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    Predefinito Il 20 settembre e la «Nuova Antologia» (1970)



    di Giovanni Spadolini – In “Il venti settembre nella storia d’Italia”, a cura di G. Spadolini, «Nuova Antologia», fasc. 2038, ottobre 1970, Roma, pp. 11-25.


    «Si direbbe che il trionfo delle nostre armi, la distruzione da noi compiuta del potere temporale dei Papi siano stati dalla stessa Provvidenza divina quasi miracolosamente condotti, onde salvare da tanto disastro la Chiesa». Sono parole, e parole testuali, di Diomede Pantaleoni in un saggio pubblicato dalla «Nuova Antologia» all'indomani della storica breccia di Porta Pia, nel fascicolo del febbraio 1871. E sono parole che riflettono un orientamento prevalente nella classe dirigente liberale e moderata, convinta di avere – sulla scia dell’insegnamento di Cavour – reso un doppio servigio alla Chiesa e all’Italia con l’abbattimento delle superstiti vestigia del Pontificato civile, con l’unione di Roma all’Italia.
    La «provvidenzialità» del 20 settembre, il principio della storiografia laica che il mondo cattolico ha avuto tante difficoltà ad accogliere in occasione delle recenti celebrazioni centenarie di Porta Pia, era chiaramente delineato nelle parole del Pantaleoni, riflesso e compendio dell’atteggiamento che la rivista ancora fiorentina, nata da appena cinque anni, assumerà di fronte alla storica e decisiva svolta del 1870. Pantaleoni non parlava soltanto a nome suo: parlava anche, e con adeguati titoli, in nome di quella tradizione cavouriana che nel decennio successivo alla morte del Conte aveva guidato le mosse della Destra, non senza deviazioni, smarrimenti, incertezze, contraddizioni. Il medico maceratese, che si era distinto per la pietà verso i colerosi nelle ricorrenti tragedie dello Stato romano, aveva goduto la fiducia e la benevolenza di Cavour come pochi altri, proprio sui temi brucianti dei rapporti fra l’Italia nascente e le Chiesa cattolica all’indomani del 1860.
    La sua linea di moderazione e di perplessità di fronte alla Repubblica romana del 1849, una linea che egli aveva condiviso con un altro grande notabile della futura Destra, Luigi Carlo Farini, gli aveva attribuito un’influenza e un prestigio nello stesso mondo cattolico non troppo lontano dal Papa Pio IX: influenza e prestigio di cui il professore marchigiano tenterà di avvalersi in ogni modo nelle difficili trattative con la Santa Sede del 1861, condotte insieme col padre Passaglia in nome del presidente del Consiglio che si avviava da Torino alla morte prematura.
    Ponte fra il nuovo liberalismo unitario e le vecchie posizioni dei notabili dello Stato romano, Pantaleoni non aveva condiviso in nessun momento le astrazioni o le asprezze del giacobinismo. La sua visione dei rapporti fra Chiesa e Stato, maturata dall’angolo visuale di una assorta e umbratile città marchigiana come Macerata, nell’atmosfera della devozione fedele a Roma dei contadini cattolici appena incrinata dalle nascenti ansie della borghesia laica e democratica, respirava in un clima cavouriano, si muoveva secondo la logica, del resto insuperabile, della «libera Chiesa in libero Stato». Non senza un’attenzione puntuale e vigile ai problemi interni dell’organizzazione ecclesiastica, che in qualche modo lo distingueva dall’empirismo e dal concretismo cavouriani; non senza un fremito di riforma della Chiesa che affiora anche da queste pagine della «Nuova Antologia», da noi raccolte e riordinate insieme con quelle di Celestino Bianchi, di Ruggiero Bonghi e di Giuseppe Guerzoni come contributo al centenario del 20 settembre, in un’antologia essenziale che offra punti di riferimento e di giudizio, ancora oggi validi, sul giudizio dei contemporanei rispetto a Porta Pia.
    Il principio che la Chiesa cattolica avrebbe tratto nuovo slancio e nuovo vigore dalla fine della degradante compromissione temporalistica era ben presente in tutta la generazione di cui il Pantaleoni era un degno e nobile interprete. «Date pochi anni di vita liberale al Papato – si legge nel saggio della “Nuova Antologia” che non a caso di intitola “L’Italia e il Papato spirituale” – e l’Europa e il mondo meraviglieranno in vedere quale pianta rigogliosa esso sia, quali frutti di civiltà, di sapienza, di morale può portare ancora la Chiesa cattolica». Non erano espressioni di circostanza, né tanto meno valutazioni di machiavellismo diplomatico. L’uomo che aveva subito il bando dalla Roma papale solo per essere stato l’intermediario di pace di Cavour nei giorni dell’unità sapeva benissimo quanto erano resistenti le pregiudiziali dell’intransigentismo vaticano, intuiva, in quel febbraio del 1871, che solo l’opera paziente e sagace di intere generazioni avrebbe potuto smussare le superfici di attrito, creare le premesse per una conciliazione delle coscienze.
    Senonché il fine della restaurazione e del rinnovamento morale della Chiesa percorreva tutte le file del liberalismo italiano o almeno di quella parte del liberalismo, riflessa nella nostra rivista, che non inclinava a presupposti giacobini. Gli stessi tre ampi e documentati saggi su «La storia diplomatica della questione romana» del paziente e certosino segretario di Ricasoli, Celestino Bianchi, di cui abbiamo curato una nutrita ed esauriente selezione, ci confermano nella valutazione religiosa delle formule ricasoliane, pur diversamente atteggiate o sfumate rispetto a quelle di Cavour.
    Bianchi era in grado come pochi altri di penetrare nelle pieghe del pensiero di Ricasoli. Collaboratore devoto e fedele del «barone di ferro» nelle giornate della prima dittatura fiorentina, suo ambasciatore a Torino nelle settimane sconfortanti e angosciose di Villafranca, il buon Celestino era stato a fianco del Barone, ora per ora, nel primo difficile e contrastato tentativo del suo governo, in quel ministero che succedette a Cavour nel giugno del 1861 e fu travolto a Torino dalle manovre di corte e dai doppi giuochi di Rattazzi con Napoleone III. Era tornato, segretario del presidente del Consiglio, all’ombra della sua Firenze, nelle stesse responsabilità di collaborazione e di fiancheggiamento del Barone nel secondo governo, quello che nacque in Firenze già capitale per impostare e condurre a termine l’impresa della liberazione del Veneto e per avviare il processo di riforma della Chiesa – il preminente sogno ricasoliano.
    La differenza con la linea cavouriana affiorava chiaramente dall’analisi, anche se talvolta notarile e documentaria, del futuro direttore della «Nazione». L’obiettivo della purificazione dall’interno del magistero ecclesiastico circola nel pensiero ricasoliano con vibrazioni quasi giansenistiche e con influenze, non dissimulate, del periodo svizzero; finisce talvolta per confondersi con un vagheggiato ritorno alla Chiesa del Medioevo, fondata sull’elezione popolare dei parroci, su un diverso rapporto fra vescovi e pontefici, su una democratizzazione delle strutture di base della Chiesa, su una nuova e più larga funzione del laicato. Ma il presupposto della riforma cattolica, quale Ricasoli vagheggia o intravvede, è identificato in una netta separazione fra Chiesa e Stato nell’ordine temporale: più netta perfino di quella adombrata dalla classica formula di Cavour.

    (...)
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    Predefinito Re: Il 20 settembre e la «Nuova Antologia» (1970)

    Celestino Bianchi ricorda non a caso che la formula di Cavour sembrava a Ricasoli «equivoca», insufficiente a garantire la rigorosa demarcazione delle due sovranità e nell’ordine civile la prevalenza della «sovranità una e indivisibile» dello Stato. Il giacobinismo della azione aveva la sua parte nell’evoluzione degli orientamenti di Ricasoli; ma sempre guiderà la politica del Barone la convinzione che solo la linea della libertà religiosa avrebbe assicurato una nuova dignità e una rinnovata autorità alla Chiesa e al clero, sottraendo l’una e l’altra ad ogni condizionamento del potere terreno, ad ogni contaminazione profana. «Gli italiani sono e vogliono rimanere cattolici – sono parole di Ricasoli che riecheggiano nel saggio di Bianchi – vogliono rispettare e che sia rispettata la libertà e la dignità della Chiesa e del clero, e del capo della Chiesa e del clero che è in Roma; ma non vogliono dare al Papa e al Clero una libertà di privilegio che si converta in aggressione e in guerra alla nazione».
    L’avversione ai concordati resterà comune a tutta la Destra, al di là delle pur sensibili variazioni o differenziazioni fra Cavour e Ricasoli. «Ora io credo – sono sempre parole dello statista toscano, leader accigliato e scontroso dei moderati fiorentini – che sia venuto il tempo di porre un fine al secolare conflitto fra lo Stato e la Chiesa, al quale si tentò invano finora di riparare per via di accordi, che poi si risolsero sempre in impaccio e servitù reciproca; né alcun modo io veggo per giungere a questo se non che lo Stato e la Chiesa si separino»,
    La breccia di Porta Pia gettava le basi per quella separazione: ma non senza le inevitabili «garanzie» al Pontefice, tali da attenuare il rigore astratto del perfetto separatismo. E proprio nelle pagine della «Nuova Antologia», in queste pagine che ci sono sembrate il migliore commento e la migliore celebrazione al centenario del 20 settembre, affiora il termine «garanzie»; è negli squarci della «Rassegna politica» curata dal Bonghi, nelle gloriose settimane che anticipano e seguono il fatto d’arme in sé irrilevante, ma decisivo per le sorti della nazione italiana non meno che della Chiesa cattolica.
    Bonghi, che ha una posizione autonoma nell’ambito della Destra (dove ha inserito le peculiare voce del liberalismo napoletano), non lesina critiche e riserve all’opera del ministero Lanza, lo stesso ministero che ci sta conducendo, in mezzo a inevitabili lentezze e incertezze, a Roma. La sua nota non ha niente di ufficioso, niente di ispirato o di addomesticato. La «Nuova Antologia» si ispira allora, come sempre nei decenni successivi, a una libertà di giudizio che respinge influenze o condizionamenti, che si richiama a talune fondamentali idee generali. Si muove su un certo piano ideale, condivide una certa prospettiva politica, ma al di fuori di ogni retorica, di ogni ostentazione. Certi atteggiamenti di Visconti-Venosta appaiono contraddittori al futuro sapiente e misurato relatore della legge delle Guarentigie; la proposta di lasciare al Papa la Città Leonina, una proposta provvidenzialmente fatta cadere dal cardinale Antonelli, sembra paradossale e inattuabile al già autorevole collaboratore della rivista del Protonotari.
    Agli occhi di Bonghi tre sono le condizioni perché le delineate «guarentigie» al Pontefice, già zelantemente presentate alle potenze cattoliche al fine di parare colpi di mano o interventi diplomatici in favore del Papa, raggiungano il loro scopo, creino le premesse di una futura, certo non immediata, pacifica convivenza fra le due rive del Tevere. La prima – Bonghi lo dice chiaramente – è il ripudio da parte dello Stato di ogni giurisdizionalismo, l’abbandono di tutte le leggi o norme, vecchie o nuove, che in qualche modo contrastino con l’essenziale principio della libertà della Chiesa: secondo la migliore tradizione cavouriana, secondo il costante e mai smentito monito del grande statista piemontese.
    La seconda, più difficile a definire e segnare nei particolari, è un minimo di disponibilità da parte della Santa Sede ad avvalersi di «quella libertà di potere spirituale» con l’intento di farla riuscire e non di farla fallire: una rinuncia cioè, dichiarata o meno, consapevole o meno, alle suggestioni del temporalismo, ai ritorni o ai fantasmi del principato civile (Bonghi è troppo smaliziato e accorto per non sapere che la Santa Sede si rifiuterà in un primo tempo «di trattare e stipulare con noi», ma ritiene che ci sia un limite all’opposizione del Papa, un limite oltre il quale ogni concessione e ogni guarentigia italiana diventerebbero impotenti o inutili).
    Ed è la terza condizione che meglio riflette questo punto, che si identifica poi con la vera angoscia della classe dirigente liberale: e cioè la necessità – meglio dirlo con le parole di Bonghi - «che la compagine interna dello Stato nostro sappia e possa resistere in Parlamento a’ molti urti che verranno da’ partiti – urti asprissimi e che avranno occasioni continue – contro quel qualunque disegno che si possa aver adottato, e resistervi per tanto tempo quanto basti a colorirlo affatto, ed abituarvi insieme la Chiesa e il paese».

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    Predefinito Re: Il 20 settembre e la «Nuova Antologia» (1970)

    Parole profetiche, che anticiperanno il sessantesimo della legge delle Guarentigie, i preziosi e delicati equilibri elaborati dal mondo liberale su un piano di fede nell’azione, e nella pazienza della storia, superiore allo stesso rigore delle pregiudiziali ideologiche. Bonghi, che è un liberale non privo di una vena scettica e compromissoria, teme che lo Stato italiano, di cui conosce tutti i vizi d’origine e tutte le debolezze costituzionali, non possa resistere alla corrosione delle forze esterne allo Stato stesso, fra cui predominano i cattolici.
    L’opposizione delle masse contadine alla rivoluzione borghese del Risorgimento, al sopruso eroico della conquista dell’unità, non rappresenta certo un mistero per il patriota meridionale che ha dovuto abbandonare Napoli proprio dopo la controrivoluzione borbonico-sanfedista del 1848-49. Il timore che la reazione popolare possa fondersi, o intrecciarsi un giorno, con l’anatema cattolico allo Stato orienterà tutti i successivi decenni delle battaglie politiche del pubblicista inesauribile e dello scrittore, cui nessun campo della cultura sarà precluso: in un eclettismo che rappresenterà il suo stesso, insuperabile limite. L’incontro del pericolo rosso e del pericolo nero ammiccherà dalle colonne della «Nuova Antologia», ormai sonniniana, fin dall’ultimo decennio del secolo, dagli anni convulsi ed inquieti dell’agonizzante Italia crispina: l’Italia che proclama festa civile il 20 settembre quasi nel tentativo disperato di ritrovare un punto d’incontro, un cemento unitario ad uno Stato insidiato dai suoi stessi limiti di classe, dalle sue originarie insufficienza ideologiche non meno che sociali.
    Lo «stare a Roma», e lo starci con dignità e con fermezza e con alta consapevolezza del fine immanente allo Stato stesso, costituisce un punto fisso per Bonghi: un punto che affiora con chiarezza dalle pagine della «rassegna politica» da noi presentate. «Se in qualche altra città dello Stato può esser lecito che esso [lo Stato] si mostri trascurato, poco vigile, poco risoluto nella tutela delle leggi e dell’ordine, in Roma deve attendervi colla maggiore cura, colla maggiore vigilanza, colla maggiore risolutezza».
    Bonghi è fermissimo nella convinzione, propria di Cavour, che solo Roma può riuscire a dissolvere le antinomie municipali e federali della nostra storia. Non ha le esitazioni di un Jacini e di un Alfieri di Sostegno; non condivide le superstiti perplessità del liberalismo lombardo o di quello piemontese più vicino ai versanti savoiardi e cattolici. Ritiene, e lo dice, che la Monarchia manderebbe «a fascio ed in sfacelo» il regno se appena appena tornasse sulla decisione di sedersi negli antichi palazzi che furono del Papa, di sfidare a Roma l’autorità propria e peculiare del Pontificato (un’autorità così grande da impressionare gli occhi, pur spenti, di un Gino Capponi).
    È il momento in cui la divisione della classe dirigente moderata coincide col pensiero degli uomini che provengono dalle sponde garibaldine e mazziniane. Non a caso la «Nuova Antologia», dovendo scegliere un testimone oculare della spedizione di Porta Pia, lo prende fra i collaboratori e gli amici di Nino Bixio, cioè del generale che ha guidato un divisione del «corpo d’osservazione» di Raffaele Cadorna nel settembre 1870 ma in dissidio, neppure nascosto, col generale piemontese rigido nella fedeltà alla casta militare tradizionale e diffidente delle antiche forze volontarie, dei reduci dei Mille. E sarà Giuseppe Guerzoni, l’amico e biografo di Garibaldi, il patriota che ha condiviso le sorti garibaldine non solo del 1860 ma di Aspromonte, il cronista destinato a raccontare ai lettori della rivista fiorentina la spedizione di Roma: con un linguaggio in cui il brivido del volontarismo si unirà con la piena coscienza della grande impresa compiuta sotto le mura della capitale, ben al di là degli antichi fossati fra Cavour e Garibaldi, fra moderati e partito d’azione.
    Guerzoni non nasconde certo pro domo sua l’estrema modestia dell’episodio militare, ma intuisce la grandezza dell’evento, il trionfo di un’idea «che i secoli hanno maturata» e dei quali forze regie ed ex-volontari rappresentano allo steso titolo «gli apostoli armati». «Non è una battaglia – dirà Guerzoni – è una corsa: non è il piacere di combattere che suscita quel furore, è la voluttà di entrare pe’ primi a Roma».

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    Predefinito Re: Il 20 settembre e la «Nuova Antologia» (1970)

    «Il giorno più grande del secolo decimonono»: dirà non a caso del 20 settembre un grande storico che non era romano e neppure italiano. E mai definizione apparirà più giusta. Grande per l’Italia non meno che per la Chiesa. Grande per l’Italia, che in Roma puntò a risolvere le contraddizioni di un municipalismo secolare, fissandovi quella capitale predestinata da uomini che non vollero mai visitarla, come Cavour e Manzoni. Ma grande anche per la Chiesa che, sotto la pressione delle forze di Cadorna e di Nino Bixio, era obbligata ad abbandonare i superstiti fantasmi di un potere civile contraddetto dalla logica della storia non meno che dalla coscienza dei credenti.
    E mai classe dirigente offrì prova più alta di moderazione nei mezzi congiunta a fermezza negli obiettivi. Cavour aveva tentato, tutti lo ricordano, di arrivare a Roma col consenso del Papa, il contraddittorio ma generoso Pio IX legato alle speranze svanite del neoguelfismo. Per quasi dieci anni i successori di Cavour si sforzarono, con poca fortuna e con mezzi diseguali, che non rinunciarono alla ambiguità, di raggiungere lo scopo. Lo stesso dramma, che caratterizzò il dibattito al Parlamento di Firenze nell’agosto 1870, non fu sull’andare o non andare a Roma, ma sul come andarci. Uomini come Visconti-Venosta preferivano la via delle trattative a quella delle armi. Si voleva evitare lo spargimento di sangue, che purtroppo non mancò, sia pure in misura minima. L’intransigenza vaticana, armata del Sillabo e del dogma dell’infallibilità, obbligò lo Stato italiano ad aprire quella breccia. Ma la suprema abilità degli eredi di Porta Pia fu di richiuderla con gradualità e con misura, senza nulla cedere nelle prerogative irrinunciabili dello Stato, fino alla conciliazione silenziosa che rappresentò il capolavoro di Giolitti.
    20 settembre: è una data emblematica nella storia d’Italia. Un giorno che riassume tutte le grandezze ma anche tutte le contraddizioni del Risorgimento. Il sogno di generazioni di cospiratori e di martiri, ma vissuto quasi in punta di piedi, con impacciata discrezione, con un diffuso senso di timore. Mazzini che grida alla profanazione; Garibaldi che non partecipa all’impresa se non attraverso la «procura» di Nino Bixio, generale dell’esercito regio; la classe dirigente liberale che piega solo al valore della storia, segnato dalla sconfitta francese a Sedan, ma non senza dilaceramenti e contrasti profondi, i contrasti che rinnovano i momenti più amari e tormentosi del nostri riscatto nazionale.
    Una Monarchia che esita ad imboccare la via di Roma, pur necessario suggello dell’unità. Un Re, il Re conquistatore e cattolico Vittorio Emanuele II, che pensa di intervenire in difesa di Napoleone III, che non se la sente di stracciare quella Convenzione di settembre che i fatti hanno già liquidato. Un mese di tergiversazioni e di esitazioni, nella Firenze dell’agosto 1870: finalmente vinte dall’audacia di Quintino Sella, il «mercante di panni» più coraggioso e lungimirante di tutti i generali regi. Il corpo di spedizione che marcia dalla Toscana sul Lazio: sotto la guida di Cadorna ma con la collaborazione di Nino Bixio, quasi simbolo dei due filoni confluiti nell’esercito dell’unità, il filone conservatore e quello rivoluzionario, una tradizione moderata che sconfina nel clericalismo e il piglio dell’insolenza garibaldina. Le missioni diplomatiche volte ad evitare ogni spargimento di sangue: fallite l’una dietro l’altra. Le lettere di giustificazione del Re al Papa, secondo la logica del diritto divino, che non è stata annullata dalla soluzione plebiscitaria; le risposte, fra irritate e ironiche, dell’antico protagonista del Quarantotto costituzionale, del Pontefice ex-giobertiano protettore, nel cuore, dello scomunicato Re di Sardegna.
    Il liberalismo italiano sente che la sconfitta di Sedan ci obbliga ad andare a Roma: ma vuole salvaguardare la tradizione conciliatorista di Cavour, evitare una rottura radicale ed irreparabile col Pontificato. È ministro degli Esteri Visconti-Venosta, in cui rivivono tutte le finezze e gli accorgimenti del liberalismo cavouriano. Di qui la proposta, tanto discussa del Bonghi, di lasciare a Pio IX la Città Leonina, di salvaguardare una fetta dello Stato pontificio, sia pure minuscola: lo scudo che sessant’anni dopo Pio XI e il cardinale Gasparri riterranno indispensabile alla salvaguardia del ministero spirituale del Pontefice, la prefigurazione della Città del Vaticano. Prima silenzio e sdegno della Santa Sede; poi, dopo l’ingresso attraverso la breccia, quando l’ordine alle truppe italiane è di non varcare i confini della Città Leonina, è lo stesso segretario di Stato, è lo stesso cardinale Antonelli, che supplica il generale Cadorna di inviare presidî militari anche nel quartiere del Borgo, di occupare Castel Sant’Angelo. Sono scoppiati focolai di rivolta popolaresca, alla Ciceruacchio; e il potere temporale, nonostante la legione di Antibes, sente di essere veramente finito, di non potere garantire neppure un minimo di ordine in pochi chilometri quadrati di territorio.
    Comincia la grande «commedia degli inganni» in cui si attua, attraverso perplessità o pavidità varie, il più grande trapasso di poteri della nostra storia, la successione di Roma italiana a Roma vaticana, pur nella convivenza misteriosa fra le due autorità rivali ed opposte, fra Chiesa e Stato. Roma è libera, è già annessa all’Italia, ha già votato compatta per l’unione al Regno costituzionale del Re Vittorio Emanuele II; ma il Sovrano esita ad entrarvi, rinvia continuamente il suo ingresso, teme di ferire troppo profondamente Pio IX e le potenze cattoliche. Si deciderà a rompere gli indugi solo quando lo straripamento del Tevere, alla fine del dicembre 1870, gli consentirà un viaggio quasi clandestino, a sottinteso umanitario, senza sfoggio di bandiere, senza ostentazione di pompe.
    È l’ingresso dimesso e furtivo che Oriani, allora testimone giovinetto nella capitale, ha descritto in una pagina indimenticabile, in cui rivivono tutte le delusioni e le amarezze dell’antico partito d’azione, in cui quasi si risente il grido angosciato di Mazzini, contro la violazione e dissoluzione dei sogni repubblicani.
    «Mai più grande avvenimento – ecco le parole di Oriani – ottenne minore attenzione. Il Re giunse nel pomeriggio; pochissima gente era ad attenderlo sul piazzale della stazione, ed era piuttosto plebe che popolo, giacché le miserie e i pericoli dell’inondazione preoccupavano tutti. Quando il Re scese di carrozza nell’atrio del Quirinale, volgendosi a Lamarmora con atto di viaggiatore seccato del viaggio, mormorò in piemontese: finalmente i suma. Io stesso, allora giovinetto, che avevo seguito trottando fra la poca gente la carrozza del Re dalla stazione sino dentro all’atrio del Quirinale, potei udire questa esclamazione e notare il suo gesto: nell’una e nell’altro nessun accento o significato di grandezza. Vittorio Emanuele aveva l’aria oltremodo annoiata, il vecchio Lamarmora era imbronciato. Infatti pioveva e, malgrado la pioggia, per mostrarsi al popolo erano venuti dalla stazione col mantice abbassato».
    Finalmente i suma. L’esclamazione fu poi corretta dalla retorica cortigiana nel famoso motto: «Finalmente ci siamo e ci resteremo». Ma lo stato d’animo, rappresentativo della Monarchia, era quello riflesso nell’espressione annoiata e accigliata del Re di Sardegna, che non aveva il coraggio di sentirsi ancora, da Roma capitale, Re d’Italia. E ci vollero venticinque anni, ben venticinque anni, perché la Monarchia conquistatrice avesse il coraggio di proclamare il 20 settembre festa civile: precisiamo «giorno festivo per gli effetti civili» e non festa nazionale, come la prima domenica di giugno che consacrava lo Statuto di Carlo Alberto. Ci volle l’avvento del giacobino Crispi al potere perché l’avvenimento più grande della storia italiana fosse «santificato» civilmente: e non senza titubanze, non senza incertezze, non senza contraddizioni. Il generale che aveva comandato il corpo di spedizione, che aveva subito il fuoco degli zuavi sulla breccia, Raffaele Cadorna, si rifiutava di intervenire, in omaggio ai suoi scrupoli religiosi: quasi si trattasse di un festa massonica, di una cerimonia di loggia. All’inaugurazione del monumento di Garibaldi sul Gianicolo, non presenziava nessuno degli eredi dell’Eroe dei due mondi. In parecchie città, come a Genova, le manifestazioni dell’estrema sinistra si dissociarono da quelle del governo o addirittura si contrapposero ad esse.
    Per tutti gli anni che vanno dal 1895 all’esordio del secolo nuovo, la data del 20 settembre non riuscì ad assurgere a simbolo pacifico del Risorgimento, a punto di riferimento comune a tutta la nazione. Per ogni ricorrenza, svettanti labari massonici, ostentato spiegamento di forze di Grande Oriente. Talvolta, come nel 1904, pur in pieno sciopero generale a Milano, pur con la concomitanza della nascita del Principe ereditario Racconigi, si sceglieva il 20 settembre per l’inaugurazione del congresso del libero pensiero in Roma, con millecinquecento corpi morali simboleggiati dagli stendardi di «Satana», in omaggio alla religione di Giordano Bruno e del secolo «da lui divinato», là da Campo dei Fiori.
    Solo l’età giolittiana, nel suo clima di conciliazione silenziosa, riuscì ad attenuare i contrasti, a smorzare le superfici d’attrito. Gradualmente, al di fuori di tutte le inibizioni monarchiche e cortigiane, il 20 settembre venne a collocarsi nella sua autentica prospettiva nella storia d’Italia: punto d’inizio dell’epoca della separazione, base della legge delle Guarentigie, molto più che simbolo di contrapposizione faziosa e manichea, come era stata negli anni di dilaceramento. La libertà religiosa, sanzionata in quel perfetto monumento di equilibrio diplomatico che corrispondeva alle Guarentigie di Visconti-Venosta e di Bonghi, stava vincendo i suoi nemici. La prima guerra mondiale avrebbe rappresentato una prova decisiva, avrebbe consentito ai due poteri di convivere sotto lo stesso cielo. Il Tevere cominciava a diventare largo: l’impegno dello Stato di non interferire nella vita religiosa riceveva un solenne suggello nella migliore tradizione cavouriana, le forze organizzate cattoliche superavano gradualmente il senso della revanche clericale e dell’opposizione agli istituti di libertà.

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    Predefinito Re: Il 20 settembre e la «Nuova Antologia» (1970)

    Per il partito popolare, che nasceva all’indomani del conflitto, il 20 settembre non era più la data infausta e demoniaca, com’era stata sentita e sofferta dai seguaci dell’«Opera dei Congressi», nel periodo della massima tensione e contrapposizione fra le due rive del Tevere, il periodo di Leone XIII e di Umberto I. Non era ancora un giorno di esultanza; ma neppure un motivo di lutto.
    Solo il fascismo, sprezzante di tutte le pregiudiziali risorgimentali, indifferente alle radici profonde dello Stato liberale unitario, poteva cancellare con un tratto di penna quell’esile filo che collegava le vecchie e le nuove generazioni, il 20 settembre «giorno festivo per gli effetti civili». Porta Pia fu riassorbita nella Conciliazione; l’11 febbraio diventò la sola festa, la festa nazionale celebrante il trionfo della «ragion di Stato» fascista e vaticana, il suggello dei Patti lateranensi.
    Quel giorno, già controverso e tormentato per la generazione dei nostri padri, perse quasi ogni significato per la generazione nata all’indomani della prima guerra mondiale. Il quadro di Cammarano tendeva a scomparire dai libri di testo, dove aveva pur dominato fino agli anni trenta; i riferimenti alla questione romana diventavano sempre più scarni o retorici, scarni per il passato, retorici per il ritorno all’incontro fra la Croce e l’Aquila sanzionato dalle guerre di Etiopia e di Spagna. Capire, in quel periodo, per uno studente ginnasiale, cosa fosse stata la legge delle Guarentigie era estremamente difficile, per non dire impossibile. Il 20 settembre si dissolveva nell’ironia che avvolgeva l’«Italietta», la piccola Italia del trasformismo liberale e post-risorgimentale, incapace di marciare col ritmo guerriero del passo dell’oca.
    Ma la conciliazione delle coscienze appare più importante di ogni conciliazione giuridica o protocollare. Ci vorrà un regime autoritario estraneo all’eredità del Risorgimento per ratificare le soluzioni del 1929, per escogitare tutti quegli strumenti e accorgimenti concordatari che valgono quello che valgono, legati come sono a un’epoca diversa dalla nostra, a situazioni non paragonabili con quella odierna. La difesa della libertà religiosa va cercata altrove: nella coscienza popolare molto più che nello scudo, labile e quasi sempre illusorio, dei concordati. E la libertà religiosa è inseparabile oggi più di ieri dalla libertà politica. Secondo lo stile di neutralità e di mutuo rispetto, adombrato da Giolitti e von Bülow, nei colloqui del settembre 1904. «Giolitti – annotava il Cancelliere tedesco – è soddisfatto del Papa attuale», cioè di Pio X assurto al soglio da poco più di un anno; ma in quanto «il Papa è un semplice pastore di campagna, estraneo alle combinazioni politiche». Chi ha dimenticato che la speranza del «Tevere più largo» fiorì proprio negli anni di un Papa molto simile a Pio X, negli anni di Giovanni XXIII?
    Né è senza significato che la scomunica del Risorgimento sia stata ritirata negli anni del Pontificato giovanneo, gli anni di maggiore apertura della Chiesa alla società civile. E chi se non un cardinale che si chiamava Giovanni Battista Montini, quasi alla vigilia del suo avvento al Pontificato, parlò di Roma italiana come «di una realtà storica concreta e grande»? «Nessuna altra città fuori di Roma», sono parole del cardinal Montini, «poteva dare alla nazione italiana la pienezza della sua dignità statale. Così fu e così è». Parole veramente capaci, se consacrate dall’esperienza di ogni giorno, di allargare le rive del Tevere: secondo il sogno comune a un secolo intero, il secolo che cominciò il 20 settembre 1870 ed è finito il 20 settembre 1970.


    Giovanni Spadolini


    https://www.facebook.com/notes/giova...1421414438188/
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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