, di Vittorio Emanuele II, che non solo non partecipò alle esequie del conte (una tradizione che i Savoia rinnoveranno anche con Giolitti) ma col pretesto degli obblighi di studio vietò che i principi reali partecipassero ai funerali.
    Le vendette contro il primo ministro, per i suoi ribuffi alla Corona, si eserciteranno implacabili: anche dopo la morte. Ma in quella meschinità c’è il presagio delle future contraddizioni e dei finali errori della monarchia. Leggendo questo libro di Romeo, si capisce Oriani. E Oriani ci riconduce al nostro Gobetti che capì tutto quando scrisse, riguardo a Cavour: «Il ministro piemontese sovrasta ai suoi contemporanei perché guarda gli stessi problemi con l’occhio dell’uomo di Stato». E Cavour fu l’unico uomo di Stato, per uno Stato che ancora non c’era.


    Giovanni Spadolini


    Nota: Il testo del discorso di Giovanni Spadolini a Palazzo Baracchini in occasione della presentazione dell’ultimo volume dell’opera di Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo (1854-1861).
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