E' imminente la pubblicazione del primo di due volumi dell'atteso memoir di Barack Obama, A promised Land (Una terra promessa), che in Italia e nel resto del mondo uscirà il 17 novembre, a quattro anni dall'esperienza alla Casa Bianca e due settimane dopo il voto presidenziale in America.
Nel nostro Paese il libro sarà pubblicato da Garzanti, lo stesso editore presso cui era già uscita l'autobiografia di Michelle Obama, Becoming che ha avuto grande successo e ha venduto oltre 10 milioni di copie in tutto il mondo. L'autobiografia di Obama, tradotta in 25 lingue, in America verrà pubblicata da Random House e l'ex presidente presterà la sua voce anche per l'audiolibro; un'impresa non da poco, dato che la versione inglese è di 768 pagine.
In A promised Land Obama ripercorre la sua carriera politica dagli inizi fino alla morte di Osama bin Laden nel 2011, passando per la vittoria a sorpresa nei caucus dell'Iowa del 2008 e la straordinaria vittoria alle presidenziali contro John McCain, il 4 novembre dello stesso anno. Come spiega lo stesso autore nella prefazione, «ho iniziato a scrivere questo libro poco dopo la fine della mia presidenza – poco dopo, cioè, che io e Michelle ci siamo imbarcati sull’Air Force One per l'ultima volta, diretti a ovest per una pausa a lungo rimandata. Sull'aereo, l'umore era altalenante. Eravamo entrambi prosciugati sotto il profilo fisico ed emotivo, non soltanto per le fatiche degli ultimi otto anni ma anche per gli esiti inattesi di un'elezione in cui, come mio successore, era stato scelto un leader politico agli antipodi rispetto a tutto ciò per cui ci eravamo battuti [...]. Gli ultimi quattro anni li ho passati a riflettere sulla mia presidenza e in "A Promised Land" ho provato a offrire un resoconto onesto delle mie campagne elettorali e del tempo passato alla Casa Bianca, degli eventi principali e delle persone che hanno plasmato la mia amministrazione, di ciò che ho fatto bene e degli errori commessi, ma anche del viaggio personale che io e Michelle abbiamo compiuto in questi anni, fatto di incredibili alti e bassi».
Donald Trump. Le considerazioni sui quattro anni dell'amministrazione Trump le troveremo nel prossimo volume, ma già qui Obama analizza la diabolica capacità mediatica di The Donald, il suo intuito, e confessa di aver sbagliato a sottovalutarlo. Le sortite dell'allora immobiliarista miliardario venivano viste alla Casa Bianca come buffonate. Dal libro emerge che Barack si rese conto solo gradualmente che la continua presenza di Trump sui media, la faccia tosta con la quale diceva cose false o ricorreva ad eccessi verbali erano la rappresentazione più estrema dei repubblicani di seminare ansia per la nomina di un presidente di colore: un sentimento «che si era trasferito dalle frange estreme del partito conservatore al suo centro, una reazione emotiva, quasi viscerale alla mia presidenza, un fenomeno che non aveva nulla a che fare con le differenze politiche e ideologiche» tra destra e sinistra. Obama, che a suo tempo ridicolizzò gli incredibili tentativi di Trump di negare la legittimità della sua elezione creando la leggenda di un Barack nato fuori dagli Stati Uniti, riconosce oggi che il panico della destra per l'elezione di un nero, «è esattamente quello che Trump intuì subito quando cominciò a parlare della mia presidenza come illegittima. Il suo fu un elisir offerto a milioni di americani spaventati dall'uomo nero alla Casa Bianca».
Più che sull'«anomalia Trump» , l’attenzionedi Obama si concentra sulla trasformazione del partito repubblicano in un'ottica sempre più radicalizzata, che ostacolò in tutti i modi il suo lavoro di presidente anche attraverso i leader delle Camere, che avrebbero dovuto essere gli uomini del dialogo. Le prime avvisaglie arrivarono già prima della sua elezione, col moderato John McCain che scelse la radicale Sarah Palin per la campagna presidenziale 2008: «Con la Palin gli spiriti maligni che erano rimasti ai margini del partito repubblicano moderno — xenofobia, ostilità nei confronti degli intellettuali, teorie cospirative paranoiche, antipatia per gli afroamericani e per gli ispanici — finirono al centro del palcoscenico». L'allarme per l'involuzione del partito repubblicano Obama la ribadisce anche nell'intervista a "60 minutes" che la rete televisiva Cbs manderà in onda oggi: parlando del rifiuto di Trump di riconoscere la vittoria elettorale di Biden, Barack afferma che «queste illazioni sulle frodi elettorali dipendono dal fatto che al presidente non piace perdere, non ammetterà mai la sconfitta. Mi allarma di più il fatto che altri leader repubblicani lo assecondino in questo modo: è un altro passo non solo verso la delegittimazione della presidenza Biden, ma della democrazia in generale. Stiamo imboccando una china pericolosa».
Joe Biden. Obama racconta di aver scelto Joe Biden come vice (dopo aver considerato e scartato Hillary Clinton, complicata anche per la difficoltà di trovare un ruolo all’ex presidente Bill) «perché sarebbe stato più che pronto a servire come presidente se mi fosse successo qualcosa. E poi Joe avrebbe potuto rassicurare con la sua presenza quelli che pensavano che io fossi troppo giovane. Ma, soprattutto, contava il mio istinto profondo: lo percepivo come onesto, in gamba, leale. Pensavo che nei momenti difficili non mi avrebbe deluso». I momenti duri arrivarono con la battaglia per la riforma sanitaria: «Lo usai come intermediario nella trattativa coi leader repubblicani del Congresso non solo per la sua lunga esperienza di senatore e il suo acume come legislatore, ma anche perché pensavo che nella mente di McConnell negoziare col vicepresidente sarebbe stato preferibile: non avrebbe incendiato la base repubblicana quanto la cooperazione col (nero, musulmano e socialista) Obama».
L'ex presidente si sofferma poi sulla prudenza del suo vice, ora suo successore, sugli impegni militari all'estero: contrario al blitz dei Navy Seals in Pakistan che portò all'eliminazione di Osama e scettico sulla guerra in Afghanistan, tanto che il ministro della Difesa, Robert Gates, gli dava del "naysayer", una sorta di ostinato signornò.
Obamacare. La riforma sanitaria, la grande battaglia della sua presidenza, è descritta in modo minuzioso. Non solo la difficoltà delle trattative coi repubblicani, ma anche la resistenza dei suoi stessi collaboratori, convinti che sarebbe stato difficile far accettare all’opinione publica un allargamento del ruolo dello Stato sulla salute dei cittadini. Ma anche le pressioni di leader come Ted Kennedy che lo incalzavano: «Ora o mai più». È il racconto di un Obama che deve accontentarsi di una riforma dimezzata, travolto dalla veemenza della destra (lui stesso chiama la riforma Obamacare, termine coniato dai repubblicani con intenti denigratori), e maltrattato a sinistra quando, per salvare il salvabile, rinuncia all’opzione di un sistema pubblico.
Autocritica. Nel libro Obama racconta la sua esperienza presidenziale con tono spesso autocritico. Rivendica i meriti, con forza e senza chiaroscuri, solo quando parla dello stimolo fiscale e delle altre manovre con le quali evitò una depressione e consentì all'economia americana di riprendersi dalla Grande recessione del 2008 più rapidamente di altri Paesi. Ma ammette anche i suoi fallimenti, a partire dalla rinuncia alla riforma dell'immigrazione, che definisce «una pillola amara da inghiottire». Sulla sanità riconosce di essere stato troppo ottimista: «Mi sembrava che la logica della riforma fosse talmente ovvia» da bloccare l'opposizione, ma riconosce di aver sbagliato per mancanza d'esperienza e perché estraneo ai complessi giochi politici di Washington pur essendo stato presidente per otto anni.