di Rosario Romeo - «Il Giornale», 23 novembre 1975.

A Firenze, si è parlato, qualche settimana fa, di Salvemini. Non già nell’occasione di una delle consuete ricorrenze decennali o centenarie (Salvemini era nato nel 1873 ed è scomparso diciott’anni fa), ma sotto l’urgere della presenza tuttora viva dello storico pugliese nell’Italia di oggi. Tanto più giustificata la domanda, intorno alla quale è ruotato in buona parte il convegno tenutosi presso il Gabinetto Vieusseux, sulle ragioni e il significato di questa vitalità.
Molte delle cose che a Firenze si sono dette indurrebbero piuttosto a ritenere che essa sia, nel fondo, ingiustificata e comunque inspiegabile. Perché a Salvemini mancò, hanno detto in parecchi, una vera coerenza teorica e di pensiero filosofico. La sua adesione al marxismo fu viziata sin dall’inizio da influenze positivistiche e scientistiche comuni all’ambiente italiano a cavallo fra i due secoli; e più tardi egli fece storia guardando più spesso ai partiti politici e agli scontri di principi che non alle classi sociali e agli interessi economici. La sua battaglia meridionalistica, imperniata sugli intellettuali radicali del Mezzogiorno e sui contadini, denuncia quella stessa diffidenza per l’azione creativa delle masse che rese così precario il suo rapporto con i socialisti e con le classi operaie del Nord. Anzi, tutta la sua concezione del ruolo degli intellettuali nella società moderna è illuministica e astratta, a differenza, si è sottolineato, di quelle di Gramsci, che non perde mai di vista le masse, trascurate da Salvemini. Anche l’attenzione ch’egli rivolse alla scuola non andò oltre lo sforzo di migliorarne le strutture esistenti, senza aprirsi all’idea di una scuola davvero nuova per una società rinnovata.
L’accusa di non avere saldamente aderito alla filosofia del marxismo, e anzi di non avere inteso col necessario rigor la dialettica del processo di sviluppo capitalistico fu mossa a Salvemini, qualche anno fa, con una giovanile mancanza di garbo che nessuno, a Firenze, si è sentito di imitare. Ma essa ha circolato, ciò nonostante, fra le righe, sotto le dichiarazioni di ossequio al magistero salveminiano e il tono reverenziale. E tuttavia, resta quello che è: una cosa poco seria. Alle sue spalle sta una delle tesi meno difendibili dei «giovani turchi del marxismo nostrano, impegnati a dimostrare che non solo Salvemini o la scuola economico-giuridica a cui di solito lo si iscrive, ma nessuno storico e nessuna storiografia hanno finora saputo realizzare un libro davvero aderente all’insegnamento del filosofo di Treviri. Che è la più aperta confessione immaginabile della impossibilità di una storiografia rigorosamente marxista. Se a oltre cento anni dal Capitale essa non è riuscita a venire al mondo, è certo che non nascerà più. Le spiegazioni possibili sono varie, e tra esse sarà da ritenere quella crociana, che lo Spirito non conosce, tra le sue attività, la produzione dell’inutile. E inutile certo sarebbe una storiografia animata dalla pretesa di collocare tutta la creatività della storia umana entro uno schema già noto, in cui fosse incluso tutto l’essenziale. Quel giorno dovremmo rassegnarci a credere che gli uomini abbiano perduto l’infinita capacità di sorprenderci che hanno sempre posseduto. Ma di ciò non v’è segno, e darcelo non sarà la storiografia dei «giovani turchi».
Verissimo, invece, che nella sua attività politica Salvemini conobbe molte sconfitte. Ma la sua ostinata persuasione della autonomia della cultura, della responsabilità civile e morale dell’intelligenza come fatto a se stante, resta un valore ben saldo: e fra tutte le sconfitte che avran potuto subire, gli intellettuali di stile salveminiano non hanno però dovuto elencare la più vergognosa, di dover confessare l’abdicazione alle proprie ragioni d’essere davanti alla forza dei potenti. Ad altri, più attenti al legame con le masse, la storia ha riservato allori più vistosi; ma anche cadute e complicità incancellabili, che nessuna «revisione verbale» riuscirà a giustificare. È dubbio, poi, che costoro potranno mai vantare una vittoria come quella che Salvemini ha registrato in questi giorni; già solo con l’ammissione, da parte di molti di questi «altri» della ineliminabile presenza di questo solitario, senza seguito di masse, nell’Italia di oggi.
Non cercheremo di sostituirci ai molti e valenti relatori di Firenze nel dirne le ragioni. Anche perché una almeno ci pare di palmare evidenza. Salvemini impersonò con tutto il vigore di una chiara intelligenza e di una intatta moralità la fiducia illuministica in un regime di popolo alla cui base fossero i valori di giustizia e di libertà propri di una moralità laica e operosa, figlia del pensiero moderno: cioè una delle fedi più universali dell’età nostra. C’era, in questo suo moralismo politico, una certa secchezza e unilaterialità che sta all’origine di talune sue negazioni famose, e che è servita ad avallare non pochi isterismi della nostra vita intellettuale e politica. In questo senso, non tutto è bene quel che egli ha lasciato al patrimonio culturale dell’Italia odierna, dove proprio certi suoi limiti hanno consentito di strumentalizzarne il nome al servizio di forze che egli avversò costantemente. Ma la sua divisa che «la chiarezza è l’integrità morale della mente», e l’esempio così raro di coerenza tra il pensiero e l’azione di tutta la sua vita, danno alla sua eredità morale una connotazione e un valore che la rendono tanto più preziosa. Qualche anno fa si è detto che bisognava liberarsi di questa ingombrante figura di maestro. In realtà, mai come oggi l’Italia ebbe bisogno di maestri come Salvemini.

Rosario Romeo