10. Realtà economica e mito corporativo
Gli elementi di equivoco e di mistificazione presenti nella propaganda e nel mito corporativi sono del resto sempre prontamente registrati e denunciati dalla stampa giellista. Più in generale è l’impalcatura complessiva dello Stato corporativo e l’ideologia ad essa sottesa a costituire oggetto dell’attenta analisi dei collaboratori dei «Quaderni», tra i quali pure non mancano osservatori e commentatori acuti dell’intera politica economica del fascismo.
È il caso, in particolare, di Vittorio Foa, cui si devono i più interessanti contributi sull’argomento sia per completezza di documentazione che per vigore interpretativo. Il giovanissimo intellettuale, attivamente impegnato nell’organizzazione clandestina giellista di Torino, attraverso lo studio attento della politica economica, finanziaria e tributaria del regime dimostra agevolmente come la conservazione sociale e la difesa degli interessi delle classi e dei ceti che ne hanno favorito l’ascesa al potere costituiscano l’autentico motivo ispiratore e il dato politico unificante dell’intera manovra economica, quale si è venuta sviluppando all’indomani della grande crisi, finalizzata a salvare e risanare aziende sull’orlo del fallimento facendone pagare i costi alla collettività nazionale ma senza per questo intaccare nella sostanza i titoli di proprietà della borghesia capitalistica, pronta a riassumere, ai primi sintomi di ripresa, il controllo e la direzione delle imprese.
Finché i prezzi salgono – scrive Foa – il profitto, la rendita, l’interesse sono privati e ciò provoca quell’eccesso di capitalizzazione che è la prima causa di ogni crisi; quando viene la depressione, la perdita viene riversata sul contribuente. In lingua povera: il guadagno è privato e individuale, la perdita è pubblica e sociale. L’unica socializzazione attuata dal regime è quella delle perdite[1].
E che non si tratti di facili slogan propagandistici lo dimostra Foa stesso con un articolo, esemplare per rigore documentario[2], sulla manovra di risanamento della SIP operata dal governo anche a mezzo di quei nuovi strumenti quali l’IRI e l’IMI, dei quali, a sua volta, tratta Mario Levi non sottacendo i risultati positivi conseguiti, almeno nell’immediato, tramite essi[3], ma evidenziando al contempo i gravi problemi di fondo, primi fra tutti quelli della creazione di un’industria «sana», capace di crescere e affermarsi a prescindere delle protezione e dell’aiuto statale, e dello sviluppo economico del Mezzogiorno che il fascismo ha lasciato insoluti[4].
Né meno indicativa dei caratteri di classe del regime fascista è la sua politica tributaria. Essa, sostiene Foa, «non ha altro scopo che di salvare e di rispettare il più possibile i profitti e le rendite private», per come dimostra il tasso estremamente contenuto del prelievo fiscale in termini di imposte dirette, di gravami sui redditi d’impresa, di imposte di successione ecc., a fronte dell’aumento delle imposte indirette gravanti indiscriminatamente sui cittadini tutti senza rapporto alcuno con la diversa capacità contributiva dei singoli[5].
Ma ancor di più delle scelte di natura tributaria, a saldare gli interessi del gran capitale, degli industriali, degli agrari con quelli dei ceti medi risparmiatori a reddito fisso ha provveduto la politica finanziaria di stabilizzazione della lira e di difesa ad oltranza delle parità perseguita dal regime con una determinazione e una tenacia assolutamente incomprensibili in termini esclusivi di convenienza economica se si prescinde dalla finalità politica, da Foa lucidamente individuata, insita in essa: il consolidamento del regime a mezzo dell’allargamento del consenso tra le classi medie e il contemperamento dei loro interessi con quelli dell’alta borghesia sia pure a prezzo di sacrifici parziali e momentanei accettati dall’una e dall’altra parte «di fronte al superiore interesse comune, che si sostanzia nella conservazione dei capisaldi individualistici dell’economia (rendita, profitto, interesse […]». La finalità della politica economica del regime, la sola veramente omogenea che sia stata svolta dal fascismo, è dunque – conclude Foa – evidentissima: «tenere in piedi le medie classi e con esse e sopra di esse i grandi industriali ed i grandi proprietari»[6].
Che rapporto esiste tra la realtà effettuale della politica economica e finanziaria del regime e il mito dello Stato corporativo così sapientemente alimentato, in Italia e all’estero, dalla propaganda fascista? La risposta dei giellisti a questo interrogativo non è univoca perché è il problema stesso che esso sottende ad essere affrontato secondo angolature e livelli d’approfondimento diversi.
La prima, perché la più spontanea e se vogliamo anche la più semplice delle risposte, è quella, peraltro comune alla grande maggioranza degli antifascisti, del corporativismo come bluff, mistificazione enorme intesa a mascherare la reale natura di classe della politica economica perseguita dal fascismo. È la tesi sostenuta con grande efficacia e vigore polemico da Salvemini nel celebre saggio Under the axe of fascism, di cui i «Quaderni» pubblicano corpose anticipazioni[7], e, in buona sostanza, seppure con maggiore distacco di studio, da Rosenstock-Franck[8], secondo la quale il corporativismo fascista non modifica il capitalismo nelle sue prerogative fondamentali: proprietà privata a profitto.
Analogo il convincimento espresso da Foa: l’ordinamento corporativo non intacca i princìpi liberisti dell’economia, anche perché, è la conclusione cui perviene egli sulla scorta di un’attenta disamina dell’impalcatura legislativa del corporativismo[9], le corporazioni sono organismi meramente burocratici, con limitatissime competenze effettive, quasi del tutto privi di potere normativo e perciò stesso, come sostiene Rosselli, impotenti «a mutare in nulla di essenziale la struttura sociale del paese, a spostare i reali rapporti tra le classi, a dare pane, lavoro, dignità nel lavoro a chi pane, lavoro e dignità nel lavoro non ha»[10].
La prevalenza della tesi incentrata sulla natura essenzialmente mistificatoria del corporativismo fascista non è tuttavia d’impedimento alla formulazione, nella pagine stesse dei «Quaderni», di linee interpretative intese a una più articolata e approfondita comprensione del fenomeno. Così, sotto il profilo politico, l’organizzazione corporativa viene letta da Rosselli come una delle forme tipiche che assume la moderna reazione in quanto necessitata di offrire alle masse un surrogato del libero movimento operaio e sindacale[11], mentre Mario Levi vede nell’apparato burocratico delle corporazioni un passo essenziale sulla strada dell’edificazione dello Stato totalitario, lo strumento «mediante il quale si cercano di estendere i rapporti intimi di connessione già esistenti fra Stato e industria a ogni branca dell’economia, agricoltura, commercio, artigianato ecc., per racchiudere ogni attività umana in un sistema quasi capillare di limitazioni e di controlli»[12].
Né mancano, seppure a livello di semplici spunti bisognosi di ulteriore specificazione, tentativi di penetrare ancora più a fondo la dinamica economica e sociale sottesa all’esperimento corporativo, come nel caso dello stesso Mario Levi, che ritiene di individuare nel corporativismo anche una forma di neocapitalismo basata sulla simbiosi tra capitalismo privato e burocrazia statale[13], o di Foa che dell’apparato corporativo sottolinea la duplice funzione di intervento statale nell’economia con compiti di regolamentazione congiunturale e di garanzia di controllo monopolistico del mercato interno offerta all’industria privata[14].
(...)
[1] EMILIANO [V. FOA], La politica economica del fascismo, cit., p. 87. Analogamente si esprime Rosselli sostenendo che gli interventi statali sono essenzialmente salvataggi di imprese pericolanti. «Si socializzano le perdite – scrive il leader giellista – cioè si fanno pagare ai contribuenti le perdite causate dalle iniziative, dagli errori, dalle truffe private, ma non si socializzano i guadagni. […] si prendono a balia le aziende fallimentari per restituirle alla ‘iniziativa privata’ non appena siano state risanate coi capitali prelevati dal risparmio delle masse» ([C. ROSSELLI], La realtà dello Stato corporativo, cit., p. 9).
[2] [V. FOA], Il risanamento della SIP, in QGL, n. 10, febbraio 1934, pp. 51-57.
Sul contributo di Foa e più in generale sull’analisi della politica economica del fascismo condotta dai giellisti vedasi lo studio di F. INVERNICI, L’alternativa di «Giustizia e Libertà». Economia e politica nei progetti del gruppo di Carlo Rosselli, Milano, 1987.
[3] SELVA [M. LEVI], Sguardo all’economia italiana, in «Giustizia e Libertà», 5 ottobre 1934. I giellisti, a cominciare da Rosselli, non hanno difficoltà a riconoscere che da parte del governo fascista «si sia fatto qualche cosa in materia di intervento economico o di assistenza», come nel caso dell’assicurazione contro la tubercolosi, dell’ammodernamento del sistema stradale, degli stessi lavori di bonifica ecc.; normali atti di governo che è vanto della macchina propagandistica predisposta da Mussolini essere riuscita ad amplificare a magnificare a dismisura sì da trasformare «in gloria personale la normale amministrazione» ([C. ROSSELLI], La realtà dello Stato corporativo, cit., pp. 10-11).
[4] Sulle implicazioni antimeridionalistiche della protezione accordata all’industria insiste lo stesso Foa (E. N. [V. FOA], Vincolismo corporativo, in QGL, n. 12, gennaio 1935, p. 101) mentre Sion Segre-Amar, nell’evidenziare, in riferimento alla cosiddetta «battaglia del grano», i danni derivati ad altri importanti settori agricoli dall’aumento indiscriminato della produzione granicola, sottolinea l’esistenza, già tante volte denunciata dalla letteratura meridionalista democratica, di un oggettivo legame d’interesse tra industria manifatturiera protetta e grandi proprietari cerealicoltori che vedono con favore il blocco delle importazioni di grano. ([S. SEGRE-AMAR], La battaglia del grano, in QGL, n. 7, giugno 1933, pp. 73-91).
[5] EMILIANO [V. FOA], La politica economica del fascismo, cit., p. 91. Alla politica tributaria del regime avevano nel 1930 i giellisti dedicato l’opuscolo, redatto da Ernesto Rossi, Finanza fascista. Copia di esso in AGL, sez. IV, fasc. 2, sottof. 1, inserto 1, n. 4.
[6] Ivi, p. 90.
[7] QGL n. 8, agosto 1933, pp. 99-127 e QGL, n. 9, novembre 1933, pp. 116-128.
[8] Di Rosenstock-Franck i «Quaderni» (n. 19, febbraio 1934, pp. 13-15) riportano un articolo apparso nella rivista «Esprit» (gennaio 1934) dando al contempo notizia dell’avvenuta pubblicazione di L’économie corporative fasciste en doctrine et en fait. Ses origines et son évolution, Paris, 1934.
[9] EMILIANO [V. FOA], Genesi e natura delle corporazioni fasciste, in QGL, n. 10, febbraio 1934, pp. 16-28.
[10] [C. ROSSELLI], La realtà dello Stato corporativo, cit., p. 4.
[11] Ivi, p. 12.
Sulla centralità dell’ideologia corporativista nella propaganda demagogica del fascismo verso le masse mettono l’accento anche i comunisti. Vedasi, ad esempio, R. GRIECO, Note sull’ordinamento corporativo, in «Lo Stato Operaio», dicembre 1934, pp. 376-87.
[12] SELVA [M. LEVI], Economia del dopoguerra, cit., p. 68.
[13] Ivi, p. 63.
Tra i socialisti, del corporativismo come di un neocapitalismo autoritario scrive B. BUOZZI, Cosa sarà l’ordinamento corporativo, in «Politica Socialista», n. 1 (seconda serie), agosto 1934, pp. 42-49.
[14] E. N. [V. FOA], Vincolismo corporativo, cit., pp. 97 e 102.
Analogamente l’ipotesi che il corporativismo sia in ultima analisi momento di cristallizzazione di un capitalismo che tende ormai a rinnegare le leggi della concorrenza esprime G. MARCHETTI [pseudonimo non decifrato], Intervento dello Stato e socialismo, in «Politica Socialista», n. 3 (seconda serie), marzo 1935, pp. 241-47.