di Fulvio Mazza – In G. Cingari (a cura di), “Gaetano Salvemini tra politica e storia”, atti del Convegno internazionale di studi (Messina, 3-5 ottobre 1985), Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 461-467.


Il presente intervento intende riconsiderare criticamente la polemica che Salvemini intraprese nel 1944 contro la partecipazione del Partito d’azione al governo di Salerno e – più in generale – il dissenso che egli mostrò sempre contro la stessa esistenza del Pd’A, un partito, è bene ricordarlo, che si era formato su una consistente base politica salveminiana e che contava fra i suoi dirigenti vari collaboratori e discepoli del vecchio leader antifascista.

Per quanto riguarda il primo punto, la polemica di Salvemini contro la partecipazione del Pd’A al governo di Salerno, il presente contributo si prefigge di metterne in evidenza l’infondatezza. Al contrario di altre polemiche, nelle quali l’unico torto di Salvemini era stato quello di non essere riuscito a vincerle, in questa il vecchio leader giellista si fece trascinare da alcuni preconcetti di carattere politico-personale.
«Il Partito d’azione è una (…) frode inventata da Tarchiani e Cianca per creare un piedistallo a Sforza e portare a cinque il numero degli ‘pseudo partiti’ favorevoli al pateracchio»[1]. Così si esprimeva Salvemini in una lettera del 16 agosto 1944 inviata a Riccardo Bauer. In un’altra lettera del 7 dicembre dello stesso anno inviata a Piero Calamandrei affermava inoltre: «Uomini senza mandato piovuti da Londra e da Washington inventarono un ‘Partito d’azione’ che nell’Italia meridionale non era mai esistito e questo allo scopo di creare un piedistallo ai ministri di un Ministero che secondo me non avrebbe mai dovuto nascere»[2].
Ma le cose non stavano in effetti così.
Nella stesura di tali frettolosi giudizi, gravava su Salvemini quella citata posizione preconcetta che traeva le sue origini da una spaccatura del fronte antifascista che si era raccolto negli USA attorno alla «Mazzini Society»[3].
Le polemiche dimissioni da tale associazione, che Salvemini effettuò assieme a Randolfo Pacciardi, rappresentarono il primo passo della spaccatura accennata. Il secondo passo riguardava la supposizione di Salvemini che tali antifascisti, per poter rientrare in Italia al seguito degli alleati, avessero dovuto firmare una certa dichiarazione politica preparata dal dipartimento di Stato degli USA. La firma di tale documento avrebbe comportato l’impegno di non mettere in discussione la monarchia e di non ostacolare Badoglio, almeno sino all’avvenuta liberazione di Roma. Una dichiarazione in tal senso venne però effettivamente firmata dal solo Sforza, che partì per ultimo per l’Italia dopo l’8 settembre[4].
La concitata evoluzione degli avvenimenti politici di quei giorni fece dunque sfuggire a Salvemini questa differenziazione portandolo ad assumere una posizione preconcetta nei confronti di diversi esuli antifascisti ed in particolare nei confronti di Cianca, Sforza e Tarchiani. Tale posizione si estrinsecò particolarmente al momento della formazione del governo di Salerno. Rispetto alla costituzione di tale governo, difatti, Salvemini si espresse in termini durissimi investendo la generalità delle forze che lo componevano: «Esiste in Italia una coalizione di clericali (Rodinò), monarchici (Croce-Sforza) ed ex fascisti (Badoglio) il cui programma è di mantenere in Italia una monarchia clerico-conservatrice tipo Salandra-Sonnino»[5].
La sua polemica prendeva però particolarmente di mira il Pd’A. Avendo avuto notizia che all’interno del nuovo partito si focalizzavano le energie di diversi suoi amici e discepoli, sentì il dovere di metterli in guardia tramite varie lettere all’interno delle quali si ritrovavano ripetutamente affermazioni del tipo di quelle citate all’inizio.
Salvemini sosteneva dunque che il Partito d’azione meridionale non era altro che una subdola invenzione di Cianca, Sforza e Tarchiani, una struttura creata dal nulla al fine di sostenere il nuovo governo.
In realtà, il Pd’A aveva iniziato il suo processo di formazione, nel Mezzogiorno come nel resto d’Italia, nella seconda metà del 1942 grazie al concertato apporto di diversi militanti ex giellisti, ex liberalsocialisti e dei gruppi liberaldemocratici organizzati da Ugo La Malfa e Adolfo Tino[6].
Il discorso sul ruolo di Cianca, Sforza e Tarchiani e il sospetto delle intromissioni alleate sulle prese di posizione del Pd’A, vanno dunque analizzate con maggiore e più approfondita attenzione.
Incominceremo analizzando la posizione di Carlo Sforza.
Mentre Alberto Cianca, Alberto Tarchiani, Aldo Garosci, Dino Gentili, Leo Valiani Bruno Pierloni ed altri antifascisti democratici si erano regolarmente inseriti, subito dopo il loro arrivo in Italia al seguito delle truppe alleate, nella struttura politica azionista, Sforza se ne era sempre tenuto fuori. Egli infatti aveva partecipato a diverse riunioni del partito tentando di utilizzare l’appoggio azionista per assumere una funzione di leadership repubblicano-democratica da contrapporsi a quella monarchico-conservatrice di Benedetto Croce, ma non aveva mai aderito formalmente al partito medesimo. Del resto bisogna inoltre notare come gli stretti rapporti con il Pd’A si erano andati allentando proprio durante la crisi politica susseguente la «svolta di Salerno», esattamente quando, cioè – secondo la tesi di Salvemini – maggiore era stata l’influenza dello stesso Sforza sulla controversa decisione azionista.
Quanto a Tarchiani e Cianca, bisogna notare come il primo fu effettivamente all’interno del Pd’A uno degli esponenti maggiormente legati agli angloamericani e uno dei più decisi fautori della partecipazione governativa. A suo parere, infatti, era assolutamente da evitare sia il rischio di rompere l’unità dei partiti antifascisti, sia quello di vedere i partigiani azionisti discriminati nei rifornimenti alleati a causa della estraneità al progettato governo. Queste motivazioni spinsero Tarchiani ad allearsi con gli esponenti dell’ala liberaldemocratica del Pd’A meridionale onde contrastare la posizione intransigente sostenuta dagli esponenti della sinistra interna, in massima parte ex giellista[7]. Presa la decisione di entrare nel governo, Tarchiani, com’è noto, fu assieme ad Adolfo Omodeo e Filippo Caracciolo uno dei membri del governo medesimo.
Il ruolo che invece il terzo imputato, Alberto Cianca, ebbe a svolgere all’interno della discussione riguardante l’adesione al governo fu – contrariamente a quanto sosteneva Salvemini – di netta e decisa opposizione.
Sin dall’indomani della svolta di Salerno, difatti, Cianca fu fra quegli esponenti azionisti che con maggior perspicacia videro nel compromesso togliattiano un serio pericolo per il mantenimento dell’impostazione intransigente assunta dalla Giunta esecutiva dei CLN[8]. Su questa base fu con Vincenzo Calace e Pasquale Schiano – all’interno ed all’esterno della Giunta esecutiva, all’interno e all’esterno del Centro meridionale azionista – il più tenace oppositore della nascente formazione governativa. Assieme a Calace fu poi il più testardo avversario del neonato ministero e si impegnò a fondo in numerosi comizi antigovernativi che tenne in tutto il «Regno del Sud»[9].
Avuta cognizione verso la fine del 1944 della reale natura e dell’effettivo processo di formazione svolto dal Partito d’azione, Salvemini attenuò i toni affermando che a Roma e a Firenze il Pd’A era notevolmente migliore che a Napoli. Ciononostante – e potremmo dire anche contro l’evidenza dei fatti che oramai erano stati appurati – Salvemini continuò caparbiamente ad accusare Cianca, Sforza e Tarchiani di aver fraudolentemente inventato dal nulla un partito fino ad allora inesistente[10].

La polemica di Salvemini sul Partito d’azione in generale, non fu conseguenza di preconcetti o incomprensioni ma frutto di una spietata analisi basata su fatti concreti.
Fra i temi della polemica salveminiana, uno dei più ricorrenti era quello sull’eccessivo filosofeggiare dei leader azionisti. Egli rilevava difatti con disappunto come questi fossero ben più disponibili a lunghe disquisizioni teorico-ideologiche sulla quantità di liberalismo e socialismo da immettere nella nuova società italiana piuttosto che affrontare in maniera concretista i diversi problemi del momento.
Con ampia preveggenza Salvemini aveva intuito inoltre che gli azionisti, essendo estremamente divisi nei loro obiettivi strategici, non avrebbero più potuto convivere assieme non appena fosse terminata la drammatica contingenza della lotta di liberazione nazionale. Una avvisaglia in questo senso era rappresentata, a parere di Salvemini, dalla eccessiva litigiosità interna che aveva portato i dirigenti azionisti a «scazzottarsi» in pubblico durante il congresso centromeridionale di Cosenza[11].
Fra le altre critiche che Salvemini muoveva al Pd’A, degna di menzione era infine quella di non essere stato sufficientemente coerente con i propri princìpi di intransigenza repubblicana e antifascista e di essere sceso troppo spesso a patti con gli avversari monarchici ed ex fascisti[12].
Curiosa vicenda politica quella del Pd’A!
Mentre infatti era attaccato dai propri interlocutori politici per la sua iperintransigenza, veniva accusato, proprio da colui che i dirigenti azionisti consideravano il loro maggiore maestro vivente, di essere troppo transigente![13].
La posizione di Salvemini nei confronti del Partito d’azione venne mantenuta anche dopo aver personalmente constatato l’impronta salveminiana di gran parte dei dirigenti azionisti e anche dopo aver verificato che era praticamente solo tra di essi che le sue idee trovavano una certa eco. Salvemini consigliò sempre i propri interlocutori di abbandonare quell’ibrido partito e di andare a portare nuove idee e nuovo attivismo all’interno del PRI o del PSIUP. Gli azionisti, a suo avviso, avrebbero dovuto svolgere all’interno dei due partiti una funzione ben precisa: nel primo caso, scuotere il PRI dal vecchiume dei ricordi e dagli slogan risorgimentali e, nel secondo, alimentare le tendenze socialiste autonomiste contrarie alla fusione con il PCI[14].
Una critica che poi riconobbe sostanzialmente errata fu invece quella contro la politica della larga unità antifascista. Mentre in un primo momento aveva sostenuto che fosse un mezzo adoperato da clericali, monarchici e comunisti per ingabbiare le genuine istanze democratiche e repubblicane, in un secondo momento aveva dovuto riconoscere come tale scelta era stata l’unica possibile e che ogni battaglia isolata sarebbe risultata sterile[15].

Terminata l’esperienza del Pd’A e iniziata la travagliata diaspora degli ex azionisti nei vari raggruppamenti della sinistra laica e socialista, Salvemini rimase egualmente un importante punto di riferimento per le varie battaglie politiche contro ogni forma di totalitarismo ecclesiale o politico e per le lotte per l’acquisizione di nuove libertà di tipo socialista e liberale.
Diversi furono anche i punti di dissenso fra Salvemini e la diaspora azionista[16]. In nessun momento però fra Salvemini e i suoi amici e discepoli cessò di esistere quel costante e anticonformista rapporto di interscambio politico e culturale che rappresenta una delle migliore tradizioni della cultura politica laica e democratica.

Fulvio Mazza


[1] Gaetano Salvemini, Lettere dall’America, I, 1944-1946, a cura di Alberto Merola, Laterza, Bari 1967, p. 19.

[2] Ivi, p. 51.

[3] La «Mazzini Society» era una organizzazione dell’antifascismo democratico-repubblicano fondata nel 1940 su iniziativa – fra gli altri – di Max Ascoli, Alberto Cianca, Carlo Sforza e Alberto Tarchiani. Tale associazione si prefiggeva il fine fondamentale di rappresentate al cospetto delle nazioni democratiche l’immagine dell’altra Italia, dell’Italia antifascista. Alla «Mazzini Society» aderirono ben presto numerosi altri antifascisti fra cui anche Salvemini. Dopo poco tempo, però, i rapporti fra questi e l’associazione si deteriorarono. Salvemini infatti l’accusava di non essere sufficientemente indipendente dalla politica dei governi alleati e imputava ai dirigenti della «Mazzini Society» una incapacità politica ad ergersi come alfieri dell’intransigenza antifascista e repubblicana. In particolare rilevava come l’associazione non avesse (o non volesse avere…) la forza e la decisione di opporsi all’ambigua politica di Winston Churchill che veniva difatti accusato da Salvemini di tenere più alla salvezza della monarchia che alla rinascita democratica dell’Italia.
Sull’attività politica di Salvemini durante quegli anni cfr. particolarmente Gaetano Salvemini, L’Italia vista dall’America, a cura di Enzo Tagliacozzo, vol. II, Feltrinelli, Milano 1969.

[4] Benché solitamente sempre attento e ben informato, anche Giovanni De Luna, in sede di ricostruzione storica, è incorso nel medesimo errore. Leo Valiani, usufruendo della sua privilegiata condizione di protagonista degli avvenimenti – oltre che di storico altrettanto attento – ha però chiarito come la gran parte degli antifascisti che giunsero in Italia al seguito delle truppe alleate partirono dagli USA prima dell’8 settembre. Giovanni De Luna, Storia del Partito d’azione. 1942-1947, Feltrinelli, Milano 1982, p. 138; Leo Valiani, Sessant’anni di avvenire e di battaglie, Rizzoli, Milano 1983, p. 85.

[5] Gaetano Salvemini, Lettere dall’America, I, cit., p. 19.

[6] Tra questi ricordiamo Tommaso Fiore e Vincenzo Calace in Puglia, Vincenzo Purpura in Sicilia, Nino Wodizka in Calabria e, soprattutto, Pasquale Schiano e Federico Comandini, i cui studi legali di Napoli e di Roma rappresentano dei veri e propri centri motori dell’azionismo meridionale.
Sulle origini del Pd’A nel Mezzogiorno, cfr. Fulvio Mazza, La formazione del Partito d’azione nel Mezzogiorno, in AA. VV., Il Partito d’azione dalle origini all’inizio della Resistenza armata, a cura di Lamberto Mercuri e Giancarlo Tartaglia, Ed. Archivio trimestrale, Roma 1985, pp. 537-62.

[7] Sulle posizioni assunte dall’azionismo meridionale riguardo al problema se aderire o meno al governo, cfr. Fulvio Mazza, Il Centro meridionale del Partito d’azione, in «Archivio trimestrale», n. 2, 1982, pp. 331-56.

[8] La Giunta esecutiva dei CLN era stata eletta dal Congresso dei CLN meridionali riunitisi a Bari il 28 e 29 gennaio 1944 con l’incarico di favorire la formazione di un governo realmente democratico e antifascista. Sul congresso antifascista di Bari cfr. AA. VV., Atti del congresso di Bari, a cura di Tommaso Fiore, Molfetta 1964.

[9] Fulvio Mazza, Le reazioni nel Partito d’azione meridionale alla partecipazione al governo, relazione al convegno «1944, Salerno capitale», tenutosi a Salerno nel maggio 1984. Atti in corso di stampa.

[10] Salvemini non corresse mai la propria posizione anche quando i suoi interlocutori gli evidenziarono chiaramente l’errore commesso. Dalla lettura del carteggio pubblicato sotto il titolo Lettere dall’America, e soprattutto di quella parte pubblicata nel primo volume, emerge in tutta la sua portata la cocciutaggine del vecchio leader antifascista. A solo titolo d’esempio sarà utile segnalare la lettera di Egidio Reale del 30 settembre 1945 nella quale era chiaramente evidenziata la reale posizione assunta da Cianca. La risposta di Salvemini a tale lettera fu singolare. Mentre rispondeva puntualmente e particolareggiatamente agli altri punti toccati dal proprio corrispondente, ignorava del tutto il punto sulla posizione di Cianca. L’unica modifica che si avrà nell’atteggiamento di Salvemini su questo punto sarà quello di «dimenticare», senza alcuna spiegazione, di accomunare Cianca alle accuse contro Sforza e Tarchiani. Gaetano Salvemini, Lettere dall’America, I, cit., p. 184.

[11] Lettera di Gaetano Salvemini a Riccardo Bauer, Emilio Lussu e Federico Comandini, 17 gennaio 1945, in Gaetano Salvemini, Lettere dall’America cit., p. 78. Sul congresso di Cosenza cfr. Fulvio Mazza, Il congresso di Cosenza nella storia del Partito d’azione (1944), in «Incontri meridionali», n. 1-2, 1982, p. 133-72.

[12] Salvemini criticò aspramente l’assunzione di incarichi ministeriali da parte del Pd’A nei vari governi di CLN. Considerava questa posizione azionista come un arretramento rispetto alla originaria intransigenza repubblicana. Alla stessa stregua – e anzi con una punta di amara ironia sulla illusorietà di talune iniziative – Salvemini considerava altri incarichi come quello di Alto Commissario per l’Epurazione assunto da Mario Berlinguer. Con un’ironia più bonaria e paterna, ma con eguale spirito critico, vedeva anche l’incarico a Ernesto Rossi di presidente dell’ARAR, l’azienda statale addetta alla alienazione dei macchinari bellici. Gaetano Salvemini, Lettere dall’America, I, cit., passim; Id., L’Italia vista dall’America, II cit., passim.

[13] La posizione avversa al Partito d’azione non gli impedì comunque di sostenere sulle colonne del settimanale «L’Italia libera» di New York il governo Parri. Tale sostegno, per un politico come Salvemini, tenace oppositore di tutti i governi succedutisi in Italia dalla sua nascita alla sua morte, non è certo cosa di poco conto!

[14] Tale posizione venne costantemente mantenuta anche quando, dopo la conclusione del conflitto, diventò netta in Salvemini la delusione per la politica massimalista e filocomunista del PSIUP e per quella moderata e ministerialista del PRI. Su queste tesi, cfr. particolarmente i citati volumi sul carteggio e sulle pubblicazioni di Salvemini durante il suo soggiorno negli USA.

[15] Intervento di Leo Valiani in: Atti del convegno su Gaetano Salvemini, a cura di Ernesto Sestan, Firenze 1977, p. 356.

[16] Valga fra tutti il più famoso: l’opposta posizione presa da Salvemini e da molti dei suoi amici e discepoli in occasione della legge maggioritaria del 1953.