di Giovanni Spadolini – In «Nuova Antologia», a. CXXVIII, fasc. 2185, gennaio-marzo 1993, Le Monnier, Firenze, pp. 20-46.
Riunisco nella «Nuova Antologia» due interventi storici in sede di congressi scientifici, che in qualche modo si completano l’uno con l’altro.
Il primo è la traccia della relazione inaugurale che tenni il 1° ottobre 1992 nella sala della Protomoteca del Campidoglio al convegno nazionale di studi dedicato ai cento anni del partito socialista italiano da parte della Fondazione Nenni (l’altro relatore, quello di chiusura, era Leo Valiani). Negli atti del convegno, che usciranno nei «Quaderni di storia» della casa Le Monnier, uscirà l’intera relazione, annotata con i necessari riferimenti bibliografici.
Il secondo contributo, questa volta originale e integrale, è la prolusione tenuta a Piacenza il 15 ottobre 1992, al 56° congresso nazionale dell’Istituto per la storia del Risorgimento, presieduto e animato da Emilia Morelli (il testo tornerà poi negli Atti), dedicato a «Idee democratiche e forze liberali nell’Italia dal 1831 al 1846».
I. MAZZINI E LE DOTTRINE SOCIALISTE
Dicembre 1834. Per la prima volta, scrivendo a Carlo Battaglini che si trova a Ginevra, Giuseppe Mazzini identifica il futuro dell’umanità con il futuro del socialismo. Il termine «socialismo», sia pure con i contorni indefiniti dell’utopia sansimoniana, irrompe nel linguaggio mazziniano, resterà fino alla fine oggetto di discussione, poi di contestazione e di condanna fino al «no», formale e categorico, opposto al comunismo della Parigi del 1870-71.
«L’epoca passata, epoca che ha finito colla rivoluzione francese, era destinata a emancipare l’uomo, l’individuo, conquistandogli i dogmi della libertà, dell’uguaglianza, della fratellanza: l’epoca nuova è destinata a costituire l’umanità, il socialismo, non solo nelle sue applicazioni individuali, ma tra popolo e popolo». E la stessa Europa di «popoli liberi e indipendenti», la stessa federazione europea era collocata in quella prospettiva.
Dicembre 1834. Eravamo all’indomani del fallimento a Lione del tentativo istituzionale che aveva visto affiancati i repubblicani de la Société des Droits de l’homme e i celebri operai setaioli, i canuts raccolti nelle associazioni mutualistiche: in aprile, sulle barricate di rue Transonian, dopo giorni di scontri furibondi e di carneficine, è stato ammainato l’ultimo stendardo della «insurrezione rossa».
Più tardi, sedici anni dopo, all’indomani del fallimento del 1848, Mazzini tornerà a parlare di socialismo, di socialismo come tendenza delle rivoluzioni, rappresentato, nell’esperienza francese, da Ledru-Rollin. Ma senza più le illusioni di allora, senza più le aperture o le confidenze dell’animo.
Esule a Marsiglia, nel periodo fervido di fondazione della «Giovine Italia» e più tardi a Berna della «Giovine Europa», Mazzini era entrato in contatto con l’organizzazione dell’estrema sinistra buonarrotiana e ne era stato inizialmente conquistato, o almeno affascinato. Fra «Giovine Italia» e Alta Vendita le relazioni erano state buone per qualche mese. Nei suoi primi scritti l’esule genovese aveva mostrato di apprezzare l’intento tendenzialmente egualitario dell’esperienza di Robespierre ed accennava ad una lotta per l’avvento della democrazia in Europa in termini di inevitabile antagonismo.
Ma l’idillio era durato poco. L’influenza di un’altra forma di socialismo, a base quasi religiosa, era prevalsa nel giro di pochi mesi sulle simpatie pro-Buonarroti e pro-Babeuf. Già nel 1832 l’apostolo aveva dimenticato le leggi agrarie, si era sdegnato di fronte alle pretese «usurpazioni di proprietà», che considerava «violazioni inutili di facoltà individuali». Era affiorato, piuttosto, il filo conduttore di un pensiero politico in cerca di approdo, la necessità, per i progressisti italiani, di affrancarsi dalla tutela francese e di ricercare una propria via atta a strappare l’indipendenza e la libertà.
Ben presto le effimere sette degli Apofasimeni e dei Veri Italiani, sorte per riconquistare gli ambienti democratici italiani all’intransigenza della centrale carbonara, furono vuotate e assorbite da Mazzini. Il Risorgimento acquisiva così i connotati del suo programma: l’idea italiana di una grande alleanza fra i produttori di chiara impronta sansimoniana, per cacciare lo straniero e realizzare una società più giusta.
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