di Arturo Carlo Jemolo – In G. Spadolini (a cura di), “Il venti settembre nella storia d’Italia”, «Nuova Antologia», fasc. 2038, ottobre 1970, Roma, pp. 73-86.
La questione romana sorge soltanto con l’ottocento.
Sarebbe artificioso ricollegarla alle polemiche sulla falsa donazione di Costantino, o agli attacchi della Riforma alla figura del Papa, che, giungendo a farne quasi una creazione demoniaca, toccano tutti gli aspetti del suo ufficio e dei suoi poteri.
Com’è noto, lo Stato pontificio, che affonda le proprie radici nell’alto medioevo, aveva assunto la sua configurazione tra la fine del secolo XV e l’inizio del XVI, avendo operato in particolare il Borgia a estirpare le minori signorie. Né la sua legittimità era mai stata contestata, anche perché non mancavano, sia pure entro l’ambito dell’impero, numerosi principati ecclesiastici, vescovi e abati sovrani, sì che uno Stato della Chiesa non appariva un unicum.
La rivoluzione francese reca il primo colpo dell’annessione di Avignone e del Contado Venassino, nel 1791; poi nel giugno 1796 l’esercito di Bonaparte passa il Po e occupa Bologna e Ferrara; viene conchiuso l’armistizio di Bologna, ma i francesi lo rompono nel febbraio del ’97 e rapidamente giungono ad Ancona; col trattato di Tolentino del 1797 la S. Sede perde Bologna Ferrara e le Romagne, ma in fatto non rià le Marche, e nel febbraio 1798 Berthier occupa Roma.
Nell’atto che viene formato e sottoscritto in una assemblea del popolo al Foro romano – poche centinaia di persone in realtà – si potrebbe anche rinvenire un primo abbozzo di legge separatista, perché mentre il popolo romano è proclamato sovrano, si dichiara che la religione dev’essere salva, che la dignità e l’autorità spirituali del Papa rimangono intatte, e si fa riserva di provvedere in seguito convenevolmente al suo mantenimento e alla salvaguardia della sua persona mediante una guardia nazionale.
Ma nulla di ciò si realizza, perché Pio VI è deportato a Siena, poi sosta alla certosa d’Ema presso Firenze, e infine è condotto in Francia, a Valance, dove muore il 29 agosto 1799. La repubblica romana ha termine il 30 settembre 1799 con l’arrivo dell’armata napoletana.
Pio VII ritorna a Roma nel giugno del 1800, ma restano ferme le rinunce accettate dalla S. Sede con il trattato di Tolentino. Nel 1805 i francesi occupano Ancona, e nel 1808 le province di Ancona, Macerata, Urbino e Camerino sono annesse al regno d’Italia. Infine il decreto del 17 maggio 1809 riunisce all’impero francese quel che resta dello Stato della Chiesa, proclamando Roma città libera e imperiale. Il senato-consulto 17 febbraio 1810 è un lontano precedente della legge delle guarentigie; in esso si proclama che il Papa cessa di essere sovrano in quanto «ogni sovranità straniera è incompatibile con l’esercizio di qualsiasi autorità spirituale nell’interno dell’impero»; al Papa è attribuito un appannaggio di due milioni di rendita su beni rurali; le spese del S. Collegio e quelle della Congregazione di Propaganda sono dichiarate imperiali.
Com’è noto, alla Restaurazione la S. Sede riottenne tutti i possedimenti, tolto Avignone e il Contado Venassino.
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Cos’hanno rappresentato le due interruzioni, del 1798-99 e del 1809-14?
Se ne è parlato un po’ nelle celebrazioni del secondo centenario della nascita di Napoleone, lo scorso anno. Il miglior conoscitore della materia, Vittorio Giuntella, ritiene che grandi entusiasmi si fossero realmente accesi nel 1798, che avrebbe rappresentato a Roma qualcosa di comparabile al 1789 francese; ma nota che i protagonisti, i consoli di questa effimera repubblica romana, scompaiono poi senza lasciare traccia; non riemergono più nel periodo napoleonico, non se ne sente più parlare.
Del meno breve periodo imperiale restano tracce in qualche nome di via; c’è tra S. Pietro in Vincoli e il Colosseo una via della Polveriera, dove fino a una ventina di anni fa si scorgeva un bello stipite di porta, con la scritta Établissement impérial des poudres, e ancora sormonta il balcone del palazzo della Cancelleria la lastra marmorea «Corte d’appello» che ricorda come fosse usato il palazzo nel periodo napoleonico; e se pure Napoleone non sostasse mai al Quirinale, nella visita vi s’indica un’ala napoleonica.
Per l’amministrazione di Roma l’impero si servì quasi interamente di romani, a cominciare dal nipote di Pio VI, Braschi Onesti; parte dei magistrati furono assunti dai ranghi degli avvocati concistoriali, e alcuni ritornarono dopo il 1814 ai vecchi compiti, qualcuno era già passato a Parigi e vi rimase.
Ma il popolo, mi dice l’amico Giuntella, non ebbe alcun’adesione, e meno che mai entusiasmo, per il regime napoleonico; non avvertì che una dominazione straniera; né dopo il ’14 ne sentì alcuna nostalgia.
D’altronde l’ondata generale antinapoleonica che seguì al Restaurazione favoriva in Italia e nel mondo l’accettazione del risorto Stato pontificio. I movimenti del 1830-31 se trovarono una consistenze nelle Romagne, a Roma non avevano base che in pochi carbonari ed elementi dell’antico esercito del regno italico; è noto come vi fossero implicati il futuro Napoleone III e il fratello Carlo.
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