di Rosario Romeo - «Il Mondo», 29 settembre 1957.

Il posto di Gaetano Salvemini nella storia della storiografia italiana viene individuato, di solito, nell’ambito di quella «scuola economico-giuridica» che, tra la fine del XIX e i primi del XX secolo, diede vita a un moto di rinnovamento degli studi storici italiani che si svolse per oltre un ventennio, sino agli inizi della prima guerra mondiale. Le suggestioni dottrinali del marxismo, mediate attraverso una cultura largamente positivistica e l’influsso dominante della scienza germanica, e unite ai vivaci interessi politici suscitati dal nascente socialismo, indussero allora molti dei più dotati intelletti storici italiani a guardare con speciale predilezione ai problemi della vita economica e delle strutture sociali. Erano gli anni in cui lo stesso Croce, pur criticando il materialismo storico sul piano della teoria, ne riconosceva tuttavia la validità come «canone empirico di ricerca storica»: tanto maggiore, perciò, il fascino che quelle teorie potevano esercitare sul giovane Salvemini, già dal 1892 battagliero militante e polemista del movimento socialista. Studiando a Firenze, alla scuola di Pasquale Villari, Salvemini si era trovato al centro delle vivaci discussioni intorno alla storia del Comune fiorentino, che alla mentalità sociologizzante dell’epoca appariva particolarmente importante come «Comune tipico», terreno ideale per studiare la formazione di un nucleo cittadino e la sua differenziazione dal contado, il nascere di una società mercantile e borghese e i suoi contrasti con le vecchie strutture feudali, l’insorgere, poi, dei nuovi conflitti di classe tra la grassa borghesia e il proletariato dei nuovi opifici. A quegli studi il Salvemini diede presto un decisivo contributo, con una serie di lavori (ricordiamo tra questi La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze, che esaminava la funzione svolta nel processo di dissoluzione della società feudale dall’innalzamento alla milizia di nuove famiglie borghesi) culminati nel volume Magnati e popolani a Firenze dal 1280 al 1295 (1899), che occupò subito un posto di primissimo piano, accanto alle opere di uomini come lo Hartwig, il Villari, il Davidsohn. La tesi del giovane storico si svolge con mirabile nettezza di linee. Le lotte tra Guelfi e Ghibellini a Firenze nella seconda metà del XIII secolo non sono da intendere come lotte tra un partito di popolo e uno di nobili, che gradualmente cede il campo alle nuove forze popolari: Guelfi e Ghibellini sono in realtà due fazioni della stessa classe nobiliare, appartengono cioè tutti quanti al medesimo ceto di Magnati, che sono insieme nobiliores di antica estrazione feudale, e divitiores et potentiores di più recente nobiltà ottenuta con le ricchezze nuovamente accumulate. Di contro a essi, è solo dopo la pace del cardinal Latino del 1280 che il popolo, liberato dalla tirannia guelfa e nobiliare seguita al 1267, appare come protagonista sulla scena politica, e inizia quella decisiva battaglia che, culminando negli «Ordinamenti di giustizia», doveva aprire a Firenze la fase del predominio borghese, imperniato sul popolo grasso. Il contrasto tra magnati e popolani è dunque presentato come lotta tra proprietari terrieri interessati alla libera esportazione delle derrate alimentari e consumatori cittadini miranti a garantirsi il pane a buon mercato anche attraverso i divieti di esportazione; tra proprietari di case e inquilini; fra contribuenti privilegiati e contribuenti ingiustamente aggravati. Sono queste le rigide contrapposizioni di classi e di interessi di cui in seguito si è fatto carico al Salvemini (come al Davidsohn), e che hanno ispirato tutto un moto di revisione che ha fatto capo essenzialmente a Nicola Ottokar. E tuttavia, se è da riconoscere che gli studi successivi hanno fatto giustizia di parecchie di quelle schematiche antitesi, mostrando come fosse varia la composizione sociale delle contrastanti forze politiche, come molte famiglie partecipassero ugualmente alla proprietà terriera e alle attività mercantili e bancarie, come non fosse possibile ridurre a criteri di partito taluni atteggiamenti di politica estera o di politica annonaria che rispondevano a generali interessi della città; va sottolineato, d’altra parte, che le tesi del Salvemini e del Davidsohn valgono tuttavia a dare un concreto senso storico a un processo che non può essere ridotto a meri contrasti di gruppi familiari in lotta per il potere senza svuotare di contenuto tutta la storia di Firenze nella seconda metà del XIII secolo, caratterizzata appunto dal passaggio dal Comune nobiliare al Comune di popolo. Fatto, questo, indubitabile, e sottolineato con chiarezza nei suoi lavori generali dallo stesso Ottokar, che pur aveva cercato di negare ogni contenuto sociale ai contrasti politici del tempo in sede di revisione diretta dell’opera del Salvemini e del Davidsohn. In realtà, errori di interpretazione e di particolari non mancavano nelle larghe e audaci tesi del giovane Salvemini; la nettezza delle sue posizioni e l’esasperato amore della chiarezza mentale rivelavano fin da allora quella tendenza a troppo razionalizzare, o se si vuole, a schematizzare la realtà storica che saranno poi i limiti caratteristici della storiografia salveminiana. Ma, con essi, Magnati e popolani rivelava nel grado più alto i meriti indiscutibili dello storico: il senso autentico dei problemi, la larghezza di visione e la capacità di inquadramento, l’amore per la concretezza spinto all’estremo, la passione tenace per il documento preciso e particolare (nonostante che la novità della ricerca e l’ardua materia conducessero allora il Salvemini ad alcuni errori nella interpretazione di alcuni testi della storia comunale fiorentina). E non è superfluo rilevare che proprio in tempi recentissimi si sono visti i segni di un riesame della stessa revisione ottokariana, tendente ad attenuarne le punte estreme, e si è cominciato a sottolineare la sostanziale validità che tutt’ora conserva, alla luce di una più approfondita meditazione, la interpretazione sociale della storia del Comune di popolo a Firenze, alla quale Salvemini aveva dato un contributo di primaria importanza.
Alla storia medioevale di Firenze il Salvemini era stato condotto dalla sede stessa dei suoi studi universitari, e dalla temperie allora dominante negli studi storici italiani, tutti volti a vangare con infaticato ardore la storia comunale in relazione al mondo, or ora scoperto, dei problemi e delle strutture sociali. Ma a questi problemi il Salvemini era condotto in modo assai più diretto dalla sua attiva partecipazione alla lotta politica nelle file del socialismo, che lo poneva nel mezzo dei problemi fondamentali del mondo moderno. Un impegno politico così pieno e totale doveva avere riflessi immediati anche sul suo lavoro di storico, secondo una tendenza che verrà accentuandosi sempre più col passare degli anni. Non stupirà dunque che a Magnati a popolani segua, dopo pochi anni, un’indagine dedicata dal Salvemini appunto al momento centrale della formazione del mondo moderno, con il volume sulla Rivoluzione francese (1905). Il terminus ad quem veniva qui fissato nella formale caduta della monarchia feudale (21 settembre 1792); ma in compenso il volume conteneva un’ampia indagine introduttiva sulle condizioni della Francia dello ancien régime in cui avevano modo di risplendere ancora una volta le doti dell’indagatore acuto e preciso dei fatti sociali, pur con la tendenza, qui non meno accentuata, a una eccessiva schematizzazione delle realtà mutevoli e sfuggenti della vita storica. La storia politica della Rivoluzione era dal Salvemini ricostruita secondo linee largamente influenzate dalle allora recentissime indagini dell’Aulard, dal cui giudizio si avverte un’eco immediata nel rilievo che assume nell’opera dello storico italiano la figura del Danton, vero grande eroe della causa rivoluzionaria, come Mirabeau lo è di quella della monarchia. In questo ambito, talune affermazioni del Salvemini sono oggi da rivedere alla luce delle successive indagini che ebbero luogo in Francia a opera soprattutto del Mathiez; benché anche qui sia da avvertire che alla revisione non ha mancato di far seguito una controrevisione, che ha trovato nel Lefebvre l’interprete forse più equilibrato, che accoglie, nel riconoscimento della grandezza storica di Danton, anche taluni dei limiti e delle colpe addossategli da Mathiez, con foga forse da pubblico accusatore più che da storico. E che l’opera del Salvemini – destinata a rimanere unica in Italia nel suo genere di storia rivoluzionaria di mirabile efficacia sintetica e a livello rigorosamente scientifico, se pure non ricca di vera novità di scoperte – conservi tutt’ora una notevole vitalità è dimostrato dalle sette edizioni che se ne sono seguite fino al 1954, oltre che dalla traduzione uscitane a Londra nello stesso anno.
«Quasi sempre, - aveva scritto Salvemini nel volume sul Comune di Firenze, - parliamo di magnati e di popolani come parleremmo di due quantità algebriche astratte […]»: e si era dato a precisarne il significato e il contenuto, a rischio di irrigidire troppo i due termini nello sforzo di definirli. L’amore per la concretezza si convertiva in lui in fastidio estremo per i «concetti» storici, i quali, assorbendo una congerie di fatti particolari, finiscono per assumere quasi figura e consistenza propria, come se si trattasse di realtà effettive, e non di meri espedienti mnemonici di cui praticamente ci serviamo per dominare l’immensa mole del passato. Questa ripugnanza conduceva il Salvemini a scrivere in un passo assai noto del libro sulla Rivoluzione: «allo stesso modo che pensiamo la malattia come un’entità concreta esistente al di fuori e al disopra dell’ammalato, così trattiamo la Rivoluzione come qualcosa di esistente all’infuori e al di sopra degli uomini che vissero nel periodo rivoluzionario. E come diciamo che la malattia ha ucciso l’ammalato, mentre in realtà è l’ammalato che è morto presentando certi sintomi morbosi, così diciamo che la Rivoluzione ha distrutto i diritti feudali, ha proclamato i diritti dell’uomo, ha detronizzato Luigi XVI. La Rivoluzione non ha fatto mai nulla di tutto questo. Essa altro non è se non un termine collettivo astratto, mediante il quale noi denominiamo con grande risparmio di tempo i nobili spogliati dai plebei dei diritti feudali, i plebei proclamanti i diritti dell’uomo, il re destituito di ogni autorità, e tutti gli altri avvenimenti del periodo rivoluzionario». L’affermazione potrebbe parere, in sé e per sé, lapalissiana: ma era così vivamente e fortemente sentita da esprimere insieme il senso vivissimo della realtà individuale e concreta proprio dello storico, e insieme certa sordità davanti ai nessi interiori e organici, davanti agli stati d’animo collettivi e ai processi nascosti da cui si germinano nuove situazioni storiche e politiche, che era, anch’essa, a lui propria e congenita.
Queste attitudini mentali, che conducevano il Salvemini ad accostarsi con intrinseca simpatia al pensiero e all’opera del Cattaneo, non erano le più adatte a intendere la nebulosa e romantica spiritualità mazziniana. All’apostolo genovese il Salvemini dedicò un volumetto uscito nel 1920: ma se pur un intima affinità spirituale non è sempre necessaria tra lo storico e il suo personaggio, v’era nel mondo mentale del Mazzini qualcosa di troppo antitetico allo spirito fermamente razionalistico e scientifico, illuministico nel senso migliore del termine, dello storico pugliese, perché una parte di quel mondo non gli restasse muta ed estranea. Da ciò, anche lo sforzo ch’egli fece di porre ordine nell’ondeggiante congerie del pensiero mazziniano, sezionandolo e ordinandolo attorno a gruppi di problemi (il criterio della verità, le «basi di credenza», la educazione del genere umano, la teocrazia popolare ecc.), senza tener conto dello svolgimento complesso di quel pensiero, che conobbe mutamenti rilevanti e acquistò significati diversi nel tempo, in relazione al mutar di fatti e di situazioni di cui nel libro di Salvemini non v’è traccia. Ma, nonostante questi rilievi, che fu facile formulare, il libro ebbe rapida e meritata fortuna; e in tanta pochezza di scritti complessivi sul Mazzini occupò un posto segnalato, per la perspicuità e l’acume di molte osservazioni, e per la penetrazione e la capacità ricostruttiva con cui sono lumeggiati molti dati fondamentali della personalità e del pensiero mazziniano, su un piano ben più alto di quello piattamente espositivo o retoricamente enfatico che caratterizzava gran parte della letteratura mazziniana.
Alcuni anni dopo, un nuovo fondamentale contributo dava il Salvemini con una serie di conferenze tenute a Londra nel 1923 e presto raccolte in volume, in cui egli fornì la prima sistemazione scientifica della storia della politica estera italiana dal 1871 al 1914, animata da un senso largo e preciso dei problemi che al nostro paese derivavano dalla sua duplice posizione di potenza mediterranea ed europea insieme, e ricca di giudizi e di valutazioni che passeranno poi largamente come dati definitivi nella letteratura successiva.
Un uomo siffatto non era certo il più idoneo ad accogliere favorevolmente la nuova concezione idealistica della storia che in Italia veniva acquistando autorità sempre maggiore negli anni stessi in cui il Salvemini iniziava la sua attività intellettuale. Di quella concezione egli fu in effetti avversario dichiarato fin dall’inizio (ricordiamo una sua vivace polemica col Gentile nella «Rivista italiana di sociologia» del 1902). La terminologia hegeliana, l’accento posto sui problemi interiori dello spirito, il rilievo dato dalla funzione dell’irrazionale nella storia, la complessità stessa della costruzione dialettica, ripugnavano profondamente all’ingegno positivo e razionalizzante dello storico pugliese, che in quella concezione vide essenzialmente l’eredità metafisica, prodotto della «fabbrica di nebbie» filosofica che fu sempre uno dei suoi preferiti bersagli. Peraltro. Il Salvemini aveva anch’egli la sua filosofia, non certo in forma dottrinale e teorica, ma tuttavia ispirata a dottrine filosofiche facilmente individuabili. Non che il suo pensiero non abbia subito, nei sessant’anni della sua attività scientifica e culturale, un’evoluzione: nel senso di un distacco vieppiù accentuato dalle iniziali posizioni marxiste e dalla stessa scuola economico-giuridica, alle quali si è venuto sostituendo uno scientismo positivistico che d’altronde era stato presente anche nelle posizioni del giovane Salvemini. In realtà, l’amore del fatto preciso e individuale, la tensione permanente verso la concretezza e la chiarezza mentale, che dovevano sboccare, sul piano pubblicistico, nel problemismo dell’«Unità» e nella ricchissima attività di polemista efficacissimo e di primo piano, in sede di studi storici conducevano il Salvemini a una più accentuata diffidenza verso le costruzioni dottrinali del marxismo, e lo allontanavano dalle sue primitive indagini di storia sociale per spingerlo invece alla storia politica e diplomatica, dove più direttamente si coglie l’uomo concretamente operante. Su questo orientamento influiva certamente il posto sempre più largo che gli interessi politici venivano occupando nell’attività del Salvemini; ma il risultato finale era appunto di allontanarlo ulteriormente da una posizione di origine storicistica come era il suo primitivo marxismo, per farlo aderire a una visione della storia nettamente positivistica, che collocava l’indagine sui fatti della storia umana a fianco di quella sperimentale e naturalistica. A questa visione si ispira appunto lo scritto sulla Storia come scienza ricordato di sopra, e nato da una serie di conferenze tenuta in America, dov’egli era stato costretto a rifugiarsi dopo il 1928, e dove tenne la cattedra di civiltà italiana nell’università di Harvard. Gli influssi dell’ambiente americano entrarono certo per qualche cosa nella genesi di questo scritto: ma le sue linee fondamentali rinnovano essenzialmente vedute e teorie proprie del positivismo italiano del primo Novecento, che d’altronde sotto la penna del Salvemini acquistano quella penetrazione ed efficacia che è propria della forte personalità che di esse si serve, mettendole al servizio di un ardore intellettuale instancabile, di un amore risoluto per la verità, e di quel principio: «la chiarezza è l’integrità morale della mente», che può dirsi la bandiera di tutta la vita intellettuale e non solo intellettuale del Salvemini.
L’ultimo trentennio della sua attività, dal trionfo del fascismo alla sua caduta, alla rinascita della democrazia in Italia, vide il Salvemini impegnato nella battaglia politica più che nella ricerca storica. Ma questa battaglia, condotta dal Salvemini essenzialmente sul piano della pubblicistica e della polemica, è anch’essa materiata in parte di ricerca storica. Anche nei suoi scritti polemici egli portava la larghezza d’idee e la capacità di infaticato indagatore delle fonti che gli venivano dalla sua maestria di storico; sì che spesso quegli scritti contengono risultati che già oggi possono considerarsi acquisiti permanentemente alla scienza. Intransigente avversario di ogni ipocrisia intellettuale, il Salvemini non pretese mai in questi scritti di nascondere le sue posizioni sotto il velo di una presunta imparzialità storica: ma, come ebbe a scrivere nella prefazione alla prima redazione di Mussolini diplomatico, le sue esplicite preferenze politiche e il reciso giudizio morale che non si astenne mai dal pronunciare, in nessun caso significarono per lui rinuncia alla probità intellettuale, che impone di documentare onestamente le proprie affermazioni, e soprattutto di indicare chiaramente al lettore i limiti tra il fatto accertato e il giudizio sopra di esso. In questa attività polemica come nella battaglia meridionalista e nella storiografia si realizzava a pieno nel Salvemini quella unità del pensiero e dell’azione in cui soltanto si realizza la coerenza della vita morale. Di questa coerenza egli fece testimonianza ininterrotta in oltre sessant’anni di lavoro: ed è soprattutto per questo che con lui scompare uno dei maestri non solo degli studi storici, ma di tutta la cultura italiana di questo secolo.

Rosario Romeo