di Rosario Romeo - «Il Giornale», 31 maggio 1980.

Storico e uomo politico Giovanni Spadolini pubblica un nuovo libro (L’Italia dei laici. Lotta politica e cultura dal 1925 al 1980, Le Monnier, Firenze 1980, pp. 445), in cui storia e politica si intrecciano e si sostengono a vicenda, con indubbi vantaggi per l’efficacia culturale dell’opera. Qualche lieve forzatura in senso attualizzante potrà essere con facilità corretta dal lettore, anche se non specialmente informato.
All’indagine storica questa ricerca di Spadolini contribuisce anche con la pubblicazione di testi importanti. Fra essi, le pagine quasi sconosciute di ricordi e commenti di Guido de Ruggiero dopo la sua esperienza di ministro della Pubblica istruzione nei mesi drammatici da metà giugno a metà dicembre 1944. Una esperienza straordinaria, dominata dal problema di tirar su nuovamente le mura crollate della scuola italiana, senza mezzi e con i limitati poteri lasciati al ministro dai controlli alleati: ma anche una opportunità eccezionale di ripensare a fondo il nuovo corso della politica educativa in Italia, dopo i vent’anni di fascismo. De Ruggiero aveva alle spalle la riforma Bottai, avviata e non compiuta durante la guerra, e nella quale la distorsione partigiana dell’insegnamento si associava a innovazioni pedagogiche importanti e moderne.
Dalle riflessioni del grande storico della filosofia di scuola idealistica emerge con quanta ricchezza e novità di pensiero si affrontassero questi temi da chi attingeva al meglio della nostra tradizione culturale. Temi che torneranno decenni più tardi, dalla scuola media unica alla struttura degli Istituti universitari al numero chiuso e alla frequenza obbligatoria negli atenei, sono presenti in queste pagine, senza, naturalmente, l’esperienza e i dati accumulati dopo di allora, ma con una concretezza di vedute e un’aderenza alla realtà che in seguito è andata perduta nell’acritico accoglimento di modelli culturali e organizzativi anglosassoni, non sempre e non necessariamente superiori ai nostri. E poi, quale senso della cultura come fine a se stessa, e non subordinata ai miti di una socialità ingannevole e di fatto senza valori. Di grande interesse anche alcune pagine di Gallarati Scotti, importanti per i suoi ricordi di esule in Svizzera e successivamente di ambasciatore a Madrid e a Londra, da 1943 al 1951, accompagnate da alcune riflessioni di Spadolini sulla esperienza religiosa di Scotti in cui si ritrova tutta la competenza e la finezza interpretativa dell’autore dell’Opposizione cattolica.
A questi studi sulle opposizioni nell’Italia liberale, dal movimento cattolico a quello repubblicano e socialista (almeno nelle sue correnti minoritarie), Spadolini si richiama più volte per rivendicare la sua vocazione di storico dei vinti e delle minoranze, trascurate sino al 1945 dalla storiografia dominante. Si osserverà che fino allora la stessa storiografia sull’Italia liberale era appena agli inizi, e poteva elencare ben poco accanto alle grandi opere di Croce e di Volpe, se si toglie qualche scritto di Morandi e l’opera di Bonomi; e che d’altra parte Jacini aveva già aperto la strada agli studi sul mondo cattolico. Soprattutto, i vinti di un tempo si sono presentati, dopo il 1945, da vincitori: e la loro rivalsa, anche sul piano storiografico, è andata molto al di là del dovuto.
Ma l’attenzione con cui Spadolini guarda al ruolo delle minoranze si accompagna a quella non minore con cui guarda alla figura e all’opera di Giovanni Giolitti: che fu uomo, per eccellenza, di maggioranze. E il nesso non è casuale. Dell’opera di Giolitti Spadolini riprende l’esaltazione che, sulla scia di Croce, ne fecero i Valeri e i Salvatorelli (e alla storiografia di quest’ultimo, rissosa e avvocatesca, si richiama con apprezzamenti che non sapremmo in alcun modo condividere). Alla constatazione di studiosi recenti che Giolitti non risolse in fondo nessuno dei problemi che si proponeva di risolvere, egli replica che la storia non risolve problemi a modo dei ragionieri. Osservazione ineccepibile: ma dopo di essa rimane che nel 1914 l’immissione dei socialisti e dei cattolici nello Stato costituzionale era più lontana che mai, con Mussolini alla testa del partito socialista, i sindacalisti rivoluzionari in ascesa, i tumulti e i morti della Settimana rossa, la violenta campagna antimilitaristica scatenata dopo la guerra di Libia e accompagnata da episodi di scandalosa capitolazione dello Stato; per non parlare delle ombre proiettate sull’avvenire dal patto Gentiloni. Problemi non risolti, e già per questo più gravi di quanto non fossero quindici anni prima.
Ma tutto ciò per Spadolini è estraneo al senso vero del liberalismo di Giolitti: «Senso concreto e operoso della storia come soluzione di problemi e non come fissazione di mete, della storia come paziente ricerca di compromessi e non come brillante antologia di conquiste, della storia saggia e canuta dove un anno vuoto vale più di un anno di sciagure, dove un nodo sciolto vale più di un’imposizione forzosa, dove un onesto incontro a mezza strada prevale su una ostentata e malsicurata vittoria». Su questo sfondo si scorge chiaro l’intreccio fra i nomi di Giovanni Giolitti e Aldo Moro.
Senza il riferimento alle maggioranze di quel tipo non si intende la funzione che Spadolini attribuisce alla sua Italia delle minoranze: che è poi, una volta assurti i cattolici a maggiori fortune, l’«Italia dei laici». Un’Italia laica che da un lato apre alla Chiesa e dall’altro, attraverso la rivendicazione di un repubblicanesimo fattosi, da settarismo istituzionale, democrazia, e un socialismo senza chiusure a sinistra, tende la mano al mondo comunista. È questo il senso dell’associazione, così frequente in Spadolini, fra Moro e La Malfa, uomini e tradizioni diversissimi, e tuttavia concordi, in anni recenti, nel tentativo di associare in una formula di governo totalizzante tutte le forze della democrazia italiana. Il penultimo La Malfa, con la politica dell’emergenza, offre molti sostegni alla posizione di Spadolini; così come l’ultimo, con lo sganciamento dalle sinistre, ne giustifica la partecipazione a una maggioranza senza i comunisti.
Questa interpretazione del ruolo di maggioranza svolto nel dopoguerra dalle minoranze laiche, a fianco e al di là dell’antica minoranza cattolica diventata maggioranza, getta molta luce sulla vicenda degli ultimi decenni e sulla presente realtà politica. Nella quale, però, le minoranze laiche rischiano di vedere smarrita la loro specifica funzione. Finora, essa è stata quella di rappresentare, anche nel quadro delle frequenti alleanze di governo con la Dc, un modo più rigoroso e coerente di fare politica, una visione meno slabbrata e affaristica e compromissoria dello Stato e della democrazia.
Ma tutto ciò rischia di andare disperso se queste minoranze identificano troppo largamente il proprio ruolo con quello delle maggioranze trasformistiche di tradizione italiana. Pe questa parte, assolta anche troppo bene dalla Dc, mancano a esse, al di là della vocazione, anche le dimensioni indispensabili.
E la politica del Pri, così incline, negli ultimi anni, a far parte per se stessa, e a sacrificare affinità laiche e contenuti propri a una estenuante funzione mediatrice, non è molto adatta a fugare le preoccupazioni di questo tipo.

Rosario Romeo