Intervista a Renzo De Felice a cura di Paolo Bonetti – In «La Voce Repubblicana», 17-18 aprile 1987.

Nel Convegno repubblicano sulla cultura democratica, Renzo De Felice aveva ricordato che c’è una sfiducia dei cittadini verso lo Stato reso inefficiente dai partiti, e che i nuovi ceti sociali, che si sono formati negli ultimi venti anni, rischiano l’autoemarginazione politica a causa dello scollamento fra questa élite emergente di tipo moderno ed occidentale e la cultura troppo provinciale e grettamente corporativa dei partiti politici italiani.
Ricollegandomi a questa sua pessimistica affermazione, gli chiedo quale può essere, nell’attuale società italiana, lo spazio e il ruolo di una forza laica e di sinistra democratica. «Questo spazio politico lo si può considerare sotto due profili – risponde De Felice – in primo luogo in rapporto agli ambienti e ai gruppi sociali sui quali può far presa la proposta repubblicana, secondariamente in relazione agli altri componenti del sistema politico».

Cerchiamo allora di distinguere i due aspetti del problema

Nel primo caso, ci sono indubbiamente gruppi e ceti sociali che stanno prendendo una più netta fisionomia, e sono alla ricerca di una qualche identità politica. In questo senso, nessun partito politico meglio del PRI, risponde a certe esigenze di modernità e moralità. Il partito repubblicano può essere, dunque, la forza politica più adatta a raccogliere consensi in questa direzione. C’è però un limite a questa capacità repubblicana, che non va sottovalutato e su cui i dirigenti del partito dovrebbero riflettere: le forze di cui parlo sono più liberaliste del PRI, il che comporta qualche dissonanza fra esse e chi dovrebbe assumere la rappresentanza.

E la collocazione dei repubblicani nel sistema politico italiano?

Mi pare che dovrebbe essere quella di una forza liberaldemocratica più vicina alle esigenze di una società industriale di quanto non sia la democrazia cristiana, e più attenta ai problemi dello Stato e della giustizia nella amministrazione di quanto sia il partito socialista.

Nucleare e giustizia: come giudica la linea del PRI nella prospettiva delle elezioni anticipate?

Credo che la posizione repubblicana sul nucleare sia giusta. Ed è una valida carta da giocare sul piano elettorale, in una situazione certamente difficile per le forze laico-democratiche. È vero che Cernobyl ha avuto da noi un’eco maggiore che in altri paesi; ma le elezioni tedesche hanno dimostrato che la carta anti-nucleare non ha certamente giovato ai socialdemocratici. Da noi il problema è stato affrontato in modo estremamente emotivo, e tutti dicono che gli anti-nucleari, in caso di referendum, vincerebbero con grande facilità. Sarà proprio così? La vittoria degli avversari dell’energia nucleare non mi sembra poi così sicura. Il referendum sulla giustizia tocca un problema profondamente sentito dai cittadini. La magistratura è diventata, in Italia, una corporazione in senso medioevale. E molte persone, senza essere nemiche dei giudici, non ne possono più di questo stato di cose. Conosco tutti i rischi connessi al riconoscimento della responsabilità civile dei giudici, ma rimane il fatto che questa gente è convinta di essere l’unica colonna non lesionata dell’edificio Italia, e questo l’autorizza a tutto. Si è ecceduto nel togliere al Guardasigilli ogni facoltà di controllo sui magistrati. Ed essi sono diventati – mi perdoni il gioco di parole – un Stato in uno Stato dissestato.

Cultura laica e cultura socialista: c’è piena concordanza sui grandi principi etico-politici, ma emergono divergenze sui grandi temi che toccano lo sviluppo di una società industriale. Cosa ne pensa?

Non riesco mai a valutare quanto certe posizioni socialiste siano reali, e non semplici espedienti di lotta politica. Da parte dei socialisti si tende ad assorbire tutto e tutti. Un partito come il PSI non può certamente fare l’ago della bilancia, e cerca allora di raccogliere tutto da tutte le parti. Il problema è il dopo, quando si debbono compiere le scelte in positivo, e non è più possibile scaricare ogni responsabilità sulle spalle degli alleati in ordine a questioni che sono di vitale importanza per l’avvenire della nostra società. A quel punto certi nodi verranno sicuramente al pettine, e i dirigenti socialisti non potranno non “rinsavire”, almeno parzialmente. D’altra parte, non c’è una tradizione radicata nel nuovo PSI. Il riformismo di Craxi non ha nulla a che vedere con quello di Turati, ancorato al marxismo e frutto di una società del tutto diversa dalla nostra. Il pragmatismo di Craxi è radicale: tutto può sempre essere rimesso in gioco.

Ed il ruolo della cultura liberaldemocratica e riformista quale può essere?

Probabilmente quello di dare un’identità politica ai ceti emergenti più qualificati e sensibili, più colti e dotati di senso civico. Gli “emergenti” che si rivolgono al socialismo appartengono a gruppi di prima schiuma, magari dotati di forte spinta vitale, ma con ancora scarso sentimento del bene pubblico. Le forze politiche che si richiamano alla cultura liberaldemocratica possono anche ricevere la fiducia di un mondo economico che è con la DC, ma “obtorto collo”, in attesa di qualcosa di meglio. I partiti di democrazia liberale e riformatrice possono offrire una posizione di correttezza effettiva e non declamata. La stessa questione morale va interpretata in forma non astratta ma concreta: va risolta attraverso precise riforme istituzionali, altrimenti diventa una fuga dalla realtà, ed è causa di ulteriore discredito per il nostro sistema politico.

Lei pensa a una qualche forma di unità fra i gruppi democratici, liberali e riformatori?

Un qualche esempio di unità effettiva e di accordo reale queste forze debbono riuscire a darlo. Il che non vuol dire che si debbono fondere, perdere la loro specifica identità: ma a una forma effettiva di collegamento debbono pur giungere. Perché questo è anche un modo per agganciare una considerevole fetta di quei ceti innovativi e colti che sono finiti in braccio alla DC per disposizione.

Nel quadro di una più generale rifondazione dello Stato, due temi appaiono particolarmente controversi nell’attuale dibattito politico: l’autoriforma dei partiti e il loro controllo costituzionale. Qual è la sua opinione in proposito?

Si tratta di questioni di grande rilevanza, ma debbo confessarle che non credo molto all’autoriforma dei partiti, e neppure credo ad una loro regolamentazione legislativa. In realtà, le due questioni risultano poi connesse. So bene che il mio grande e compianto amico Rosario Romeo era fautore di questa regolamentazione, ma temo che questa sia la parte più debole della sua relazione al convegno sulla cultura, così acuta, invece, nell’analisi storica del nostro sistema politico. Ritengo, piuttosto, che occorra una riforma istituzionale completa ed organica, una vera e propria riscrittura della nostra Costituzione. Non basta mettere sul vecchio abito qualche pezza di colore: anzi, si rischia così di diventare degli arlecchini.

Che cosa teme maggiormente in un’eventuale prova elettorale?

Il rischio più grave è quello di una diminuzione del voto maggiore di quella dell’ ’83, che fu già notevole. Temo proprio che aumenterà il numero degli astenuti e delle schede bianche. E questo contribuirà a ridar fiato ai comunisti, il cui calo, ammesso che ci sia, sarà in gran parte annullato dal calo dei votanti. Il recupero delle astensioni e del voto bianco deve essere un tema primario nella campagna elettorale delle forze laiche. E mi pare che su questo punto Spadolini sia più che mai intenzionato a battersi con grande energia.