di Luigi Lotti – In G. Spadolini (a cura di), “Il venti settembre nella storia d’Italia”, «Nuova Antologia», fasc. 2038, ottobre, 1970, Roma, pp. 173-185.
«È la seconda volta che dalle colonne di questo giornale diamo il buon capo d’anno agli amici; - scrisse «Il Dovere» di Genova il 1° gennaio 1870 – meglio un giorno da leone che vent’anni da pecora!, gridavamo aggiungendo: e l’anno testé spento fra quali debb’egli essere annoverato?» Il giornale non aveva dubbi: «fra quelli codardamente vissuti da pecora». Ma anche il ’69 aveva deluso le speranze: «La Repubblica non aveva ancora piantato sulle piazze l’albero della libertà». Tuttavia «fra popolo e governo si è spalancato un precipizio che forza umana più non varrà a colmare. Il diritto e l’ingiustizia, la libertà e la schiavitù si sono accampati di fronte […] E non è già questo un gran passo sulla via del progresso? L’equivoco è scomparso, le illusioni sfumarono al pari dell’anno caduto, ed una risoluzione ormai è presa».
Non erano vuote parole propagandistiche; rispondevano invece alla convinzione profonda dei mazziniani più accesi di essere alla vigilia di uno scontro frontale e decisivo, alla vigilia di una svolta cruciale. Rispondevano soprattutto alla determinazione di Mazzini stesso, che proprio in quei primi giorni di gennaio del ’70 andò clandestinamente a Genova per guidare personalmente gli eventi, per dirigere la progettata insurrezione. «Se fu mai tempo nel quale i buoni davvero debbano stringersi assieme ad apostolato e ad opere generose, è questo – aveva scritto Mazzini un mese prima alla Società Democratica di Città di Castello che l’aveva nominato presidente onorario -. Sotto l’azione dissolvitrice di un sistematico immorale sgoverno, l’Italia, fraintesa nelle sue aspirazioni, avvilita dal disonore d’immeritate disfatte, guasta dagli esempi di venalità che scendono dall’alto, senza espressione della propria fede nazionale in un patto, senza una rappresentanza di popoli, che ne invigili l’esecuzione e ne svolta le logiche conseguenze, senza le proprie giuste frontiere, senza Roma, minaccia di perire al suo nascere, travolta nello scredito generale all’estero da una crescente rovina finanziaria, nello scetticismo di tutto e di tutti, generato da una serie di delusioni attribuite, per mala interpretazione delle moltitudini, alla nuova unità. È necessario porre rapidamente fine a condizione siffatta di cose, o rinnegare nome, gloria, avvenire d’Italia; e il popolo solo lo può. […] In nome di Dio, ponga fine la nazione ridesta al lungo martirologio e compia, da Roma a Trento e Trieste, l’impresa unificatrice, per poi dettare il patto della propria libertà e della propria missione».
Erano due anni che Mazzini era tornato ai piani insurrezionali; era dalla tragedia di Mentana che egli aveva rovesciato le sue più immediate prospettive. Se prima aveva puntato su un moto romano che abbattesse il potere pontificio e trattasse poi con il Regno d’Italia per una unificazione sulla base di una Costituente eletta a suffragio universale (e per questo aveva polemizzato aspramente con Garibaldi sull’impresa finita a Mentana, divenendo impossibile un’iniziativa in Roma dopo il nuovo intervento francese), dopo ritenne che il solo mezzo per concludere l’unità in Roma erano ormai l’insurrezione e l’instaurazione della Repubblica nel nuovo Stato unitario. In un’Europa imperniata sulla Francia imperiale di Napoleone III, che pareva saldissima e che garantiva Roma al Pontefice, a Mazzini non restava che l’insurrezione nel Regno d’Italia anziché nella capitale predestinata.
Era un disegno temerario, ma che nasceva in Mazzini dalla mancanza di alternative, nel suo fine supremo di giungere in ogni modo a Roma, e cementarvi l’unità morale del popolo italiano con quel «Patto nazionale», che avrebbe dovuto anche segnare nel mondo l’avvento della democrazia e fare di Roma, della terza Roma – predestinata come quella «romana» e quella «cattolica» a una missione universale – il centro e il simbolo della nuova èra democratica.
Se dunque l’insurrezione era la sola via possibile, bisognava giungervi senza incertezze, usufruendo di tutte le possibilità offerte dalla situazione. E non v’è dubbio che lo sforzo di Mazzini sia stato indefesso, le sue incitazioni pressanti; ma non v’è neppur dubbio che la necessità di puntare tutto sull’insurrezione gli alterasse il senso del reale. Le sue premesse erano sostanzialmente esatte in quegli anni 1868 e 1869, certo fra i più difficili del nuovo Regno: un malessere popolare, che con l’introduzione della tassa sul macinato era esploso in vere e proprie rivolte, un discredito crescente sulle nuove istituzioni specialmente dopo lo scandalo inaudito della Regia cointeressata, un senso generale di frustrazione dopo le sconfitte del ’66 e l’umiliazione di Mentana, che aveva aperto al proselitismo repubblicano persino l’esercito. Ma erano premesse dalle quali Mazzini era portato a conclusioni deformanti la realtà. Perché l’opposizione popolare, pur vera e reale, ben difficilmente avrebbe potuto configurarsi in un preciso programma politico, e meno ancora in un programma repubblicano e mazziniano estraneo alle propensioni conservatrici e cattoliche delle campagne italiane dell’epoca. Perché infine l’isolamento delle istituzioni – le istituzioni nelle quali si era identificato il moto risorgimentale – era più apparente che effettivo; e persino i deputati di Sinistra respingevano e talora deridevano gli appelli di Mazzini di una dimissione in massa.
Come se tutto questo non bastasse, nelle stesse fila della sinistra estrema, del partito d’azione, le lacerazioni erano profonde. Il contrasto fra Mazzini e Garibaldi dopo Mentana si rivelava insanabile, né le diverse finalità dei due uomini – l’uno proteso al conseguimento dell’unità repubblicana in Roma, l’altro furente d’invettive e di slogans contro il pericolo del «prete» ma non contro la monarchia – contribuirono ad attenuare la rottura. E fra gli stessi uomini che pure avevano aderito all’idea insurrezionale, non tutti erano propensi a seguire senza discutere le idee di Mazzini, specialmente i gruppi dei reduci, e non erano affatto disposti a muoversi a freddo o dietro un’«opportunità» appositamente provocata, come sosteneva Mazzini, ma solo quando se ne fosse offerta un’occasione vera; e infine i singoli comitati delle varie città scaricavano l’uno sull’altro il compito di iniziare il moto dichiarandosi pronti solo a seguire.
Il ’69 era stato così un anno di delusioni profonde: al Nord l’organizzazione insurrezionale era stata creata quasi solo in Lombardia e in Liguria (le Romagne avrebbero seguito, ma erano momentaneamente divise da Mazzini per la prevalente fedeltà a Garibaldi); al Centro solo in alcune città della costa toscana o nell’anconetano esistevano nuclei pronti all’azione; il Sud era totalmente assente, tranne la Sicilia ove c’era una salda organizzazione, ma ove il moto non poteva essere fatto iniziare senza correre il rischio di snaturarlo dopo l’esperienza dell’insurrezione palermitana del ’66 nella quale erano confluite istanze innovatrici e istanze clericali e borboniche. In concreto, quando a Milano nell’aprile si erano avuti i primi intempestivi conati insurrezionali, una immediata serie di arresti aveva disarticolato il movimento e portato a una totale paralisi.
Eppure all’inizio del ’70 Mazzini ritenne che le possibilità d’azione e di successo si fossero accentuate: come scrisse il «Dovere» di Genova la situazione generale pareva essersi ulteriormente deteriorata. Mazzini non immaginava certo, andando clandestinamente a Genova a dirigere il moto, che nove mesi più tardi il suo duplice sogno si sarebbe dissolto nel nulla.
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