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    Predefinito Garibaldi e Mazzini nella memorialistica garibaldina

    di Paolo Mario Sipala – In G. Cingari (a cura di), “Garibaldi e il socialismo”, atti del Convegno internazionale di studi (Messina, 3-4-5 giugno 1982), Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 169-178.


    L’idea di una letteratura garibaldina era posta in discussione da Benedetto Croce nel 1940 in base ad una duplice considerazione: letteratura e poesia non si piegano alla volontà di un autore di celebrare fatti e figure della storia, e – d’altra parte - «i grandi uomini e i grandi fatti aspettano non la poesia, ma la prosa, cioè la storia che li intenda e comprenda e dica quel che essi veramente operarono: la storia che, per altro, ha colore e calore, e che storia non sarebbe, se si dimostrasse languida e frigida»[1].
    Si può sempre obbiettare che se la poesia conserva una propria intangibile autonomia, accade però che certi eventi e certi uomini hanno la facoltà di muovere e commuovere il cuore e la fantasia dei poeti; altri non l’hanno. Così, ad esempio, la fortunata ‘breccia di Porta Pia’ non sollecitò alcuna emozione poetica negli scrittori italiani, mentre la sollecitò la sfortunata impresa di Mentana[2].
    Inoltre occorre distinguere nella letteratura garibaldina la produzione lirica che volle dare toni quasi sempre epici al mito garibaldino che era già istintivamente nato, nella coscienza popolare, dalla letteratura autobiografica e memorialistica che non solo è un fatto letterario rilevante in quanto riflette, in particolari situazioni, le condizioni e i limiti del ‘patto autobiografico’, ma ha una specifica funzione storica e politica in quanto fonte essa stessa (insieme alle altre, archivistiche, documentarie, pubblicistiche, bibliografiche) della conoscenza storica e testimonianza di motivazioni politiche.
    Fa riflettere, ad esempio, la constatazione che la scrittura e la pubblicazione di autobiografie e memorie del Risorgimento (anche di parte moderata: i Ricordi del d’Azeglio sono del 1866) sia concentrata nell’arco del post-Risorgimento che va dalla proclamazione del Regno ai conati di regime autoritario, tra il 1861 e il 1895. Mazzini con i ‘ricordi’ frammezzati dall’edizione daelliana dei suoi scritti e il mazziniano Alberto Mario con Camicia rossa sono tra i primi perché per loro un ripensamento della vicenda unitaria era già possibile subito dopo il 1861.
    Garibaldi scrive più tardi, nel 1872, quando altre imprese (la terza guerra d’indipendenza e la conquista di Roma) si sono consumate; ancora più tardi l’Abba pubblica le Noterelle tra il 1880 e il 1882; Nino Costa e Giulio Adamoli nel ’92 e Anton Giulio Barrilli nel ’95 rievocano la loro avventura garibaldina rispettivamente durante la Repubblica romana, da San Martino a Mentana, alle porte di Roma nel 1867.
    Questi libri, osserva Gaetano Trombatore, «furono come un muto rimprovero ed ebbero l’ufficio di ricordare ai tralignati eredi, ai nuovi mestatori della politica, l’onestà, il disinteresse, l’abnegazione, l’umile e semplice eroismo che avevano fatto l’Italia»[3]. Una forte motivazione etico-politica, dunque, ispira nel post-Risorgimento le memorie del Risorgimento.
    Un ulteriore rilievo consente questa letteratura. Chi ha avuto una parte di primo piano negli avvenimenti riversa nella propria opera l’intenzione di difendersi da accuse o calunnie e comunque di ristabilire una verità alterata. Intenzione che è esplicita sin nel titolo dell’Apologia della vita politica di Francesco Guerrazzi scritta da lui medesimo e che Georges Gusdorf ritrova come costante nelle autobiografie degli uomini di Stato, dei politici, dei capi militari: «Cette autobiographie consacrée exclusivement à la defense et illustration d’un homme, d’une carrière, d’une politique ou d’une stratégie, est une autobiographie sans problème: elle se limite à peu près au secteur public de l’existence»[4].
    Senza problemi, questa autobiografia, per chi scrive perché l’autore non è in crisi interiore o non va alla ricerca della propria identità, come accade in altre autobiografie non politiche; ma con seri problemi per chi legge perché non si può accettare il racconto autobiografico come fonte esclusiva di verità storica, ma solo come una delle fonti da verificare nella sua veridicità e da utilizzare, sempre considerando che essa ricostruisce i fatti secondo l’ottica del protagonista e di essa reca una prova autentica. È questo il caso delle Note autobiografiche di Mazzini e delle Memorie autobiografiche di Garibaldi.
    Non apologetica, ma strettamente testimoniale è invece l’intenzione degli altri: l’Abba, il Bandi, il Costa… i quali tutti offrono un contributo parziale (cioè non il racconto di una vita intera, ma di una tranche de vie, di alcuni anni, di certi avvenimenti) e soprattutto intendono recare una testimonianza diretta di ciò che videro e di ciò che intesero, con fedeltà ai fatti, ma con calore di sentimenti.
    Essi realizzano, in concreto, un modello di letteratura come storia (o meglio come storiografia), anche se ad essi – come osserva l’italianista jugoslavo Eros Sequi – mancò un modello letterario che fosse per la corrente democratica quello che Manzoni fu per la corrente moderata. Questo modello poteva essere Mazzini che – scrive il Sequi - «profeta politico eternamente irrequieto, cospiratore, suscitatore di entusiasmi e seminatore di idee vitali e di slanci obiettivamente utopistici, fu autore delle pagine più alte e feconde della letteratura risorgimentale; ma non creò mai una scuola (…)»[5]. E ciò accadde perché – ci sia consentito aggiungere – la scrittura di Mazzini, per la tensione oratoria e per l’urgenza della persuasione su cui puntava attraverso la lettera personale o la lettera aperta o l’articolo giornalistico, non si adattava al modello di prosa rievocativa, spesso bozzettistica, che prevale nella letteratura garibaldina delle memorie.
    Questa produzione è stata ripetutamente esaminata negli aspetti più strettamente letterari, anche se è ancora carente la metodologia della ricerca sul fatto autobiografico. Nell’ambito di essa, il nostro intervento si propone un obiettivo specifico, abbastanza delimitato: accertare il modo in cui i rapporti tra Mazzini e Garibaldi sono stati vissuti, sentiti, interpretati nelle autobiografie di Mazzini e di Garibaldi e nella memorialistica di quegli scrittori garibaldini che, per la loro provenienza mazziniana, erano i più idonei a percepire, in termini politici, la natura di quei rapporti.
    Mazzini annota la ‘prima conoscenza’ con Garibaldi all’epoca del moto genovese del febbraio 1834: «Giuseppe Garibaldi fu parte di quel secondo tentativo e si salvò colla fuga»[6]. (E dal Consiglio di Guerra sedente a Genova fu condannato a morte il 3 giugno dello stesso anno). Garibaldi invece (omissione volontaria o rimozione inconscia) trascura il racconto della sua iniziazione alla Giovine Italia[7], racconto che la fantasia del Pascoli rievocò nei modi di una rivelazione mistica e di un incontro religioso[8].

    (...)


    [1] B. Croce, La letteratura della nuova Italia, VI, Bari 1957, p. 6.

    [2] Cfr. P. M. Sipala, La liberazione di Roma nella letteratura italiana dell’Ottocento, in Missione e compromissione. Ideologie politiche e letteratura tra Otto e Novecento, Milano 1974, pp. 51-65.

    [3] G. Trombatore, Introd. a Memorialisti dell’Ottocento, t. I, Milano-Napoli 1953, p. XXVII.

    [4] G. Gusdorf, Conditions et limites de l’autobiographie, in Formen der Selbstadarstellung, Berlin 1956, p. 112.

    [5] E. Sequi, Introd. a Memorialisti garibaldini, Milano 1973, p. 16.

    [6] G. Mazzini, Note autobiografiche, a c. di N. Menghini, rist. a cura del Centro napoletano di studi mazziniani, Napoli 1972.

    [7] G. Garibaldi, Memorie autobiografiche, con Prefaz. di G. Spadolini, Firenze 1982.

    [8] G. Pascoli (Poemi del Risorgimento [1913] in Poesie, III, Milano 1969², pp. 1293-308), dopo aver descritto il contatto di Garibaldi con i dodici esuli saint-simoniani, rappresenta la sua iniziazione alla Giovine Italia e il successivo incontro con Mazzini. Il poeta rispetta così l’equilibrio storico degli episodi, perché – com’è noto – fu l’adesione alla Giovine Italia che segnò per Garibaldi la scoperta della questione nazionale e fu l’adesione al programma di un’Italia «una, libera, indipendente, repubblicana» che, più di ogni altro evento, determinò il corso della sua vita politica.
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    Predefinito Re: Garibaldi e Mazzini nella memorialistica garibaldina

    In pagine successive, Mazzini, rivendica la spinta che dalle imprese garibaldine ricondotte nell’ambito di tutte le altre iniziative rivoluzionarie popolari, avversate e sprezzate dai moderati, venne alle annessioni del Centro, all’invasione delle Marche, all’emancipazione del Mezzogiorno; ma è nel racconto delle vicende della Repubblica romana del 1849 che egli si intrattiene più diffusamente sui rapporti con il Generale.
    Al Triumviro importava accennare al «concetto che governò i suoi atti» per giustificarlo e difenderlo. In particolare, a chi gli aveva rimproverato l’ordine spedito a Garibaldi di desistere dall’inseguire i francesi sconfitti al primo scontro, il 30 aprile, Mazzini risponde che il suo piano politico guardava oltre quell’episodio isolato e che a lui interessava dare un segnale diplomatico all’opinione pubblica francese di parte democratica per dimostrare che la Repubblica romana non era in «condizione di guerra colla Francia ma di pura difesa»; segnale che fu raccolto dal plenipotenziario Lesseps, ma che tuttavia non valse a proteggere Roma dall’assalto improvviso dell’Oudinot che anticipò la rottura della tregua su istruzioni segrete impartitegli da Luigi Napoleone[1].
    La seconda polemica riguardava la difesa o capitolazione di Roma. Mazzini ribadisce la sua tesi che risultò perdente all’Assemblea che prevedeva il rifiuto della capitolazione e contemporaneamente l’allontanamento da Roma per affrontare la linea austriaca tra Bologna e Ancona e sollevare la Romagna: «E fu – egli aggiunge – il disegno tentato da Garibaldi, ma con poche migliaia raccozzate da corpi diversi, senza artiglieria, senza appoggio d’autorità governativa e in condizioni che vietavano ogni possibilità di successo»[2].
    Garibaldi, da parte sua, rimprovera a Mazzini, «in fatto dittatore in Roma», di aver affidato il comando militare non all’Avezzana o a lui, ma al Rosselli che «non aveva sufficiente esperienza per comandare in capo l’esercito della Repubblica» ed ancora di avergli impedito, richiamandolo alla difesa di Roma, di invadere il Regno napoletano, approfittando della crisi di quell’esercito e dell’attesa (che a lui appariva entusiastica) delle popolazioni: «che cambiamenti di condizioni! Che avvenire presentavasi davanti all’Italia non ancora scoraggiata dall’invasione straniera!»[3].
    Però «nessuna popolazione rispondeva all’appello», egli deve ammettere quando racconta le peripezie per raggiungere Venezia, con toni veramente drammatici nella descrizione delle difficoltà che sono addebitate ai preti e ai contadini «nemici della causa nazionale», e delle defezioni, degli atti di insubordinazione che contrassegnarono la marcia da Roma a Cesenatico[4].
    In queste pagine è il più consistente motivo di frizione tra i due personaggi, quale risulta dalle rispettive memorie. Nell’autobiografia l’io è al centro della narrazione e ciò – come si è detto – produce una situazione automaticamente predisposta alla giustificazione degli errori propri e all’enfatizzazione degli errori altrui.
    Nelle memorie di personaggi non protagonisti, l’io è periferico; predomina la narrazione degli avvenimenti nella prospettiva della testimonianza; il discorso sulle responsabilità e il giudizio critico non emergono con prepotenza. E quindi, per un secondo episodio dei rapporti tra Mazzini e Garibaldi, scegliamo il racconto di Giuseppe Bandi e di Alberto Mario.
    Giuseppe Bandi, nato in Maremma nel 1834, era stato segretario del comitato fiorentino della Giovine Italia; nel 1857, per aver cooperato al moto di Livorno, aveva subìto due anni di prigionia. Entrato nell’esercito piemontese, lo abbandonò per correre con Garibaldi in Sicilia. Dopo una seconda parentesi nell’esercito regolare, si diede al giornalismo: nel 1872 diresse la «Gazzetta livornese»; nel ’77 fondò il «Telegrafo» come edizione meridiana della «Gazzetta» e sul «Telegrafo» pubblicò a puntate a partire dal 1886 il suo libro su I Mille. A Livorno fu pugnalato da un anarchico nel 1894 per aver condannato gli anarchici sul suo giornale.
    Il mazzinianesimo di Giuseppe Bandi non si era esaurito con l’esperienza giovanile. Egli aveva conservato una fervida ammirazione per «quell’uomo che solo, inerme e fuggiasco, avea fatto tremare sul trono tutti i tiranni d’Europa»[5] e sognava di incontrarlo personalmente un giorno. L’occasione si verificò in Napoli, il 21 settembre 1861. Mazzini, che era accorso nella città da pochi giorni liberata, lo mandò a chiamare e gli chiese di fissargli un incontro con Garibaldi.
    Per sensibilizzare il lettore alla sorpresa di questo annuncio, il Bandi premette alcune considerazioni generali, apparentemente ingenue ma sintomatiche, sui rapporti tra Garibaldi e Mazzini: sarebbe stato un miracolo per l’Italia se i due fossero stati un uomo solo, «ma è vero che ogni qualvolta accadde che la somma delle cose richiedesse necessaria al bene della patria la concordia di questi due uomini, Mazzini pigliò ombra di Garibaldi, e Garibaldi si guardò da Mazzini, come da un consigliere pericoloso e quasi da un emulo fatale»[6].
    La spiegazione del contrasto sul fondamento di una diversità irriducibile di temperamento, in una condizione di parità (due donne ugualmente belle!) è consona al carattere non conformista dello scrittore e alla sua prosa spregiudicata, ben diversa da quella dell’Abba, «l’umile evangelista»[7]. Ma nel caso specifico dell’incontro napoletano, il Bandi riferisce sui termini reali della questione politica. Se è vero che – come narrò al memorialista toscano chi fu presente - «i due grandi italiani s’abbracciarono lungamente e versarono affettuose lacrime, e poi ragionarono alquanto e si lasciarono amicissimi»[8], è anche vero che i risultati non furono proficui.
    Che cosa chiedeva l’agitatore genovese al «dittatore» delle Due Sicilie? Secondo il Bandi che ebbe due colloqui con Mazzini prima e dopo l’incontro con il Generale, egli proponeva di ritardare per quanto possibile l’annessione al Piemonte «per far impeto su Roma e poi su Venezia».
    Che cosa rispose Garibaldi? Il Bandi stesso si fa interprete delle ragioni del Generale sostenendo che lo stato delle truppe non avrebbe consentito una lunga guerra e si mostra rassegnato al presagio di Mazzini il quale – in procinto di riprendere la vita di esule – prevede con una punta di sarcasmo che «fra pochi giorni Garibaldi se ne tornerà a Caprera, e questa volta non gli mancheranno davvero cavoli da coltivare»[9].
    Il confronto tra le ipotesi mazziniane e le remore garibaldine è ancora più vivace nella rappresentazione di Alberto Mario, il quale era più aderente ideologicamente alle posizioni del rivoluzionario genovese. Il patriota di Lendinara che, insieme alla moglie Jessie White, aveva raggiunto Garibaldi in Sicilia con la spedizione Medici, anche dopo la liberazione del Sud fu molto impegnato nelle lotte per l’unità e per la repubblica: fu con Garibaldi nel 1866 e nel ’67, ma rifiutò la medaglia d’argento concessagli dal Monarca per la partecipazione alla campagna del ’60 e rifiutò pure l’elezione a deputato del Regno. Le sue memorie garibaldine, scritte tra il 1862 e il 1866, furono pubblicate a puntate sulla «Rivista contemporanea» di Torino nel 1869.
    Alberto Mario riferisce su una lettera di Mazzini (successiva al colloquio preparato dal Bandi) e sullo scambio di opinioni che egli stesso ebbe nell’occasione con il Generale:

    Lo trovai accigliato e cogli occhiali sul naso, seduto al tavolo, esaminando e firmando carte di Stato.
    - Leggete questa lettera, mi disse.
    Ravvisai subito dalla scrittura una lettera di Mazzini. Lessi e stetti aspettando ch’egli parlasse per primo.
    - Mazzini mi esorta, così principiò, e mi spinge di gettarmi su Roma; mio primissimo divisamento entrando in Napoli. Ma come lasciarmi a tergo sessantamila uomini fra Capua e Gaeta? Appena partito, Napoli sarebbe stata ripresa, e il continente perduto. Nella battaglia campale e decisiva del 1° e del 2 ottobre li abbiamo battuti e fiaccati irreparabilmente; ne facemmo cinquemila prigionieri, e li riducemmo all’impotenza di assaltarci. Ma per ciò? Cinquantamila armeggiano là tuttavia, se noi lontani, a ripigliare il perduto. Andremo a Roma, non mancherà tempo. Impossibile adesso.
    - Giustissimo. Forse, a pena giunti a Napoli, quando l’Europa stupefatta pareva dubitasse se voi foste uomo o nume (…)
    - Ma vi giungemmo soli. Di molte tappe a noi s’addietrava l’esercito, e contro i soldati di Bonaparte bisogna la ragione della baionetta.
    - V’ha un mezzo, Generale, se non m’inganno. E quivi fece un segno d’attenzione con un tantino d’ironia sulle labbra e dentro gli occhi. Si afferma che procedenti dalle Marche ci visitano i Piemontesi. Lasciamoli alla cura dei cinquantamila borbonici, non potremmo noi frattanto in ventimila irrompere per altra via su Roma?
    - I Piemontesi vi si opporrebbero; donde la necessità di aprirci il passo coll’armi? La guerra civile… no!
    - Se stesse a me, Generale, non andrei a Roma, né vorrei i Piemontesi a Napoli.
    - Che cosa fareste? Sentiamo anche questa.
    - Mi chiuderei nelle Due Sicilia finché vi avessi organizzato la libertà e un grand’esercito di patrioti. Poscia dire ai Piemontesi: «Fratelli cari, dobbiamo emancipare Roma e Venezia; sia gara fra di noi di chi fa meglio. Indi il plebiscito».
    - So che vorreste la repubblica. Io sono repubblicano come voi; ma la mia repubblica consiste nella volontà della maggioranza.
    - Voi, eletto dittatore, rappresentate quella volontà. Io, del resto, m’appello al plebiscito, ma a stranieri cacciati. Bramerei collocata l’urna sui trofei della vittoria.
    - Se vedete Mazzini, conchiuse il Generale ponendo termine al colloquio, riferitegli la mia risposta[10].

    Nel serrato contraddittorio, l’intransigenza, l’ostinazione del mazziniano in camicia rossa risaltano rispetto alla prudenza e alla cautela del Bandi il quale aveva confessato al Mazzini di non avere autorità, né veste per far da consigliere al generale.
    Qualche altro mazziniano, ancora più intransigente del Mario, spinge la propria avversione alla politica ‘monarchica’ del Generale sino a rifiutarsi di continuare il combattimento oltre Napoli e resiste anche all’esortazione del Mazzini, per il quale, «quando si hanno a fronte i soldati del Borbone si debbono combattere sempre, senza guardare la bandiera che sventola sul nostro capo». E il Bandi, che si era fatto intermediario tra questo anonimo mazziniano arrabbiato e lo stesso Mazzini, dopo aver raccontato l’episodio, commenta: «Allora vidi chiaro che c’erano certi mazziniani, più mazziniani assai di Mazzini, nel modo stesso che ci furono, ci sono e ci saranno sempre monarchici più realisti del re»[11].
    In effetti, sulla scelta del generale Garibaldi, assai più che le personali preoccupazioni per l’esito militare o politico del proseguimento dell’impresa, pesavano le massicce pressioni degli annessionisti; gli stessi che avevano persino organizzato una manifestazione ostile a Mazzini, con un corteo vociante e minaccioso, formato – come racconta ancora il Bandi – da «una masnada di birboni, guidata da un brutto ceffo, che avea tutta l’aria d’un gran camorrista» e con la quale «si voleva fuori di Napoli il Mazzini o si voleva morto!»[12].
    Solo nelle sue Memorie, dodici anni dopo, Garibaldi dimostra di aver capito le pesanti trame ‘piemontesi’ e scrive, tra l’altro:

    In Napoli più che a Palermo avea il cavourismo lavorato indefessamente, e vi trovai non piccoli ostacoli. Corroborato poi dalla notizia che l’esercito sardo invadeva lo Stato pontificio, esso diventava insolente. Quel partito, basato sulla corruzione, nulla avea lasciato d’intentato. Esso s’era prima lusingato di fermarci al di là dello Stretto, e circoscrivere l’azione nostra alla sola Sicilia (…) Tutti sanno le trame d’una tentata insurrezione, che doveva aver luogo prima dell’arrivo dei Mille a Napoli per togliere loro il merito di cacciar il Borbone, e farsene poi belli costoro presso l’Italia con poca fatica e merito (…) Non ebbero il coraggio d’una rivoluzione i fautori sabaudi (…) ma ne ebbero molto per intrigare, tramare, sovvertire l’ordine pubblico[13].

    La violenza verbale (postuma) di Garibaldi conferma gli equivoci, i ricatti, le manovre che allora condizionarono le affrettate annessioni mediante le quali la Monarchia poté eludere la richiesta mazziniana di una Costituente nazionale, solo organo sovrano a cui affidare la scelta della forma istituzionale del nascente Stato unitario.
    Roma 1849, Napoli 1860 restano, dunque, due momenti della rivoluzione nazionale in cui Mazzini e Garibaldi si trovarono affiancati sulla linea dell’iniziativa popolare, ma divisi nelle scelte operative: l’uno più ancorato ai princìpi, l’altro più sensibile alle soluzioni tattiche e alle pressioni esterne.
    La letteratura garibaldina introduce il lettore e lo storico nell’officina del Risorgimento e dà la misura di quanto sofferte e contrastate e contrastanti fossero le decisioni, all’interno dello stesso schieramento democratico-repubblicano, specie quando si giungeva al bivio tra soluzioni rivoluzionarie e soluzioni moderate. Il dissidio tra Mazzini e Garibaldi in due fasi nodali (anche se si attenuò o si riprodusse in altre circostanze) risulta illuminato dall’interno attraverso le dichiarazioni autobiografiche e le testimonianze memorialistiche.
    Non tocca a noi dire chi, in ciascuna di quelle circostanze, poteva aver torto o aver ragione. Il tribunale della storia non esiste: condanne o assoluzioni postume non servono. Più importante è capire. Ed è proprio la letteratura delle memorie che ci permette – per riprendere i termini crociani – di intendere e comprendere le ragioni degli uni e degli altri, portandoci a contatto diretto con gli uomini nel momento in cui compirono scelte tormentate e difficili, scelte che hanno pesato in un senso o nell’altro, nel destino della rivoluzione unitaria e nell’assetto dello Stato nazionale come è stato ed è.


    Paolo Mario Sipala



    [1] G. Mazzini, op. cit., pp. 403-10.

    [2] Ivi, p. 411.

    [3] G. Garibaldi, op. cit., p. 231-3.

    [4] Ivi, p. 241.

    [5] G. Bandi, I Mille, a cura di L. Russo, Messina-Firenze 1960, p. 287.

    [6] Ibid.

    [7] L. Russo, Introd. a G. Bandi, op. cit., p. 15.

    [8] G. Bandi, op. cit., p. 290.

    [9] Ivi, p. 307.

    [10] A. Mario, Camicia rossa, a cura di L. Pasqualini, Bologna 1968, pp. 218-21.

    [11] G. Bandi, op. cit., p. 306. Per gli atteggiamenti del mazzinianesimo intransigente dinanzi alla spedizione dei Mille, cfr. anche P. M. Sipala, Maurizio Quadrio e la letteratura garibaldina, in Atti del secondo convegno su Mazzini e i mazziniani dedicato a Maurizio Quadrio, Pisa, 1976, pp. 162-74.

    [12] G. Bandi, op. cit., p. 304.

    [13] G. Garibaldi, op. cit., pp. 381-3.
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