Gli uomini che fecero l’Italia – Il secondo volume di Spadolini: una storia narrata (1991)


di Carlo Bo – In «Nuova Antologia», a. CXXVI, fasc. 2180, ottobre-dicembre 1991, Le Monnier, Firenze, pp. 391-393.

Più che di vocazione per Giovanni Spadolini bisognerebbe parlare di destino. Destino di scrittore prima ancora che di storico, se ci basiamo sui dati della sua biografia. Sin da ragazzo è stato tentato dalla ricostruzione artistica insieme con l’amico Giulio Cattaneo e poi tale tendenza è stata alimentata e sviluppata dal gusto, diciamo pure dalla passione sfrenata della lettura. Possiamo avere un’idea, sia pure imprecisa e pallida, girando per le sue biblioteche: quella di via Cavour a Firenze e l’altra di Pian de’ Giullari che è un vero e proprio tempio dedicato all’arte della memoria.
Precocissimo, i suoi anni di studio hanno coinciso con le prime prove di giornalista e poi di professore, e adesso che guida con estrema pazienza intellettuale e spirituale i lavori del Senato, Giovanni Spadolini non ha tradito né la forza originaria né quello che abbiamo chiamato il suo destino.
Ne abbiamo la conferma in questo secondo volume de Gli uomini che fecero l’Italia (Longanesi editore, pagine 354): un libro che senza dubbio alcuno confermerà lo straordinario successo del primo.
In realtà è piuttosto difficile distinguere nella matassa delle attività pubbliche e private dell’autore i vari tempi dell’ispirazione e poi dell’esecuzione: più giusto dire che Spadolini vive una seconda vita (forse sarebbe più giusto dire la sua prima vita) in un colloquio continuo con le figure della storia, particolarmente quella più vicina a noi.
Protagonista del dibattito politico, sarebbe abusivo metterlo insieme con gli altri uomini del Palazzo (ci si scusi per questo termine ormai così svilito e consunto) che scrivono e occupano un posto privilegiato sulla scena della letteratura.
Spadolini è al contrario un uomo di cultura, uno scrittore che il destino ha portato a fare politica. Vogliamo dire che anche sotto questo punto di vista il suo destino è inequivocabile e affonda le sue radici in una disposizione capitale che coincide con la sua visione della vita.
Tutto per lui è storia, ma stiamo attenti, quando diciamo questo vogliamo dire che al fondo delle sue interrogazioni non perde mai di vista le grandi ragioni umane ed è proprio grazie a questo esercizio quotidiano che ha acquistato l’arte impossibile dell’equilibrio e del giusto limite.
Ecco perché i suoi ritratti non sono mai dettati da risentimenti o da pregiudizi: valga come esempio la sua grande disponibilità all’ascolto anche di fronte a spiriti che non rientrano nella sua evoluzione intellettuale.
Mi riferisco al modo con cui Giovanni Spadolini sa guardare ai cattolici che hanno fatto l’Italia. Il laico, senza cedere d’un passo nella sua fede, ha sentito l’impellente dovere di rendere ciò che andava reso e riconosciuto a quanti avevano della storia un’altra concezione.
Lo si è visto, al di fuori dell’interrogazione storica, in occasioni di politica pratica, quando da solo ha rivendicato lo spirito di giustizia per una grande parte della nostra famiglia che sarebbe sommamente ingiusto escludere oppure cancellare.
Ora tutto questo non gli sarebbe riuscito se in maniera molto discreta non si fosse posto il problema di una giustizia superiore che va al di là degli scontri e delle contrapposizioni.
Da questo punto di vista Giovanni Spadolini è un fiorentino anomalo, vale a dire alieno dello spirito rissoso di quartiere che distingueva la sua città ed è anomalo principalmente per due motivi: prima di tutto perché l’uso della storia gli ha insegnato che il dovere è di comprendere oltre le apparenze e soprattutto oltre le nostre prevenzioni, secondo perché lo storico è uno scrittore con un cuore sensibile alla bellezza e alla purezza degli uomini che, a volte, può restare nascosta a chi va di fretta ed è portato a dare giudizi non accettabili.
Mi si dirà: perché insistere tanto sullo scrittore? Lo facciamo perché in Giovanni Spadolini le due anime convivono perfettamente, si pensi alle pagine d’antologia del Capanno di Pian de’ Giullari, il volumetto che ora è stato stampato per gli amici, ma dovrà essere offerto a tutti i lettori di Spadolini, che sono molti e, cosa che lascia pensare, lettori giovani, evidentemente stufi di troppi libri senz’anima e prostrati alla pura e semplice esigenza di mercato.
Non barare, non offendere, non esaltare fuori luogo, direi che queste sono le regole maggiori dello Spadolini «scrittore», quello che non dimentica mai quelli che sono i diritti del lettore: il mestiere del giornalista e la cattedra gli hanno insegnato che la vera arte della persuasione consiste in principal modo nella ricerca della verità.
Ecco spiegato perché ogni volta lo storico si sente obbligato a rifarsi a Gobetti, alla sua visione concreta, non retorica della storia.
Ottimo oratore, lo Spadolini è uno dei rarissimi che dimostri di conoscere bene la sua lingua, il discorso fila sempre senza attimi di incertezza e di sospensione e infine ha una grande capacità di stabilire nell’ambito di un tema e di giocare con riferimenti e rapide accensioni verso altri mondi.
A crescere nell’arte oratoria, Giovanni Spadolini è stato aiutato prima dall’occhio del padre, che era un bravo pittore, dal clima della famiglia in cui è cresciuto e, non dimentichiamolo, dall’essere un fiorentino della razza buona, vale a dire di chi, per tradizione di una grande civiltà, riesce sempre a legare lo spirito alla terra.
Qui sta la spiegazione della sua forza di espositore, gli bastano pochi cenni per delineare e assistere un discorso pieno e tuttavia aperto alle soluzioni di chi ascolta oppure di chi legge.
Se infine dovessimo fissare un asse, un punto di coincidenza con le altre culture, bisognerebbe pensare alla grande scuola storica francese e, non vorrei sbagliare, alla lezione di Michelet, un altro storico-scrittore.
La storia come guida, come viatico e nello stesso tempo la correzione dell’umano, del presente che ci consente il rapporto fruttuoso con le nostre ansie, con le inquietudini e le confusioni che sono ormai tipiche del nostro tempo.
Giovanni Spadolini alla fine di questo secondo attraversamento del nostro passato prossimo ha una parola di speranza, fondata sul peso della nostra civiltà, su quello che gli hanno insegnato in casa quando era solo un ragazzo, su quanto ha appreso e continua ad apprendere osservando gli uomini toccati dal rumore, dalla violenza e tuttavia negati all’ultimo abbandono.

Carlo Bo


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