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  1. #11
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    Predefinito Rif: Osservatorio permanente sui Tea Parties

    Vade retro, Obama!

    La caduta della popolarità del presidente americano e l'ascesa del movimento dei Tea Party determineranno l'esito delle prossime elezioni e il futuro politico degli Stati Uniti, secondo Cesare De Carlo



    Dopo l’elezione trionfale, il premio Nobel e la forte ripresa dell’immagine degli Stati Uniti nel resto del mondo, Barack Obama sembra arrancare. Una riforma della sanità figlia di troppi compromessi e impopolare, un debito pubblico alle stelle e l’indecisione dimostrata in politica estera e nella gestione della fuoriuscita di petrolio nel Golfo del Messico lo relegano a indici di popolarità degni dei momenti più bui del suo predecessore, George W. Bush.
    E se, in Europa, ha ricevuto più attenzione la favola dell’elezione del primo presidente americano di colore che non la sua parabola discendente, ci pensa Cesare De Carlo, editorialista del Quotidiano Nazionale (Giorno, Nazione, Resto del Carlino), a raccogliere e interpretare i sentimenti di quella che l’economista Franco Bruni, nella prefazione, definisce “la pancia dell’America profonda” in Un tè freddo per Obama (Egea, 2010, 242 pagine, 16 euro).
    Il crollo di popolarità di Barack Obama tra gli americani che lo hanno eletto meno di due anni fa è stato accompagnato dall’ascesa del Tea Party, il movimento popolare di destra – o meglio, la lasca coalizione di movimenti – che sta condizionando le elezioni di medio termine del prossimo 2 novembre. Il Tea Party ha saputo imporre molti propri candidati nelle primarie repubblicane e ha ridato credibilità politica alla figura di Sarah Palin.
    De Carlo subisce il fascino di un movimento spontaneo, nato e cresciuto in nome della libertà e in opposizione al dilagante ruolo del governo nell’economia americana, così come il Boston Tea Party del 1773 era stato innescato dalle pretese economiche della Corona inglese. Racconta le storie dei suoi leader e ne analizza la percezione e la ricezione da parte dei media in un continuo parallelismo con la parabola discendente di Obama.
    Il Tea Party potrebbe passare alla storia come il primo movimento politico nato sulle pagine elettroniche di un sito internet finanziario, market-ticker.org, dalle quali un piccolo operatore, il 19 gennaio 2009, ha invitato tutti i lettori a inviare bustine di tè al congresso, al senato e a chiunque si fosse reso complice delle operazioni di salvataggio delle grandi istituzioni finanziarie negli ultimi mesi dell’anno precedente. Nei mesi successivi, quando Obama ha confermato i salvataggi voluti da Bush e ha chiesto ulteriore denaro per altri pacchetti di stimolo economico, la protesta si è radicalizzata e il sentimento anti-establishment si è rafforzato.
    Crescendo, il movimento dei Tea Party ha incontrato le prime difficoltà di coordinamento territoriale, ma rimane la realtà politica più interessante degli ultimi anni. De Carlo non nasconde il suo apprezzamento e non finge di trattare il tema da osservatore neutrale, ma vuole far conoscere anche in Europa gli stati d’animo di una fetta importante dell’elettorato americano.

    Vade retro, Obama! - Libri

  2. #12
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    Predefinito Rif: Osservatorio permanente sui Tea Parties

    L’INTERVISTA - CESARE DE CARLO

    Era nell’aria. Alcuni intellettuali - soprattutto di sinistra - già un anno fa cominciavano a sussurrarsi: «Obama è un presidente tragico. Sta facendo quel che può per salvare il capitalismo. Se riuscirà, sarà triste, se fallirà, sarà ancora più triste». Oggi, con le elezioni di medio termine tra meno di un mese, il 2 novembre, Barack Hussein Obama ha fatto un ulteriore passo in avanti, o meglio indietro, diventando agli occhi di molti, per dirla con Carmelo Bene, «il tragico che non si regge in piedi». Pronto a ricevere la spallata finale - o quasi - dai repubblicani e soprattutto dal movimento del Tea Party. Questa è la tesi che Cesare De Carlo argomenta nel suo Un tè freddo per Obama. Due anni tra opposizione e disillusione (Egea/Università Bocconi editore, pagg. 242, euro16), saggio politicamente scorretto ma liberatorio. L’autore (doppia residenza italiana e americana, a Washington, editorialista de Il Resto del Carlino, Il Giorno e La Nazione) lo presenterà all’Ispi di Milano oggi alle 18.

    De Carlo, più che un tè freddo, nel suo libro lei offre a Obama un tè ghiacciatissimo. Cosa sta accadendo al «Kennedy nero»?

    «L’America sta rigettando un trapianto ideologico estraneo alla sua natura. Obama è stato eletto per reazione a George W. Bush, così come Carter, negli anni ’70, fu eletto per reazione a Nixon. La differenza è che Carter era uno sprovveduto, mentre Obama si è rivelato un presidente ideologicamente motivato, che ha cercato di realizzare riforme che il Congresso gli ha in parte tagliato, in parte modificato, in parte rifiutato. Il bilancio è negativo».

    Lo dicono anche quelli del Tea Party...

    «Il tè che Obama è costretto a trangugiare, infatti, è il loro. Questo movimento prende il nome dalla protesta dei coloni a Boston, nel 1773, contro l’esosità fiscale di re Giorgio III di Inghilterra. È un movimento popolare, non populista: senza strutture, senza leader, senza fondi. È sganciato dal partito repubblicano, che alla fine verrà tuttavia trascinato dal Tea Party verso una vittoria che ha fatto ben poco per meritare».

    Non somiglia un po’ troppo al movimento di Beppe Grillo?

    «Facendo una battuta, lei ha quasi colto nel segno. Il movimento dei grillini è sul versante di sinistra quello che il Tea Party è sul versante di destra. Con la differenza che quello di Grillo è un movimento demagogico e lui ne è il tribuno. Togliete Grillo e i grillini svaniscono. Il Tea Party, invece, non ha leader: ci sono migliaia di tea parties in America, tutti nati dall’impressione dell’elettorato che Obama sia un socialista».

    E negli Usa il socialismo è bestemmia...

    «Infatti. L’America è patria delle libertà individuali. E guai al governo che vuole mettere le mani nelle tasche dei cittadini. In 18 mesi Obama ha raddoppiato il debito pubblico, che rispetto al Pil è tra l’80 e il 90 per cento ed è pure in mani cinesi. Oltretutto, Obama sta spendendo un trilione di dollari, cioè l’incredibile cifra di mille miliardi, in un programma di investimenti pubblici che avrebbe dovuto garantire 3,5 milioni di posti di lavoro ma che fino adesso ne ha creati solo 400mila».

    Flessione o crollo? Obama imparerà dalla svolta che Clinton mise in atto dopo aver perso le midterm del 1994?

    «La vedo difficile. È troppo imbottito di ideologia. Il vero dramma è che il sistema politico statunitense è refrattario a qualsiasi iniezione di socialismo e Obama, invece, glielo vuol somministrare a forza. La nazione americana è sempre stata multietnica, ma è monoculturale. Le ondate migratorie si sono man mano integrate all’unica vera cultura americana, fatta di quattro elementi: la tolleranza religiosa, l'orgoglio del successo, il gusto del denaro, la competizione forgiata sull'individualismo».

    L’INTERVISTA 4 CESARE DE CARLO - Cultura - ilGiornale.it del 04-10-2010

  3. #13
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    Predefinito Rif: Osservatorio permanente sui Tea Parties

    Colorare le figure e detestare le tasse
    I Tea Party e l'educazione dei bimbi


    Un album sui valori del movimento anti-Obama.
    Un senatore: no a gay e incinte nubili nelle scuole


    Un nuovo album da colorare per bambini sta avendo un inatteso successo negli Stati Uniti: i protagonisti non sono buffi animaletti o principesse della Disney. I bambini colorano la Statua della libertà, la bandiera a stelle e strisce e intanto assorbono i valori del movimento di estrema destra dei Tea Party. Il «Tea Party Coloring Book for Kids» ha venduto già migliaia di copie secondo l’editore del Missouri, superando pure un album che ha per protagonista Obama. Parole d'ordine: «libertà» e «no alle interferenze del governo». Ma l'album è già controverso. Che cosa scopriranno i bambini unendo i puntini? - si domandano alcuni. «Insegna ai bambini (e ai genitori) le origini dei Tea Party e il suo significato – ha spiegato alla tv americana Cbs l’editore Wayne Bell –. Partecipazione, fiducia in sè, libertà di scelta, lavoro, governo del popolo per il popolo, Leadership, Ingegno, occupazione e responsabilità!«.

    «Il partito dei Tea Party chiede ai nostri rappresentanti al Congresso di limitare il ruolo del governo nella vita di tutti i giorni, di appoggiare la gente e le imprese», si legge su una delle 32 pagine del libro, accanto a una bandiera americana da colorare. «Quando le tasse sono troppo alte, portano via impieghi e libertà», si legge in un’altra pagina. «Nel 1773 abbiamo avuto il Tea Party e questo ci ha portato alla libertà dalle tasse troppo alte. Oggi un nuovo Tea Party ci condurrà alla libertà!» Prezzo: 3 dollari e 59, l’album è acquistabile online. L’editore, che si definisce «di ampie vedute» ha negato che i Tea Party ricevano proventi dalla vendita dell’album. Ha ricevuto minacce di morte.

    Il libro non affronta altri aspetti che i portavoce dei Tea Party sollevano spesso nella campagna elettorale per le elezioni di mid-term. Il movimento nato dopo l’elezione di Obama, che secondo un nuovo sondaggio del Wall Street Journal è composto per il 71% da repubblicani, basa la sua retorica sui temi del conservatorismo economico indicato come «soluzione» alla frustrazione di milioni di persone che non hanno assistito al cambiamento atteso dopo l’elezione di Obama. I membri dei Tea Party usano anche a proprio vantaggio questioni come la mancanza di regole contro i clandestini, l’appoggio di Obama alla moschea a Ground Zero.

    Su questi argomenti l’album per bambini tace, come pure sull’aborto o sull’omosessualità. Uno dei portavoce più in vista del movimento, Jim DeMint, senatore della South Carolina, ha suggerito però giorni fa un'altra strategia per evitare che i bambini americani ricevano «insegnamenti sbagliati»: che sia vietato agli insegnanti omosessuali e alle donne incinte ma nubili di insegnare nelle scuole pubbliche. Lo ha proposto pochi giorni fa ad un incontro mirante a saldare un’alleanza più stretta tra conservatori fiscali e conservatori sociali sotto la bandiera dei Tea Party. E i valori cui si ispira sono sempre quelli illustrati nell’album per bambini: «meno governo» e «più libertà». «Non vogliamo che il governo ci tolga i diritti e la libertà di religione».

    Viviana Mazza

    Colorare le figure e detestare le tasse I Tea Party e l'educazione dei bimbi - Corriere della Sera

  4. #14
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    Predefinito Rif: Osservatorio permanente sui Tea Parties

    Meno stato, meno tasse, più libertà. Anche l'Italia ha il suo Tea Party


    L'onda lunga del Tea Party americano ha attraversato Atlantico e Pacifico e ha stimolato, dall'Europa al Giappone, la nascita e la crescita di movimenti analoghi, che prendono linfa e ispirazione organizzativa dal modello a stelle e strisce. In Italia, qualche mese fa, un gruppo di giovani pratesi tra i 25 e i 30 anni, appassionati di politica americana e di temi economici, ha dato vita a un Tea Party nostrano, grazie all'iniziativa di David Mazzerelli e all'esperienza accumulata nella confezione della rivista telematica ultimathule.it.

    "Io ho soltanto dato il la", racconta Mazzerelli al Sole 24 Ore.com. "Sono appassionato di politica americana da sempre e ho visto che negli Stati Uniti, un paese che è molto più libero del nostro a livello economico, milioni di persone andavano in piazza. Allora mi sono chiesto come mai da noi non avveniva nulla del genere e si continuava a parlare soltanto di gossip. Ma nessuno ci dava ascolto". Quindi il gruppo pratese ha avviato autonomamente il Tea Party Italia, organizzando un incontro nella propria città.

    "Da allora – dice Mazzerelli – ci hanno chiamato moltissime persone, anche importanti – che hanno voluto partecipare alle successive ‘tappe' organizzate dal Tea Party". Il movimento partito da Prato ha già patrocinato eventi ad Alessandria, Aversa, Forte dei Marmi, Torino. Il 2 ottobre è in agenda un appuntamento a Catania e l'11 si terrà a Milano il primo Tea Party nazionale, in occasione della European Liberty Conference in programma all'Università Bocconi. "Abbiamo ricevuto chiamate e mail da imprenditori, madri di famiglia, professionisti, politici locali che vogliono che si organizzi nella loro città un evento analogo. Per i prossimi mesi abbiamo già un calendario fittissimo di eventi in tutta Italia", spiega Mazzerelli.

    Il Tea Party Italia si concentra esclusivamente sui temi economici e fiscali, al contrario di quanto avviene Oltreoceano. "Noi non trattiamo i temi etici; per ora siamo abbastanza pochi in Italia e se ci dividiamo anche tra conservatori, libertari, liberisti… Pensiamo che tutti dobbiamo essere uniti dai temi fiscale ed economico. Meno Stato, più libertà e meno tasse: questo è il filo conduttore che si rivolge a persone di destra e di sinistra, a liberali, libertari, conservatori, a persone di buon senso e buona volontà che vogliano adottare questo spirito. Sui temi etici abbiamo posizioni diverse al nostro interno, ma per ora non sono prioritari nell'agenda del Tea Party Italia".

    Mentre i teapartisti americani hanno decisamente inciso nelle primarie repubblicane in vista delle elezioni di novembre, i loro omologhi italiani valutano a distanza eventuali sponde politiche. Mazzerelli cita Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell'Istituto Bruno Leoni: "Stagnaro ci ha detto che quello che gli piace del Tea Party Italia è che dialoghiamo con tutti e non siamo alleati di nessuno. All'inizio – continua Mazzerelli – certi giornali ci avevano definiti finiani, perché ora in questo paese se si va contro Berlusconi si è automaticamente definiti finiani; poi abbiamo invitato Capezzone al dibattito di Forte dei Marmi e allora ci hanno preso per berlusconiani; dopo la manifestazione di Glenn Beck (anchorman della Fox, protagonista del Tea Party americano, ndr) ci hanno dato degli estremisti di destra. Insomma, cercano di attaccarci delle etichette".

    Il Tea Party Italia tiene però a presentarsi come un movimento inclusivo che si rivolge a chiunque voglia ascoltare. Cittadini comuni, ma anche esponenti dei partiti. "Se vogliono partecipare alla nostra battaglia politici che la condividono, di entrambi gli schieramenti, saremo ben felici di supportarli, di invitarli e di dar loro una mano", assicura Mazzerelli.
    L'economista Alberto Mingardi, direttore dell'Istituto Bruno Leoni, apprezza il Tea Party Italiano e le altre esperienze europee analoghe: "È molto significativo ed è una cosa molto buona il fatto che ci sia stato un po' ovunque in Europa e non soltanto in Italia un tentativo di associare dei gruppi spontanei di persone che si riferiscono a un movimento assolutamente spontaneo e acefalo". Ma non nasconde al Sole 24 Ore.com le sue perplessità. "Trovo poco probabile che queste iniziative abbiano impatti paragonabili a quello che hanno avuto in America, perché il nostro sistema politico è molto diverso", spiega Mingardi. Tra l'altro negli Stati Uniti c'è stato "un fatto scatenante che per fortuna noi non abbiamo avuto: l'ondata di bail out. Durante la crisi, in Italia non abbiamo visto un cambio di passo simile, pur a fronte di una storia da Stato interventista. Quindi da noi non c'è stato un evento scatenante, un catalizzatore", dice Mingardi.

    E poi è necessaria una chiarificazione, visto che il Tea Party americano è un movimento di massa, non un movimento culturale. Per riprodurne il modello bisognerebbe cercare di uscire dal dibattito eminentemente intellettuale per mobilitare persone "normali che magari leggono il quotidiano due volte a settimana. È vero che i Tea Parties americani non sono la massa di rozzi e ignoranti che qualcuno pensa. Ad esempio, ho visto una bellissima foto di una manifestazione in cui una signora mostrava un cartello con scritto ‘Read Thomas Sowell', che in Italia suonerebbe come ‘Leggete Alessandro Penati'. Ma, detto questo, si tratta di un movimento di persone che si mettono le scarpe da ginnastica, si caricano lo zainetto sulle spalle, montano uno striscione ed esprimono con questa forma di partecipazione la loro insoddisfazione. Insomma, non si tratta di presentazioni di libri, che sono cosa degnissima ma sono altra cosa".

    Mingardi è scettico sulle possibilità che in Italia si riesca a trasformare il Tea Party da stimolo per il dibattito delle idee a mobilitazione di massa, "ma forse un'opportunità per un movimento del genere c'è: ci sarà stata della gente in Italia che credeva davvero, negli anni Novanta, che si dovessero abbassare le tasse. Beh, quella gente non può mica essere tutta morta nel corso degli ultimi anni!". Però in Italia ci sono state ben poche mobilitazioni di massa di questo tipo. "Il Tea Party è un po' come la vecchia maggioranza silenziosa – suggerisce Mingardi – In Italia si ricordano la marcia dei 40.000 e, più in piccolo, la marcia contro il fisco del 1986 perché sono stati forse gli unici episodi in cui qualcosa del genere è avvenuto fuori dei partiti. Ma nel primo caso, anche se non c'erano i partiti, c'era la prima impresa italiana e quindi le risorse di mobilitazione erano molto sedimentate e molto forti. Nel 1986 fu invece una cosa effettivamente straordinaria quanto a partecipazione, però l'iniziativa nacque e morì lì".

    Sull'eventualità che il Tea Party possa trovare sponde nei partiti italiani oppure influenzarli Mingardi è chiarissimo: "In America all'interno dei collegi elettorali i Tea Parties appoggiano persone che si prendono una serie di impegni, i cui termini si trovano sul sito contractfromamerica.org, e mobilitano elettori affinché quelle persone vengano elette a novembre. Il punto cruciale è quel tentativo di azione politica che i teorici del Tea Party chiamano ‘un'opa ostile sul Partito repubblicano'. In Italia non si può fare; il partito di destra non è contendibile perché è di una persona, il partito di sinistra non è contendibile perché è di un gruppo dirigente che, alla fine, è lo stesso da vent'anni".

    Editore, giornalista e amministratore delegato del Movimento libertario, Leonardo Facco ha partecipato come ospite ai primi due eventi del Tea Party Italia. Pur apprezzando l'iniziativa, Facco, parlando con il Sole 24 Ore.com, sottolinea l'importanza di introdurre azioni concrete. "Andare in giro per l'Italia a proporre le idee del Tea Party americano va bene, è educazione culturale e io, che faccio l'editore, la apprezzo. Ma questo è un paese profondamente malato e lo sappiamo tutti, quindi limitarsi a dirlo non serve. Occorre un'azione, mirata, interessante, intelligente, pacifica, ma eclatante. Come ho detto a Forte dei Marmi – continua Facco – importare il Tea Party in Italia deve essere per forza legato a un'azione concreta. Non bastano le conferenze, a cui tra l'altro vanno politici che tutto vogliono tranne il cambiamento. Bisogna fare azioni più popolane".

    L'a.d. del Movimento libertario conosce le difficoltà di importare in Italia, e adattare al nostro contesto, iniziative ispirate da quanto avviene altrove ("Un po' come quando il governatore di Bankitalia dice ‘Bisogna fare come la Germania!'. C'è un problema: mancano i tedeschi. E non è cosa da poco…"). Peraltro Facco è convinto che l'Italia non sia riformabile attraverso la politica, mentre "la cultura anglosassone è diversa. Nel 1980 spunta Ronald Reagan che, nel bene o nel male, prende l'America e la rivolta come un calzino dal punto di vista economico".

    In Italia nel 1994 è spuntato Silvio Berlusconi. "Ecco, Berlusconi è l'esempio della irriformabilità della politica", afferma Facco. Il premier periodicamente parla di rivoluzione liberale, "continua a raccontare questa panzana, che ha annunciato per la prima volta nel 1994 e tutti stiamo ancora aspettando questa rivoluzione liberale. Ma, analizzando quanto è avvenuto in questo paese dal '94 a oggi, ci si accorge che la pressione fiscale (io sono autore di un libro intitolato ‘Elogio dell'evasione fiscale', quindi mi sono occupato del tema alla grande) è ormai vicina al 70 per cento, la burocrazia è solo peggiorata, la corruzione è diventata devastante, la meritocrazia non esiste, la mobilità sociale di tipo verticale è retrocessa al periodo pre guerra mondiale".

    Per aiutare il Tea Party a uscire dal circoscritto mondo dei dibattiti culturali e a essere più efficace, Facco consiglia di seguire la strada percorsa dal suo Movimento libertario: "Noi siamo un movimento politico che non si candiderà mai, che ma fa azione politica in maniera molto incisiva. Abbiamo due battaglie in corso, per cui ci siamo autodenunciati. Una è una forma di resistenza fiscale, contro il sostituto di imposta: un nostro imprenditore, ad esempio, dà tutti i soldi in busta paga ai dipendenti. Un'altra è una forma di disobbedienza civile: la semina di mais ogm".

    Secondo Facco anche il Tea Party Italia dovrebbe intraprendere analoghe iniziative concrete, capaci di farlo uscire dalle ristrette cerchie degli appassionati di politica americana e di idee economiche liberiste e libertarie. Al proposito, è prodigo di suggerimenti: "Si potrebbe pensare a una battaglia legata al canone Rai, oppure agli scontrini, che si diceva dovessero essere aboliti 15 anni fa, oppure a una battaglia su un'imposta assurda di qualsiasi altro genere, visto che, tra imposte, tasse, gabelle e accise, ne abbiamo quasi duemila. In alternativa, si potrebbe anche innescare un'azione di resistenza fiscale di altro tipo, come presentare la dichiarazione dei redditi e, se si devono pagare, ad esempio, 10.000 euro di tasse, pagarne soltanto 9.950 o 9.980".

    Meno stato, meno tasse, più libertà. Anche l'Italia ha il suo Tea Party - Il Sole 24 ORE

  5. #15
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    Predefinito Rif: Osservatorio permanente sui Tea Parties

    Per il Tea Party sta scoccando "l'ora X". Quella della battaglia fiscale

    Adesso la questione dei tagli alle tasse operati a suo tempo dal presidente George W. Bush jr. è davvero matura. La riduzione fiscale varata nel 2001 e ancora nel 2003 dalla Casa Bianca per far fronte alla recessione dell’universo “dot.com” e alla crisi anche economica seguita all’Undici Settembre scadrà il 31 dicembre prossimo e il dibattito sul dopo infiamma. Certo, pare strano: a rigor di logica, infatti, disaccordo e quindi dibattito proprio non dovrebbe esserci su una questione tanto sentita dalla gente che fra pochi giorni andrà alle urne e nel pieno della protesta fiscale dei “Tea Party”, soprattutto tenendo presente che quei tagli fiscali hanno fatto del bene sia ai cittadini sia all’economia nazionale, insomma che nessuno ha da lagnarsene. Chi sarebbe tanto folle da auspicare a gran voce l’aumento delle tasse? E difatti negli Stati Uniti nessuno propone oggi apertis verbis il rincaro del pizzo preteso dallo Stato. Ciò che divide gli schieramenti è come estendere la riduzione delle imposte varata all’inizio del decennio scorso.

    I Repubblicani vorrebbero che la riduzione fiscale interessasse tutti i cittadini statunitensi, i Democratici in linea con il presidente Barack Hussein Obama vorrebbero che il taglio riguardasse solamente le famiglie con un reddito complessivo inferiore ai 250mila dollari annui, e questo seguendo una demagogia non poi tanto lontana da certi discorsi fatti a casa nostra dalla Sinistra più estrema allorché essa vagheggia di “tasse patrimoniali” e dintorni. Insomma, la Sinistra vuole che chi ha di più (gente che ha di più mica per colpe inconfessabili) non “paghi di più”, ma paghi sproporzionatamente, mentre la Destra vuole che tutti paghino meno. Nel mezzo succede che ridurre le tasse a tutti beneficia tutti, ovvero il sistema Paese nel suo insieme, mentre ridurre le tasse solo ad alcuni azzoppa il circolo virtuoso innescato dalla manovra per mero amor di populismo propagandistico. La riduzione flat delle imposte, infatti – signori, il mondo è piatto –, fa bene a un Paese tanto quanto ne fa la tassazione flat. E qui tornano a bomba un discorso antico e un determinato personale politico oggi in rotta negli USA.

    Il discorso antico è quello che dice che se uno persegue bene i propri interessi fa al contempo l’interesse di tutti; i politici in caduta libera sono i Repubblicani non conservatori e i RINO, quelli cioè superati a destra dal popolo dei “Tea Party” e dai candidati conservatori che esso ha messo in piazza. Mi spiego. I “Tea Party” sono un fenomeno conservatore che non solo non coincide con il Partito Repubblicano, ma che questa formazione tiene oggi, entro certi limiti, “in ostaggio”. Talora preferisce perdere il confronto elettorale con i Democratici piuttosto che eleggere dei Repubblicani non conservatori, tanto – dice – è lo stesso. La battaglia dei “Tea Party” nasce – o così è stata più o meno correttamente percepita soprattutto da noi – come rivolta della piazza contro l’eccessiva tassazione di Stato, ma è ben più di quello: l’argomento fiscale è lo strumento mediante il quale promuove una ben precisa visione del mondo, fatta di antistatalismo, difesa dei diritti costituzionali, preservazione dell’identità americana e “princìpi non negoziabili”. Per questo i RINO ai “Tea Party” né garbano né servono.

    Epperò, al tempo: alcuni RINO – non tutti, alcuni – sono liberal sul piano etico e culturale, ma (almeno un poco) più conservatori su quello fiscale. Ora: 1) se lo strumento – non l’unico scopo – dei “Tea Party” è la protesta fiscale, la quale, se ottiene la riduzione delle tasse, fa del bene di per sé e poi – pensano appunto i “Tea Party” – aiuta a organizzare la difesa culturale dell’idea “Dio, patria e famiglia” dal relativismo della politica odierna, e 2) se far bene i propri interessi fa bene a tutti, allora 3) i RINO fiscalmente più conservatori potrebbero strumentalmente tornare utili proprio ai “Tea Party” nel momento stesso in cui questi peraltro pensano a come contenerli esclusivamente entro quel recinto per poi disfarsene alla svelta. Mica semplice: e infatti i “Tea Party” non si fidano affatto dei RINO anche più fiscalmente conservatori. Ma noi che americani non siamo e che dunque abbiamo il vantaggio di un’analisi fatta a distanza e un poco più freddamente, il calcolo lo vediamo bene.

    Insomma, è paradossalmente probabile che una parte dei RINO, i nemici giurati dei “Tea Party” e viceversa, possano contribuire a ottenere gli scopi che i “Tea Party” si prefiggono proprio contro di essi. Quei RINO contribuirebbero insomma oggettivamente a ottenere la vittoria nella battaglia scatenata dai “Tea Party” qualora questi alla resa dei conti difettassero di qualche numero elettorale decisivo: una battaglia che i “Tea Party” combattono per ragioni diversissime da quelle dei RINO, ma l’esito sarebbe lo stesso. Ecco qui dove il fare scopertamente gl’interessi propri benefica tutti: alcuni RINO sostengono la rivolta fiscale per motivi propri e diversi da quelli dei “Tea Party”, ma alla fin fine avvantaggerebbero grandemente quel movimento che pure, ricambiati, detestano, mentre i “Tea Party” sfrutterebbero l’azione dei RINO fiscalmente più conservatori per motivi specularmente propri fra i quali c’è pure la cacciata dalla scena politica dei RINO stessi.

    Ovvio, i “Tea Party” non sono affatto ora disposti a confondersi ancora una volta con i “traditori” RINO, ma alle elezioni di medio termine certi RINO più fiscalmente conservatori potrebbero lo stesso farcela senza di loro (o con il contributo nascosto di qualche “Tea Party” virtuosamente cinico e spudorato). In questo caso, il bandolo della matassa si sposterebbe al giorno subito seguente le elezioni: che farà a quel punto il movimento “senza guida” dei “Tea Party”?, come gestirà la propria scalata a parte del mondo Repubblicano?, come armonizzerà politica e idealismo?, e soprattutto come amministrerà la propria vittoria?, ché quella comunque vada ci sarà nelle menti e nei cuori di milioni di americani, ma anzitutto nell’aver posto sul piatto della bilancia politica del secolo XXI un grande e incancellabile precedente. L’unica cosa certa ora è che dei famosi tagli fiscali dell’era Bush si parlerà dopo le elezioni. Per questo il braccio di ferro in atto fra “Tea Party” e RINO resta d’importanza fondamentale.

    Marco Respinti è presidente del Columbia Institute e direttore del Centro Studi Russell Kirk

    Per il Tea Party sta scoccando "l'ora X". Quella della battaglia fiscale | l'Occidentale

  6. #16
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    Predefinito Rif: Osservatorio permanente sui Tea Parties

    "Meno tasse, più libertà". Il grido dei Tea Party sbarca in Europa

    Ultraconservatori e arrabbiati d'Oltreoceano, ma non solo. Oggi, con diverse sfaccettature il movimento sta prendendo piede anche nel vecchio continente. E a Milano, l'11 ottobre, si terrà il primo Tea Party nazionale

    Se identificate i Tea Party con le folkloristiche adunate degli ultraconservatori americani, che attraversano le città degli States al grido di "meno tasse, più libertà", sventolando bandiere, bibbie e talvolta revolver... avete ragione. Ma non è tutto.
    Il fenomeno ha attraversato l'oceano e sta prendendo piede nel vecchio continente, con connotazioni diverse da Stato a Stato, ma con forti denominatori comuni.

    Il prossimo Ricevimento del tè si svolgerà a Milano, l'11 ottobre, all'interno della European Liberty Conference, presso l'università Bocconi. Lo scorso maggio si è tenuto il primo Tea Party in Olanda (gemellato con Tea Party Italia) e il profilo si Facebook dedicato all'European Tea Party Movement raccoglie più di duemila fan.

    In un articolo pubblicato sull'Huffington Post lo scorso aprile, dall'emblematico titolo Tea Party fear in Europe (timore Tea Party in Europa), Raymond Johansen, segretario del partito Laburista norvegese lancia l'allarme: Tim Philips, uno dei leader dei 'rivoluzionari del Tè' e del movimento di estrema destra Americans for Prosperity (AFP) si trovava all'epoca a Oslo per 'insegnare' ai propri colleghi del Fremskrittspartiet come organizzare al meglio campagne di iniziativa popolare. Spontaneo furor di popolo, mobilitato su temi cari agli interessi dei conservatori e delle lobby finanziarie, sostiene l'autore. Non a caso, sia il capopopolo Philips che il suo movimento grassroots, dal basso, ricevono ingenti finanziamenti dai petrolieri delle Koch Industries.

    L'onda di neopopulismo che sta attraversando l'Europa trova fertile terreno nei cittadini fiaccati dalla crisi economica e i Tea Party vanno a gonfie vele. «Sono i portavoce nei paesi avanzati dei malumori e delle frustrazioni della "generazione delle aspettative ridotte", la prima che si attende un futuro peggiore di quello dei genitori» scrive su Il Sole 24 Ore Enrico Brivio in Quell'onda di rabbia dai Tea Party all'Europa .

    Rivolta fiscale, idee libertarie, euroscetticismo, liberismo, xenofobia, nazionalismo... diverse sono le sfaccettature che emergono dai movimenti nei singoli Paesi, uguale il risentimento degli elettori e il disconoscimento della politica condotta nei palazzi dello 'stato centrale'.

    "Meno tasse, più libertà". Il grido dei Tea Party sbarca in Europa - Esteri - Virgilio Notizie

  7. #17
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    Predefinito Rif: Osservatorio permanente sui Tea Parties

    Christine O'Donnell strega. Anche i Tea Party conquistano il mercato delle bambole

    «Non sono una strega, sono una di voi». Christine O'Donnell lo afferma con sguardo dolce da brava ragazza nel corso del suo spot elettorale smentendo quanto trasmesso in una puntata recente dello show televisivo "Real Time" di Bill Maher . In un video del 1999, trasmesso da Maher per rivendicare la mancata partecipazione di alla sua trasmissione, O'Donnell, vincitrice repubblicana del Delaware per le primarie al Senato, raccontava di come da teenager fosse finita ingenuamente, durante il suo primo appuntamento con un ragazzo, ad una messa satanica.

    Le sue dichiarazioni «I'm not a witch» e «I dabbled in witchcraft» sono diventate subito un tormentone su You Tube. Il suo spot è stato ripreso e ritoccato in versione ironica dagli utenti. Derisa dai liberali, perché considerata poco intelligente e bigotta e osannata dai seguaci dei Tea Party, la O'Donnell è diventata il personaggio più controverso del momento. E ora una bambola la renderà ancora più popolare. Sta per uscire infatti la nuova "doll" della società Herobuilder, una barbie vestita da strega che, stima il proprietario della nota società del Connecticut, Emil Vicale,«sarà un gran successo». «Non ho ancora le previsioni degli utili, ma vi dico che già da ora vi è una grande richiesta. Una donna ha intenzione di comprare un centinaio di queste bambole a patto che le facciamo vestite di rosso, cosa che faremo senz'altro», ha dichiarato Vicale, che assicura: «Non è nostro scopo interferire con la politica americana, vogliamo solo scherzare». Di bambole e bambolotti politici Vicale ne vende per tutti i gusti e schieramenti politici. Anche i liberali non sono esenti da prese in giro e ironie.

    Per i conservatori la Herobuilder ha messo in vendita un modellino raffigurante Barack Obama, Turbo tax ovvero un Tim Geithner che parla, e la bambola Nancy Pelosi munita di waterboard. Vicale fa business seguendo attentamente le news e i trend del momento. Identifica il personaggio più controverso, lo ricrea in miniatura in modo provocatorio così da attirare l'attenzione del pubblico. Chi acquisterà la bambola Christine O'Donnell avrà la possibilità di scegliere tra due versioni. I suoi sostenitori, che evidentemente non apprezzeranno il look da streghetta, potranno acquistare la candidata repubblicana in versione "executive", con giacca e pantalone nero, e ovviamente senza berretto. Tra la lista di personaggi politici prodotti dalla Herobuilder, al primo posto tra i più venduti figura "l'Information Minister" di Baghdad, Saeed al-Sahaf ( sono stati venduti 16 mila pezzi in circa 20 ore) mentre al secondo posto, gettonatissima, un'altra donna dei Tea Party, l'ex candidata alla vice presidenza per i repubblicani, Sarah Palin. Probabilmente con l'arrivo della O'Donnell la classifica cambierà.

    Christine O'Donnell strega. Anche i Tea Party conquistano il mercato delle bambole - Il Sole 24 ORE

  8. #18
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    Predefinito Rif: Osservatorio permanente sui Tea Parties

    Tea Party oltre il movimentismo

    Sono arrivati in tremila a Richmond, in Virginia, a un'ora e un quarto d'auto dalla capitale. Sono arrivati in festa per aggiungere un altro capitolo nella storia dei Tea Party: la prima convention formale, a livello statale, ieri, per coordinare un movimento che finora è rimasto loose, sciolto e dunque incontrollato, con tutti i problemi del caso per il partito repubblicano. L'idea di coesione, di organizzazione, di struttura è dunque benvenuta.
    La parola d'ordine per queste ultime tre settimane di campagna elettorale in casa repubblicana è quella dell'unità. Karl Rove che aveva attaccato i Tea Party ora li appoggia. Simboli del partito come Ed Cox, presidente dei repubblicani a New York, ora è schierato con Carl Palladino contro Andrew Cuomo e, in una conversazione che abbiamo avuto con lui pochi giorni fa ci ha detto: «Esiste un processo di voto, esistono delle primarie. È chiaro che ciascuno di noi può appoggiare candidati diversi e il mio candidato era Rick Lazio, non Carl Palladino. Ma quando le primarie finiscono prevale l'unità, siamo tutti repubblicani».
    Il problema apparente alla convention di ieri è che, quando si sono guardati negli occhi, molti dei delegati, magari vicini di contea, si sono accorti di non vedere le cose allo stesso modo. L'altro problema è che ieri non ci sono state le star, come Sarah Palin, adorata dal movimento, ma che a Richimond non si è fatta vedere. Non si è fatto vedere neppure Mitt Romney, a tutt'oggi il candidato di punta (ma forse non quello che vincerà) per la nomination repubblicana alle presidenziali del 2012. Un altro problema ancora è che il movimento Tea party è talmente a macchia di leopardo da non aver attecchito in California (si veda l'articolo di fianco). Si aggiunga che i democratici attaccano sulle componenti "becere", volgari, di molti candidati Tea party, da Christine O'Donnell in Delaware allo stesso Palladino a New York, che spesso dice parolacce. Un aiuto in questa direzione è tuttavia venuto da un autorevole candidato democratico, Jerry Brown, che corre per la poltrona di governatore in California che venerdì non ha usato eufemismi per insultare la sua concorrente Meg Withman. Poi ha chiesto scusa.
    «È chiaro che abbiamo differenze, siamo in rappresentanza di 30 gruppi diversi solo nel nostro stato, alcuni gruppi sono formati da trenta persone...per ora il processo è quello per un dialogo interno, locale: è logico che la Palin non aveva ragione di esserci», dichiara Jamie Radtkie, una delle donne militanti del gruppo, una figlia della Virginia e del sud, decisa ad aprire «dei canali di comunicazione: dobbiamo allargarci, mantenere la nostra identità libera, ma allargarci». Il reach out, l'allargamento, in effetti funziona. Ha persino coinvolto una delle star dell'evento Dick Morris, proprio lui, l'ex guru strategico di Bill Clinton, l'artefice della vittoria democratica nel 1996 convertito non solo ai valori repubblicani, ma a quelli dei Tea Party: «Ho detto che se Hillary Clinton avesse conquistato la Casa Bianca avrei lasciato il paese - ha ricordato nel suo discorso Morris - e oggi vi dico: dobbiamo riportare a Washington i valori traditi dalla Casa Bianca di Obama».
    I "patrioti" (così amano chiamarsi) erano in estasi, come lo sono stati ieri durante la più importante sessione del pomeriggio, con il senatore Rick Santorum della Pennsylvania, con Ron Paul, una delle star nascenti – e una delle più controverse – nel movimento, con il procuratore generale della Virginia, Ken Cuccinelli.
    Dalla Virginia si passerà ad altri stati, convention simili sono previste in Texas, Pennsylvania, Indiana, Michigan, Ohio. Poi chissà forse ce ne sarà una nazionale. E forse avremo finalmente l'incoronazione di un leader nazionale, «ma non la nascita di un terzo partito - dice ancora la Radtkie – siamo una costola del partito repubblicano come in passato lo sono stati altri movimenti, quello degli evangelici ad esempio: il dibattito le sfide alle vecchie generazioni arricchiscono. Ma ora il dibattito è finito: l'unione, non la divisione, fa la forza».

    Tea Party oltre il movimentismo - Il Sole 24 ORE

  9. #19
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    Predefinito Rif: Osservatorio permanente sui Tea Parties

    I Tea Party all'italiana tra entusiasmo giovanile e amarcord della marcia anti-fisco del 1986

    Il rodaggio del Tea Party Italia si è svolto in circa sei mesi con una serie di incontri ("tappe", nel gergo proprio del movimento) in varie città italiane. Prima a Prato – dove il Tea Party nostrano è nato, su impulso di David Mazzerelli – poi Alessandria, Aversa, Forte dei Marmi, Torino, Catania. In attesa degli appuntamenti di Firenze (1 novembre) e Parma (6 novembre), lunedì sera, all'Università Bocconi di Milano, il Tea Party Italia ha dato vita alla sua prima "tappa nazionale", ospite della European Liberty Conference organizzata dagli Studenti bocconiani liberali.

    Circa centocinquanta persone, tra cui numerosi stranieri confluiti in sala direttamente dai lavori della concomitante conferenza, hanno partecipato alla tappa nazionale teapartista, modulata più come occasione di incontro e scambio di idee tra chi sogna una battaglia per la riduzione del carico fiscale e della spesa pubblica che come pensosa serie di allocuzioni e interventi accademici.

    Il ricco buffet e l'animata chiacchiera piatto-in-mano tra gli entusiasti combattenti della battaglia anti-fisco hanno prevalso sulla breve serie di interventi oratori. In definitiva si è trattato più che altro di una festa, come ha ricordato uno degli intervenuti, il giornalista Marco Respinti, presidente del Columbia Institute. Eppure sono stati applauditissimi anche i succinti e animati discorsi dal palco.

    L'ex presidente del Partito Libertario americano, Jim Lark, ha augurato ai teapartisti italiani di "keep the focus", cioè di non deflettere dal nocciolo della propria proposta, di non allargare il campo ad altre tematiche e di mantenere gelosamente la propria indipendenza dalle strutture partitiche. E in effetti un altro degli intervenuti, l'ex ministro della Difesa Antonio Martino, è stato salutato proprio come politico atipico e quindi potabile al palato del Tea Party. Martino ha impostato le sue parole sul leitmotiv del «io c'ero», rivendicando di aver combattuto quasi in solitaria per decenni una battaglia analoga a quella del Tea Party.

    Il ricordo è corso alla marcia torinese anti-fisco del novembre 1986. Trentacinquemila manifestanti e in prima fila tre professori: Sergio Ricossa, Gianni Marongiu e lo stesso Martino. Allora l'accoglienza fu diffidente e freddissima. Martino ricorda il giudizio di Bettino Craxi («In piazza sono scesi solo evasori»), la risposta di Ricossa («Non si è mai visto uno sciopero dei vegetariani contro l'aumento del prezzo della carne») e il fatto che lui stesso si giocò la collaborazione giornalistica con La Stampa scrivendo che etichettare i partecipanti alla Marcia torinese come evasori sarebbe stato come dire che tutti i socialisti erano ladri.

    Accanto all'amarcord e ai consigli dei veterani al Tea Party Italia, rimane la consapevolezza che il movimento contro la pressione fiscale e gli eccessi di statalismo e spesa pubblica può incidere soltanto se diventa di massa come negli Stati Uniti. In un intervento cursorio, in piedi e più volte ricominciato a causa dell'indecisione tra lingua inglese e italiano, il presidente dell'Adam Smith Society, Alessandro De Nicola, mostra il suo apprezzamento perché in sala sobbolle «un entusiasmo giovanile non scontato» e trova incoraggiante la consapevolezza che non si debba essere elitari nella battaglia liberale.

    Ma se è vero che nel pubblico presente l'età media è decisamente bassa e che, zainetto stravagante in spalla e New Balance ai piedi, Claudio Velardi si mimetizza in una folla di ventenni e poco più, in platea e al buffet è percepibile l'alto tasso di Ph.D. già conseguiti o in via di acquisizione. Un elemento che non sembra mostrare, anche al di là dei numeri ancora ridotti dei partecipanti al Tea Party, i prodromi di un movimento di massa.

    In verità il pubblico è esteticamente eterogeneo. Davanti al buffet ventenni pratesi si mescolano ad anziani professori americani adorni di trenta centimetri di barba bianca, un postadolescente imberbe in gessato, cravatta e pochette arancione e distintivo di Forza Italia all'occhiello sbocconcella una tartina a un passo da un ragazzo con occhiali vintage, All Star bianche e nere e un campionario di piercing sul volto, studenti bocconiani in mocassino marron si accalorano in compagnia di coetanei decisamente più fashion victims. Eppure, nonostante un'apparente efficacia ecumenica del richiamo anti-fisco promosso dagli entusiasti avanguardisti del Tea Party Italia, si continua a percepire quel non so che di club per cervelloni innamorati dell'America.

    I Tea Party all'italiana tra entusiasmo giovanile e amarcord della marcia anti-fisco del 1986 - Il Sole 24 ORE

  10. #20
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    Predefinito Rif: Osservatorio permanente sui Tea Parties

    Ritratto di "Mr. L", l'anti-Obama che piace ai conservatori
    Tutti i giorni tiene una trasmissione di tre ore su ABC radio ed è ascoltato da un terzo dei cittadini americani. Cesare De Carlo ne traccia il profilo in “Un tè freddo per Obama”, un saggio Egea sull’America che non ama Obama. Leggine un estratto

    di Cesare De Carlo

    A due anni dalla sua elezione gli europei non riescono a capacitarsi come Obama sia potuto precipitare tanto nel gradimento degli americani. Gli ultimi sondaggi lo danno attorno al 40 per cento. Sei americani su dieci (ABC – Washington Post) ritengono che non sia up to the job, non sia all’altezza della carica, e che dunque non si possa fare affidamento sulle sue capacità.
    In Europa, invece, il primo presidente afro-americano gode tuttora di una vastissima popolarità e di grande prestigio. Si dà il caso però che sia presidente al di là e non al di qua dell’Atlantico. E poi – si sa – quel che piace all’Europa, spesso non piace all’America. Di qui le previsioni disastrose per le elezioni di medio termine, il 2 novembre. Il partito democratico, che nel novembre 2008 conquistò una massiccia maggioranza sia alla Camera (78 seggi più dei repubblicani) che al Senato (venti seggi più dei repubblicani), potrebbe perdere uno o entrambi i rami del Congresso.
    In attesa di conferme, chiediamoci piuttosto come spiegare l’imponente riflusso conservatore. Con la povera performance governativa? Non solo. Con la carica ideologica? Non solo. Con la riforma sanitaria? Non solo. Con la montagna di debiti e il rischio, anzi la certezza, di altre tasse? Non solo. Con l’alta disoccupazione? Non solo. Con l’ingenuità della sua politica estera? Non solo. Con il disastro ecologico nel Golfo del Messico? Non solo. Con l’impetuosa opposizione del Tea Party? Non solo.
    C’è un altro fattore da tener presente, il fattore L. È un fattore mediatico e non politico ed è quello che lo ha fatto scendere dal piedistallo sul quale lo avevano elevato le attese messianiche della sinistra americana e la ffiducia dell’elettorato moderato.

    L sta per Limbaugh. Rush Limbaugh è il nome intero. In Italia nessuno sa chi sia. Negli States lo conoscono tutti. E lo conoscono non dagli schermi televisivi, ma dalla radio. Limbaugh, 59 anni, è un talk show man. Tutti i giorni, week end escluso, tiene una trasmissione di tre ore su ABC radio e su altre centinaia di stazioni locali. La sua audience si misura nell’ordine di un centinaio di milioni di persone, un terzo dei cittadini americani.
    I suoi commenti sono grazanti, sarcastici, impietosi nei confronti di tutto quanto – a suo giudizio – non va nell’amministrazione Obama. La sua aggressività ha ridato anima, coraggio, iniziativa al partito repubblicano, uscito demoralizzato nello spirito e strutturalmente a pezzi dalle elezioni del 2008. Limbaugh è stato il primo a comprendere la portata rivoluzionaria dei Tea Party, quando ancora appariva come la disperata protesta di sparuti gruppi di irrinunciabili conservatori. Mancavano due settimane all’Inauguration.
    Il nuovo presidente non era ancora entrato alla Casa Bianca e già Rush Limbaugh proclamava alla radio: spero che (Obama) fallisca. E continuava: questo presidente ci toglierà le nostre libertà fondamentali nella vita quotidiana, nelle banche, sul lavoro, nella sanità. «Sarà il governo e non più noi a decidere cosa fare, come comportarci, cosa scegliere. Io non voglio che ciò accada. Ecco perché spero che il suo (di Obama) socialismo fallisca. Il socialismo è un problema e non la soluzione dei nostri guai. Il socialismo è ciò che ci ha spinto sull’orlo del precipizio».

    Scandalo fra i media liberal che avevano appoggiato la lunga marcia di Obama verso la presidenza e che anche negli States, come in Italia e come in molti altri paesi europei, fanno opinione: dal New York Times al Washington Post, al Los Angeles Times, alle nightly news dei grandi network televisivi. Com’era concepibile augurarsi che fallisse una presidenza, prima ancora di averla vista al lavoro? Non era mancanza di patriottismo? Rahm Emanuel, il primo ministro virtuale della Casa Bianca, cercò di sfruttare l’indignazione generale per sostenere che ormai il partito repubblicano era cotto, disorientato, privo di guida.
    Era finito nelle mani degli estremisti, lontano dalla moderazione centrista e dunque non eleggibile. «Non esiste più un credibile avversario politico, i repubblicani si sono messi al servizio di Limbaugh che di fatto è diventato il loro leader politico». Persino il presidente del partito repubblicano, Michael Steel, un afro-americano, definiva odioso il commento, non immaginando che di lì a qualche mese gli eventi gli avrebbero dato torto. E, una volta superato dagli sviluppi, si allineò con l’aggressivo talk show man.
    Come sempre, Limbaugh giocava d’anticipo. Intuiva che il fenomeno Barack avrebbe presto perso lo smalto della campagna elettorale. Che i moderati, gli indipendenti, i transfughi dal partito repubblicano che, ansiosi di voltare pagina dopo gli otto infelici anni di Bush, lo avevano votato, lo avrebbero abbandonato. Che bisognava ridare fiducia al partito repubblicano, richiamarlo ai suoi valori, ricordare che l’elettorato americano è per sua natura conservatore e, dunque, recuperabile solo che i suoi capi storici non si lasciassero spingere sul sentiero sbagliato della bipartisanship. Nessuna bipartisanhip, tuonava. Nessuna collaborazione con il governo in carica. Contrapposizione totale. Bisognava marcare le differenze e non inseguire un terreno comune. Nel vuoto e nel disorientamento della sconfitta la sua fu la sola voce che predicava la resistenza: trincerarsi dietro i principi di Ronald Reagan e preparare la riscossa. Guai a farsi tentare dalla nozione secondo la quale scendere a compromessi con i democratici, la cui maggioranza in Congresso era al di là di ogni sfida, avrebbe consentito di ricatturare i voti dei moderati!
    Il partito repubblicano – sosteneva il robusto oppositore – avrebbe dovuto scegliere la linea del no. No a tutto quello che proveniva o era proposto dalla Casa Bianca o dai leader democratici. Solo così a novembre i repubblicani avrebbero potuto imputare ai democratici, e solo a loro, i «fallimenti a catena che ne sarebbero venuti».

    In un articolo scritto per il Wall Street Journal riassumeva come segue il suo credo politico:
    • mi vanto di essere un conservatore. Noi conservatori siamo ffieri della nostra ffilosoffia. Siamo ben diversi dai nostri amici liberal (di sinistra), che sono sempre alla ricerca di nuove parole per nascondere i loro veri propositi e sono in uno stato perpetuo di riformulazioni. Noi conservatori non ci scusiamo per i nostri ideali;
    • crediamo fermamente nei nostri principi e cerchiamo di applicarli apertamente e senza infingimenti. Crediamo nella libertà individuale, in un governo limitato, nel capitalismo, nel primato della legge, nella fede religiosa, in una società indimerente ai colori, nella sicurezza nazionale;
    • siamo a favore della scelta della scuola, dell’imprenditoria privata, delle riduzioni bscali, della riforma del welfare, del culto religioso, della libertà di espressione politica, del diritto di avere una casa, della guerra al terrorismo islamico;
    • celebriamo il documento più magnifico mai ratificato da alcuna altra nazione: la Costituzione americana. Insieme con la Dichiarazione di Indipendenza, che riconosce il diritto naturale concessoci da Dio di essere liberi, essa è il fondamento sul quale si basa il nostro governo e lo strumento per progredire nella società;
    • noi conservatori non siamo mai tanto forti come quando cerchiamo di realizzare i nostri principi.

    In un’intervista al New York Times, ritenuto la Bibbia del liberalismo, Rush Limbaugh se la prendeva con i centristi, gli indipendenti, i conservatori moderati che nel 2008 si erano fatti incantare dalla retorica del «change» obamiano.
    Li invitava a lasciare il partito. Un invito che non riscuoteva affatto il consenso del presidente Steel timoroso di una linea troppo conservatrice.
    Le elezioni – obiettava non senza ragione – si vincono solo se il grande centro ti vota. Un anno e mezzo fa Steel non poteva immaginare che proprio la radicale chiamata alle armi di Limbaugh, unita all’attivismo altrettanto radicale dei Tea Party, avrebbe rovesciato gli umori dell’opinione pubblica. Gli assalti radiofonici quotidiani grondavano di accuse al limite dell’insulto. Dai e dai – argomentavano le voci più prudenti – non si sarebbero ritorte contro l’appassionato commentatore e più in generale contro il partito? Tanto più che lo stesso predicatore, e non solo la sua predicazione, era oggetto di controversie. L’indulgenza alle droghe leggere per lenire – diceva – certi mal di schiena. La sua movimentata vita matrimoniale (quattro divorzi, numerosi affaire).

    La sua ancor più disinvolta vita sessuale. Debolezze. Peccati veniali e comunque di natura personale, che l’interessato non negava affiatto. Una volta che, al ritorno da Santo Domingo, la dogana americana gli trovò dosi abbondanti di Viagra acquistati con ricette non a suo nome, rispose: sì, il Viagra era per me, e allora? Me la sono goduta.
    Difficile mettere in difficoltà un personaggio così estroverso. Ogni attacco democratico ne accresceva popolarità e audience. Ogni tentativo dell’establishment repubblicano di riportarlo sotto controllo si concludeva immancabilmente con altrettante sue vittorie. Le disgrazie elettorali del senatore Arlen Specter, repubblicano passato fra le file dei democratici, partirono dal suo talk show, quando lo bollò di opportunismo e tradimento. E quando il deputato Phil Gingrey, repubblicano della Georgia, osò criticarlo per il suo atteggiamento «troppo poco propenso al compromesso politico», la base, cioè il suo elettorato, gli si rivoltò contro e gli impose di chiedere scusa a Limbaugh.
    Limbaugh fu il primo – come detto – a dare sostegno e pubblicità al fenomeno dei Tea Party. Ne abbracciò subito l’agenda, la lotta contro la riforma sanitaria, la riduzione delle dimensioni e dei costi dell’apparato governativo, il no alla presunzione obamiana di «rifare l’America» sul modello delle socialdemocrazie europee. La sua filosofia combaciava al cento per cento con la politica della rabbia.
    La sua eroina divenne Sarah Palin, ex candidata repubblicana alla vicepresidenza nel 2008, ex governatore dell’Alaska. Se Limbaugh affiermava che per scalzare Obama il partito repubblicano sarebbe dovuto diventare il partito del no, la Palin specificava: il partito del no infernale. Fu lei ad accendere la platea della prima convention dei Tea Party svoltasi a Nashville (Tennessee). Ma fu Limbaugh dai microfoni della radio a martellare i delegati: attenti, il vostro movimento non deve diventare un terzo partito, il partito deve rimanere unito per non fare il gioco dei democratici, dovete solo puntare a rafforzare l’ala destra. I repubblicani erano invitati a guardarsi indietro, a resuscitare lo spirito del grande campione degli anni Ottanta, di quel Ronald Reagan che lanciò la sua rivoluzione restauratrice dei valori e dell’orgoglio nazionali dopo l’infelice presidenza del democratico Carter.
    l talk show man ripeteva ai suoi ascoltatori una battuta famosa di Reagan: il problema dei nostri amici liberal non è l’ignoranza, ma la loro ostinazione per le ricette sbagliate.
    Copyright © 2010 EGEA Università Bocconi Editore

    Tratto da Cesare De Carlo, Un tè freddo per Obama, Egea, pp.228, euro 16

    Cesare De Carlo è editorialista de Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno. Vive a Washington dal 1986 e ha la doppia cittadinanza, italiana e statunitense.

    Ritratto di "Mr. L", l'anti-Obama che piace ai conservatori - Tg24 - Sky.it

 

 
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