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    Predefinito Riapriamo il caso Cesare Pavese

    https://www.ariannaeditrice.it/artic...-cesare-pavese

    Riapriamo il caso Cesare Pavese
    di Marcello Veneziani - 31/08/2020

    Il 27 agosto del 1950 Cesare Pavese si tolse la vita. Di lui restò una biografia ufficiale e una sommersa. La versione canonica narra che fu scrittore antifascista, mandato dal regime al confino, importò il vento della libertà traducendo scrittori americani, si iscrisse al Pci, lavorò all’egemonia culturale della sinistra con Einaudi. La versione negata racconta invece che fu intellettuale solitario, disorganico, estraneo allo storicismo marxista, censurato in vita all’Einaudi e censurato post mortem dagli intellettuali organici del Pci per il suo diario sconveniente, tenuto nascosto per ben 40 anni.

    “Politicamente sospetto” fu il verdetto che Ernesto De Martino, legato al Pci, emise in una lettera a Giulio Einaudi a quattro giorni dal suicidio di Pavese. Per l’etnologo Pavese aveva scritto “documenti assai gravi” che mostravano la sua “involuzione culturale”. La polemica era già divampata su “Cultura e realtà” e riguardava la famosa collana viola di Einaudi. Pavese voleva pubblicare nella collana autori proibiti ed era contrario a far precedere i loro testi da “dieci pagine di mani avanti e di proteste antifasciste” come lui scrisse. Aveva pubblicato i testi “reazionari” di Dumezil e di Kéreny, aveva chiesto i diritti delle opere di Schmitt e Junger, Il Tramonto dell’Occidente di Spengler, I Proscritti di von Salomon e La Grande Triade di Guénon nella traduzione di Evola. Il Pci faceva sentire il fiato sul collo dell’Einaudi, tramite Giolitti, Alicata e Muscetta. Quando Pavese decise di pubblicare Mircea Eliade, il Pci tramite Ambrogio Donini intervenne su Giolitti: “I compagni rumeni ci segnalano che presso Einaudi dovrebbero uscire due libri dello scrittore controrivoluzionario Mircea Eliade…Sei al corrente della cosa?” Pavese, informato a sua volta da Giolitti rispose “dovremmo smettere di pubblicare le opere scientifiche di Heisenberg perché questi è un nazista?” e a De Martino scrisse: “Che Eliade abbia fama di nazista non ci deve spaventare”. Ma l’orizzonte di Pavese divergeva dall’Intellettuale Collettivo: era il mito e non il materialismo dialettico, era con Vico non con Marx, era attratto dal mistero del sacro e non dallo storicismo, dalle langhe e non dalle fabbriche, dalla magia dell’infanzia passata e non dall’avvento del comunismo futuro; dialogava con gli dei non con i leninisti.

    L’anno chiave in cui si acuiscono i dissensi col Pci è il ’48. Pavese scrive pagine umane, troppo umane sui morti fascisti ne La Casa in collina: “Ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini: sono questi che mi hanno svegliato…anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue…al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione”. Pubblica l’Antologia Einaudi, stroncata da l’Unità perché estranea al neorealismo marxista: troppa America, troppo irrazionalismo; accusa che, secondo il canone di Lukàcs, equivaleva all’accusa di fascismo. Augusto Monti lo trovò dannunziano, Lucio Lombardo Radice su la Rinascita togliattiana paragonò Pavese e Moravia allo scrittore collaborazionista Drieu La Rochelle, accusandoli di decadentismo. Mario Alicata, recensendo la luna e i falò, ne denunciò l’ambiguità. L’Unità stroncò La bella estate, ritenuta troppo intimista e borghese. Rinascita se la prese con il saggio di Pavese in difesa del mito, apparso su Cultura e realtà, che costò al suo direttore, Mario Motta, la rottura col Pci: “Cosa può significare sostenere che ciascuno può sperare in un paradiso soprannaturale, ma in un paradiso terrestre no, se non rovesciare la famosa direttiva programmatica di Lenin sull’unità di tutti i lavoratori per costruirsi sulla terra un avvenire migliore?”. Scomunicato. Contro Pavese pure Lajolo, Moravia…

    La giornalista de La Stampa Bona Alterocca, biografa di Pavese, raccontò di avergli chiesto, scherzando, di essere aiutata se i comunisti fossero andati al potere. Pavese si fece serio e rispose: “Se vanno su i comunisti, verrò io a chiederle di aiutarmi presso di loro” e aggiunse che non aveva ricevuto l’ultima tessera annuale del Pci, né l’aveva sollecitata. La solitudine lo aveva spinto verso l’Intellettuale Collettivo, il Pci, ma ne ricavò ulteriore isolamento.

    Mandato al confino per coprire una militante comunista, Tina, di cui era innamorato, Pavese chiese e ottenne da Mussolini la grazia dimostrando la sua estraneità all’antifascismo. Marzio Pinottini, dell’Università di Torino, in un articolo su Il Tempo narrò la strana storia di Pavese “iscritto al partito fascista della Rsi”. La sua tessera, a suo dire, giaceva negli archivi dell’Einaudi.

    A 40 anni dal suicidio, nel 1990, Lorenzo Mondo pubblicò su La Stampa diretta da Paolo Mieli il diario rimosso di Pavese ai tempi della guerra. Qui Pavese apprezzava il fascismo di Salò, il manifesto fascista di Verona, perfino il Blut und Boden nazista e criticava aspramente l’antifascismo. Già nel ‘52 Monti scriveva preoccupato a Einaudi “dovresti astenerti dal pubblicare quel diario”. Dieci anni dopo Mondo fece vedere i taccuini inediti a Italo Calvino che era organico al Pci. Questi, nel racconto di Mondo, “impallidì” e piombò in un lungo silenzio. Poi suggerì di metterli in cassaforte e non darli alle stampe per evitare “le speculazioni volgari che avrebbero fatto”. Settant’anni dopo è tempo di restituire Pavese alla verità e la sua poesia al mito.

  2. #2
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    Predefinito Re: Riapriamo il caso Cesare Pavese

    Né vero fascista né antifascista. Le pagine scomode di Pavese
    Per la prima volta in volume il "Taccuino segreto". Nessuno volle pubblicarlo perché faceva uscire lo scrittore dal mito

    Luigi Mascheroni - Sab, 08/08/2020 - 17:00
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    E se Cesare Pavese fosse il nostro minuscolo Céline?

    Ci sono tanti modi per celebrare l'anniversario del grande scrittore. La rievocazione, l'apologia, il ritratto poetico. Oppure una rilettura della sua parabola umana e intellettuale attraverso il ricordo, a lungo rimosso, di una «bizzarria della storia culturale italiana».


    Il caso Pavese. Ne parlarono, per un'estate, tutti i giornali italiani, e anche francesi. E poi l'oblio. Era l'agosto 1990, trent'anni fa. E si celebrava, allora come oggi, la morte di Cesare Pavese, uccisosi il 27 agosto 1950, a Torino, in una camera dell'albergo «Roma». Dieci bustine di sonnifero.

    La bio-bibliografia letteraria di Pavese è nota, e non è il caso di citarla. Il suo percorso politico invece si può sintetizzare in poche date: nel '32-33 acquisì la tessera del Fascio; nel '35 fu condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro per attività sovversiva; nel '36 rientrò a Torino in seguito a una domanda di grazia accolta dal Duce; nel '45 si iscrisse al Pci. Da lì in avanti il nome di Pavese torinese, einaudiano, comunista divenne il simbolo della miglior intellighenzia antifascista. Fino a quando poche pagine di un quadernetto, fino a quel momento ignoto, cambiarono l'immagine e il giudizio sullo scrittore.

    Di cosa parliamo? Del Taccuino segreto di Cesare Pavese. Un bloc-notes di una trentina di pagine al quale tra l'inizio del 1942 e il dicembre 1943, quando era rifugiato sulle alture della campagna piemontese, prima a Serralunga di Crea poi al Collegio Trevisio di Casale Monferrato, il poeta affidò alcuni appunti sparsi. Il quadernetto fu trovato dal giornalista Lorenzo Mondo fra le carte dello scrittore a casa della sorella Maria, nel 1962. Ne fece delle fotocopie e poi lo consegnò a Italo Calvino negli uffici torinesi dell'Einaudi. Passò del tempo, del taccuino non se ne seppe più niente, Calvino non prese in considerazione la possibilità di pubblicarlo, e poi sparì (ma rimasero, per fortuna, le fotocopie). Finché l'8 agosto 1990 Lorenzo Mondo decise di rendere pubblici gli appunti di Pavese su La Stampa. E qui inizia un vero dramma esistenziale per l'intellighenzia italica. Le annotazioni di Pavese sono una bomba. Lui, antifascista e poi iscritto al Pci, in quei foglietti si lancia in invettive contro gli antifascisti e la loro stupidità, riflette sul fascismo come disciplina di vita utile agli italiani (il fascismo che ha il grande merito di dare al popolo italiano una vera visione dello Stato), parla con tono indulgente di Mussolini e della Repubblica di Salò (e spera che possa emergere vincitrice dalla guerra poiché questo nuovo fascismo rappresenterebbe un ritorno al progetto iniziale del primo manifesto di Mussolini), arriva persino quasi a giustificare gli eccidi nazisti (anche i rivoluzionari francesi facevano cose simili).

    Capite che non si tratta di vezzi di un intellettuale irregolare, di pose di un irriducibile enfant terrible Qui siamo di fronte a posizioni radicali. All'epoca l'estate 1990 si scatenò una polemica feroce. La pubblicazione del taccuino infiammò la stampa, scatenando una campagna diffamatoria senza precedenti (si accusò persino lo scopritore del quadernetto: meglio avrebbe fatto a starsene zitto). In una sorta di isteria collettiva i vecchi amici di Pavese, ex partigiani e critici letterari fecero di tutto per smentire, smussare, contestualizzare e addirittura confutare l'autenticità del documento (qualcuno arrivò a dire che magari si trattava di prove narrative: gli appunti come pensieri da mettere nella testa del protagonista di un romanzo). Giancarlo Pajetta definì Pavese «vigliacco e disertore». Fernanda Pivano confessò: «Io l'ho sempre idealizzato come un antifascista puro. Leggere questo taccuino mi fa sentire come se mi avessero pugnalato alla schiena». Mentre Luisa Sturani definì Pavese «un eterno adolescente, un uomo tormentato, nevrotico». Soprattutto né la Einaudi né altri editori se la sentirono di pubblicare lo scomodo taccuino. Che rimase confinato in ritagli di giornale e fotocopie pirata.

    Fino a oggi. Un altro editore torinese, meno ideologizzato e più elegante di Einaudi, ha portato a termine un'operazione filologicamente inappuntabile pubblicando in volume la trascrizione degli appunti con l'anastatica delle 29 pagine del bloc-notes, un intervento di Angelo d'Orsi che fa da introduzione, la testimonianza di Lorenzo Mondo, una lunga nota della curatrice, Francesca Belviso, e un'appendice con gli articoli di stampa che nel 1990 diedero corpo al caso Pavese (fra gli altri, di Mario Baudino, Pierluigi Battista, Franco Ferrarotti, che parla dei letterati italiani come «i campioni del pettegolezzo e delle grandi cene intellettuali in terrazza», Gianni Vattimo, Natalia Ginzburg, forse la più indulgente con il vecchio amico). Ed eccolo qui l'ultimo inedito pavesiano a non aver mai visto la luce in un libro Einaudi: Cesare Pavese, Il taccuino segreto (Aragno, pagg. CXXVI+174, euro 25). Da notare che il testo del Taccuino è stato raramente oggetto di analisi da parte di critici e specialisti, che hanno preferito dimenticare le contraddizioni - altri direbbero le fragilità - di uno dei nomi più alti del nostro 900 letterario. Il quale, grandissimo poeta e romanziere, fu incapace come nota Francesca Belviso nel suo imperdibile ritratto in chiaroscuro dello scrittore di sciogliere il suo vero dilemma: «esser nato nella culla dell'antifascismo italiano, crescendo accanto a uomini della tempra di Leone in uno dei bastioni della lotta partigiana e della cultura engagé e costituendo in tal modo una sorta di eccezione». La realtà, leggendo il taccuino e ripensando alla biografia dello scrittore, è molto più sfumata di quanto gli opposti furori ideologici vogliano insinuare. «È dei nostri, no è dei nostri...». Come l'iscrizione al Partito fascista per Pavese era stata priva di un vero significato ideale o ideologico, così l'iscrizione dopo la guerra al PCI fu un'adesione senza militanza. «Pavese è persuaso che tutto sia concesso, tutto si possa perdonare al poeta: egli compie ognuno di quei gesti con una sorta di purezza; ovvero, inconsapevolmente, cioè senza una coscienza politica» scrive Angelo d'Orsi. Un Pavese impolitico, dunque, del tutto lontano da ogni forma di impegno politico autentico. Che, forse, è la cosa peggiore che si possa dire di un intellettuale di quell'epoca. E cioè che Pavese non fu fascista fino in fondo. Ma neppure un vero antifascista.https://www.ilgiornale.it/news/spett...e-1882233.html

  3. #3
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    Predefinito Re: Riapriamo il caso Cesare Pavese


  4. #4
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    Predefinito Re: Riapriamo il caso Cesare Pavese


  5. #5
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    Predefinito Re: Riapriamo il caso Cesare Pavese

    Lette tante cose del buon Cesare e non sapevo dell'esistenza di tale taccuino.
    Compagno e camerata Cesare Pavese, a noi!

    Chissá se lo trovo.
    Religione per noi significa la dottrina (...) dell'allevamento che renda possibili le anime superiori a spese di quelle inferiori.
    Religion bedeutet uns die Lehre von (...) der Züchtung und Ermöglichung der höheren Seelen auf Unkosten der niederen.

  6. #6
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    Predefinito Re: Riapriamo il caso Cesare Pavese

    Veneziani si dimostra per l'ennesimo volta un pallone (s)gonfiato. Oramai è costretto a pubblicare le sue banalità sul giornaletto di Belpietro. Le Magli, i Severino e i Ceronetti se ne vanno i veneziani rimangono...
    Bazooka!!!

  7. #7
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    Predefinito Re: Riapriamo il caso Cesare Pavese

    Lui c'era già arrivato allora, ma sono convinto che molti partigiani, se avessero potuto anche lontanamente avere un'idea del merdaio italiano attuale, sarebbero corsi ad arruolarsi nelle Brigate Nere.

  8. #8
    Non dire gatto se...
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    Predefinito Re: Riapriamo il caso Cesare Pavese

    i migliori alla fine pendono sempre da quella parte c'è poco da fare
    «che giova ne la fata dar di cozzo?»

    “Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è ottima”

 

 

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