di Giovanni Spadolini – In “Il venti settembre nella storia d’Italia”, a cura di G. Spadolini, «Nuova Antologia», fasc. 2038, ottobre 1970, Roma, pp. 11-25.
«Si direbbe che il trionfo delle nostre armi, la distruzione da noi compiuta del potere temporale dei Papi siano stati dalla stessa Provvidenza divina quasi miracolosamente condotti, onde salvare da tanto disastro la Chiesa». Sono parole, e parole testuali, di Diomede Pantaleoni in un saggio pubblicato dalla «Nuova Antologia» all'indomani della storica breccia di Porta Pia, nel fascicolo del febbraio 1871. E sono parole che riflettono un orientamento prevalente nella classe dirigente liberale e moderata, convinta di avere – sulla scia dell’insegnamento di Cavour – reso un doppio servigio alla Chiesa e all’Italia con l’abbattimento delle superstiti vestigia del Pontificato civile, con l’unione di Roma all’Italia.
La «provvidenzialità» del 20 settembre, il principio della storiografia laica che il mondo cattolico ha avuto tante difficoltà ad accogliere in occasione delle recenti celebrazioni centenarie di Porta Pia, era chiaramente delineato nelle parole del Pantaleoni, riflesso e compendio dell’atteggiamento che la rivista ancora fiorentina, nata da appena cinque anni, assumerà di fronte alla storica e decisiva svolta del 1870. Pantaleoni non parlava soltanto a nome suo: parlava anche, e con adeguati titoli, in nome di quella tradizione cavouriana che nel decennio successivo alla morte del Conte aveva guidato le mosse della Destra, non senza deviazioni, smarrimenti, incertezze, contraddizioni. Il medico maceratese, che si era distinto per la pietà verso i colerosi nelle ricorrenti tragedie dello Stato romano, aveva goduto la fiducia e la benevolenza di Cavour come pochi altri, proprio sui temi brucianti dei rapporti fra l’Italia nascente e le Chiesa cattolica all’indomani del 1860.
La sua linea di moderazione e di perplessità di fronte alla Repubblica romana del 1849, una linea che egli aveva condiviso con un altro grande notabile della futura Destra, Luigi Carlo Farini, gli aveva attribuito un’influenza e un prestigio nello stesso mondo cattolico non troppo lontano dal Papa Pio IX: influenza e prestigio di cui il professore marchigiano tenterà di avvalersi in ogni modo nelle difficili trattative con la Santa Sede del 1861, condotte insieme col padre Passaglia in nome del presidente del Consiglio che si avviava da Torino alla morte prematura.
Ponte fra il nuovo liberalismo unitario e le vecchie posizioni dei notabili dello Stato romano, Pantaleoni non aveva condiviso in nessun momento le astrazioni o le asprezze del giacobinismo. La sua visione dei rapporti fra Chiesa e Stato, maturata dall’angolo visuale di una assorta e umbratile città marchigiana come Macerata, nell’atmosfera della devozione fedele a Roma dei contadini cattolici appena incrinata dalle nascenti ansie della borghesia laica e democratica, respirava in un clima cavouriano, si muoveva secondo la logica, del resto insuperabile, della «libera Chiesa in libero Stato». Non senza un’attenzione puntuale e vigile ai problemi interni dell’organizzazione ecclesiastica, che in qualche modo lo distingueva dall’empirismo e dal concretismo cavouriani; non senza un fremito di riforma della Chiesa che affiora anche da queste pagine della «Nuova Antologia», da noi raccolte e riordinate insieme con quelle di Celestino Bianchi, di Ruggiero Bonghi e di Giuseppe Guerzoni come contributo al centenario del 20 settembre, in un’antologia essenziale che offra punti di riferimento e di giudizio, ancora oggi validi, sul giudizio dei contemporanei rispetto a Porta Pia.
Il principio che la Chiesa cattolica avrebbe tratto nuovo slancio e nuovo vigore dalla fine della degradante compromissione temporalistica era ben presente in tutta la generazione di cui il Pantaleoni era un degno e nobile interprete. «Date pochi anni di vita liberale al Papato – si legge nel saggio della “Nuova Antologia” che non a caso di intitola “L’Italia e il Papato spirituale” – e l’Europa e il mondo meraviglieranno in vedere quale pianta rigogliosa esso sia, quali frutti di civiltà, di sapienza, di morale può portare ancora la Chiesa cattolica». Non erano espressioni di circostanza, né tanto meno valutazioni di machiavellismo diplomatico. L’uomo che aveva subito il bando dalla Roma papale solo per essere stato l’intermediario di pace di Cavour nei giorni dell’unità sapeva benissimo quanto erano resistenti le pregiudiziali dell’intransigentismo vaticano, intuiva, in quel febbraio del 1871, che solo l’opera paziente e sagace di intere generazioni avrebbe potuto smussare le superfici di attrito, creare le premesse per una conciliazione delle coscienze.
Senonché il fine della restaurazione e del rinnovamento morale della Chiesa percorreva tutte le file del liberalismo italiano o almeno di quella parte del liberalismo, riflessa nella nostra rivista, che non inclinava a presupposti giacobini. Gli stessi tre ampi e documentati saggi su «La storia diplomatica della questione romana» del paziente e certosino segretario di Ricasoli, Celestino Bianchi, di cui abbiamo curato una nutrita ed esauriente selezione, ci confermano nella valutazione religiosa delle formule ricasoliane, pur diversamente atteggiate o sfumate rispetto a quelle di Cavour.
Bianchi era in grado come pochi altri di penetrare nelle pieghe del pensiero di Ricasoli. Collaboratore devoto e fedele del «barone di ferro» nelle giornate della prima dittatura fiorentina, suo ambasciatore a Torino nelle settimane sconfortanti e angosciose di Villafranca, il buon Celestino era stato a fianco del Barone, ora per ora, nel primo difficile e contrastato tentativo del suo governo, in quel ministero che succedette a Cavour nel giugno del 1861 e fu travolto a Torino dalle manovre di corte e dai doppi giuochi di Rattazzi con Napoleone III. Era tornato, segretario del presidente del Consiglio, all’ombra della sua Firenze, nelle stesse responsabilità di collaborazione e di fiancheggiamento del Barone nel secondo governo, quello che nacque in Firenze già capitale per impostare e condurre a termine l’impresa della liberazione del Veneto e per avviare il processo di riforma della Chiesa – il preminente sogno ricasoliano.
La differenza con la linea cavouriana affiorava chiaramente dall’analisi, anche se talvolta notarile e documentaria, del futuro direttore della «Nazione». L’obiettivo della purificazione dall’interno del magistero ecclesiastico circola nel pensiero ricasoliano con vibrazioni quasi giansenistiche e con influenze, non dissimulate, del periodo svizzero; finisce talvolta per confondersi con un vagheggiato ritorno alla Chiesa del Medioevo, fondata sull’elezione popolare dei parroci, su un diverso rapporto fra vescovi e pontefici, su una democratizzazione delle strutture di base della Chiesa, su una nuova e più larga funzione del laicato. Ma il presupposto della riforma cattolica, quale Ricasoli vagheggia o intravvede, è identificato in una netta separazione fra Chiesa e Stato nell’ordine temporale: più netta perfino di quella adombrata dalla classica formula di Cavour.
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