In «La Voce Repubblicana», 6-7 luglio 1987, intervista di Paolo Bonetti

In una intervista rilasciata alla «Voce» nel mese di aprile, Renzo De Felice aveva detto che la collocazione dei repubblicani nel sistema politico italiano era quella di una forza liberaldemocratica più vicina alle esigenze della società industriale di quanto non sia la Democrazia cristiana, e più attenta ai problemi dello Stato e della giustizia nella amministrazione di quanto non sia il Partito socialista. Queste parole dell’illustre studioso mi sono tornate in mente proprio in questi giorni, in mezzo al turbinare delle interpretazioni e delle polemiche sul risultato elettorale repubblicano del 14 giugno. E sono tornato da lui per affrontare la questione da un punto di vista storico prima ancora che immediatamente politologico.

Per i laici c’è stato un insuccesso, questo non dobbiamo in alcun modo nasconderlo – mi dice De Felice – anche perché soltanto dall’aperto riconoscimento della sconfitta può nascere una diversa prospettiva di sviluppo. Il loro ruolo (in particolare quello del Partito repubblicano) non è certamente esaurito, ma bisogna che i gruppi dirigenti facciano un’analisi spregiudicata e coraggiosa del risultato elettorale. Avevo avuto l’impressione che la gente seguisse poco queste elezioni, e invece gli astenuti non sono aumentati. È stato l’elettorato d’opinione che ha voltato le spalle ai repubblicani e liberali: questo è il primo dato da cui partire, anche se andrà esaminato meglio, quando disporremo delle elaborazioni scientifiche sui flussi elettorali. Questa perdita è avvenuta in una misura non ancora traumatica: c’è stata una contemporanea emorragia verso la Dc e il Psi.

Direi soprattutto verso i socialisti, e questo conferma che il timore di un “sorpasso” comunista ha agito in misura piuttosto limitata.

Questo è importante. La vittoria di Craxi (insisto: di Craxi più che dei socialisti) accentuerà probabilmente la diaspora liberaldemocratica. Contro le due culture politiche che, bene o male, rappresentano ancora due chiese ideologiche, l’unico polo che appare oggi vincente è il polo socialista e, se preferisce, il craxismo. D’altra parte, nel nuovo elettorato borghese, in quei ceti di “prima schiuma” di cui le parlai nella precedente intervista, non ci sono timori nei confronti di Craxi: il leader socialista non viene giudicato infido nei suoi rapporti con i comunisti.

Le pare che l’elettorato più giovane (quello al di sotto dei quarant’anni) riesca a cogliere le differenze ideologiche fra liberaldemocratici e socialisti riformisti?

Direi proprio di no: per queste persone le differenze sono sempre meno. C’è, fra i giovani, un discorso ormai largamente diffuso di liberalsocialismo, che ha ben poco a che vedere con le polemiche ideologiche degli anni trenta. Questo mi induce a pensare che il partito socialista sarà sempre più il polo di attrazione delle forze laiche.

Eppure ci sono battaglie culturali e politiche che i laici non socialisti (in particolare i repubblicani) hanno condotto quasi da soli, a cominciare dalla questione morale. Oggi sembra di cattivo gusto parlarne, dal momento che non ha portato voti. Ma è questo un buon motivo per metterla da parte?

Sulla questione morale dobbiamo intenderci. Che non abbia portato voti, non mi meraviglia. Quel che conta, per molti italiani, è il proprio “particulare”. Inoltre, per un certo tipo di elettorato, “tutti sono ladri”: altra affermazione molto ricorrente. Ci sono i “ladri” socialisti come un tempo c’erano i “forchettoni” democristiani. E poi, prenda lo scandalo della Usl di Torino: ci sono dentro tutti, dai missini ai comunisti. Certe cose sono ormai ritenute inevitabili, e quindi secondarie. Interpretare così la questione morale, vederla nei termini di una generica disonestà della classe politica e amministrativa, significa fermarsi a una petizione di principio che lascia il tempo che trova. Si deve fare, piuttosto, un discorso di competenza e di efficienza di specifici e ben individuati settori della pubblica amministrazione.

Sto pensando al modo, davvero sconcertante, in cui viene amministrata la giustizia in Italia: ci sono ritardi inverosimili, che ci umiliano davanti a tutto il mondo civile.

La giustizia: ecco un tema sul quale le forze laiche avrebbero dovuto battere con maggiore vigore. Il suo cattivo funzionamento va a ledere precisi interessi dei ceti emergenti. Il polverone sul nucleare ha fatto scomparire il grande tema della giustizia, e mi lasci dire che la posizione repubblicana è stata, sulla questione del referendum, troppo intransigente e unilaterale. Non si può difendere oltre un certo limite un establishment come quello giudiziario: ci sono cose, in quel mondo, che l’elettorato più intelligente e sensibile non accetta più.

Nel consenso dei nuovi ceti e dell’elettorato giovane verso i socialisti e i verdi, lei vede, quindi, una protesta contro la sclerosi delle istituzioni?


Ricorda il discorso che facemmo al convegno di marzo a proposito dei ceti emergenti e delle nuove professionalità? Avrebbero potuto essere voti per le forze di democrazia laica, e invece costoro, forse turandosi un po’ il naso, hanno votato in buona parte per i socialisti, e, in alcuni casi, anche per la Dc. Qualche errore sarà stato pur commesso: Spadolini, ad esempio, ha un po’ esagerato con questa storia dell’ago della bilancia. Tra due realtà politiche che sono più grandi del Pri, per fare l’ago della bilancia bisogna essere un po’ più pesanti.

Torniamo a contenuti pubblici: in tema di difesa dell’ambiente, il Pri ha meriti precisi, basta pensare alla legge Galasso. Eppure tutto questo non ha contato, come non è valsa granché la posizione moderata e responsabile sul problema del nucleare. Dunque i repubblicani non sanno farsi capire?

Anche sul tema dell’ambiente e sul suo rapporto col nucleare il Pri doveva essere più preciso, doveva forse argomentare le sue ragioni in modo meno generico e astratto. Mi spiego: la tutela dell’ambiente e la produzione di energia sono, in una società industriale avanzata, valori da garantire senza che l’uno vada a discapito dell’altro. Ma bisogna chiarire bene, in modo anche tecnicamente convincente, come si intende farli convivere. Nei gruppi ambientalisti c’è, sicuramente, una forte componente emotiva, ma ci sono anche fondate preoccupazioni che nascono dalla complessità e dalla gravità dei problemi. La posizione repubblicana sul nucleare era ed è sostanzialmente giusta, ma andava forse presentata in altro modo.

Certo, il Psi è stato più abile nel suo rapporto con i movimenti…

Più il tempo passa e più il Psi mi fa pensare al partito socialista mussoliniano del 1912-13, di quel Mussolini che tendeva a raccogliere tutti i gruppi sulla propria sinistra, per così dire “succhiandoli”. Il movimentismo può essere visto in molti modi, in termini sessantotteschi o post-sessantotteschi, ma anche come qualcosa che favorisce questo progressivo “assemblamento” socialista in tutta la sinistra.

Se questa è la prospettiva, quid agendum per le forze di democrazia laica non socialista?

Non vorrei che quello che sto per dire le sembrasse la proposta di un ruolo di mosche cocchiere, ma a me pare che la situazione stia in questi termini: tutto questo fermento messo in moto dal Psi è estremamente scomposto. Organizzare in una cornice culturale coerente le differenti e magari contrastanti pulsioni del movimentismo può oggi non essere indispensabile. Ma domani, quando il Partito socialista si troverà ad avere fatto il pieno e si dovrà confrontare seriamente, per l’egemonia sul paese, con la Democrazia cristiana e con ciò che sarà rimasto in piedi del Partito comunista, che strumenti culturali avrà a disposizione? Oggi ne ha ben pochi, e quindi gli può succedere o di rimanere minoranza, nonostante la spregiudicatezza politica, o di cadere in balia di tutto e di chiunque, con pericoli gravi per la democrazia italiana.

Mi par di capire che è su questa contraddizione socialista che possono far leva i liberaldemocratici per mantenere e rafforzare un loro ruolo autonomo…

Il compito della cultura liberaldemocratica (ma potremmo chiamarla anche liberalsocialista) è quello di dare una struttura concettuale, una concezione moderna e razionale della politica, a questa confusa aggregazione di forze che si vanno coagulando attorno al Psi. È anche, se vuole, quello di esercitare una funzione di stimolo morale, purché non si tratti di vaghe ed astratte prediche moralistiche. Non abbiamo bisogno di preti laici che ci fanno la morale, ma di una cultura laica moderna e realistica.

Non dimentichiamo che, a sinistra del Psi, c’è sempre la grande forza del partito comunista. Come giudica quello che sta accadendo a questo partito?

Con Occhetto il Pci ha scelto una fase di arroccamento pur di restaurare le mura della fortezza ed evitare che scappi altra gente. È, a mio parere, una posizione miope e perdente di fronte al dinamismo craxiano.

Crede in un effettivo recupero della Dc o la vede ormai confinata in un ruolo di affannosa difesa di fronte alla crescente aggressività socialista?

Non lo dico per antipatia preconcetta verso De Mita e simpatia ideologica verso i suoi oppositori interni, ma ritengo che finché la Dc resterà attestata sulla linea De Mita non riacquisterà mai una sua capacità di guida reale ed incisiva di una grande fetta della società italiana, cosa assai più importante della guida del governo. La Dc potrebbe forse recuperare questo ruolo egemonico, ma certamente con un’altra dirigenza, capace di dare del filo da torcere al Psi.

La sua conclusione mi sembra questa: nello scontro fra democristiani e socialisti, i laici debbono schierarsi a fianco di questi ultimi, ma in un rapporto dialettico, senza alcuna subordinazione culturale e morale, e senza pensare ad impossibili unificazioni politiche. È così?

Fra la Dc e Craxi è in corso una lotta che non riguarda la semplice occupazione del potere, ma due differenti tipi di sviluppo del nostro sistema politico. Questa lotta rende ancora più importante la funzione della cultura liberaldemocratica e, in particolare, del Partito repubblicano, che ne rappresenta il filone più avanzato e radicato nel paese. Le forze laiche non possono consentire, con le loro divisioni, il recupero e la vittoria della Dc. Se crediamo tutti in una comune prospettiva politica e culturale che ha le sue radici nei grandi movimenti riformatori del nostro secolo, perché mai dovremmo far vincere la Dc?