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    Predefinito Mazzini, socialismo e Risorgimento (1993)

    di Giovanni Spadolini – In «Nuova Antologia», a. CXXVIII, fasc. 2185, gennaio-marzo 1993, Le Monnier, Firenze, pp. 20-46.


    Riunisco nella «Nuova Antologia» due interventi storici in sede di congressi scientifici, che in qualche modo si completano l’uno con l’altro.
    Il primo è la traccia della relazione inaugurale che tenni il 1° ottobre 1992 nella sala della Protomoteca del Campidoglio al convegno nazionale di studi dedicato ai cento anni del partito socialista italiano da parte della Fondazione Nenni (l’altro relatore, quello di chiusura, era Leo Valiani). Negli atti del convegno, che usciranno nei «Quaderni di storia» della casa Le Monnier, uscirà l’intera relazione, annotata con i necessari riferimenti bibliografici.
    Il secondo contributo, questa volta originale e integrale, è la prolusione tenuta a Piacenza il 15 ottobre 1992, al 56° congresso nazionale dell’Istituto per la storia del Risorgimento, presieduto e animato da Emilia Morelli (il testo tornerà poi negli Atti), dedicato a «Idee democratiche e forze liberali nell’Italia dal 1831 al 1846».

    I. MAZZINI E LE DOTTRINE SOCIALISTE

    Dicembre 1834. Per la prima volta, scrivendo a Carlo Battaglini che si trova a Ginevra, Giuseppe Mazzini identifica il futuro dell’umanità con il futuro del socialismo. Il termine «socialismo», sia pure con i contorni indefiniti dell’utopia sansimoniana, irrompe nel linguaggio mazziniano, resterà fino alla fine oggetto di discussione, poi di contestazione e di condanna fino al «no», formale e categorico, opposto al comunismo della Parigi del 1870-71.
    «L’epoca passata, epoca che ha finito colla rivoluzione francese, era destinata a emancipare l’uomo, l’individuo, conquistandogli i dogmi della libertà, dell’uguaglianza, della fratellanza: l’epoca nuova è destinata a costituire l’umanità, il socialismo, non solo nelle sue applicazioni individuali, ma tra popolo e popolo». E la stessa Europa di «popoli liberi e indipendenti», la stessa federazione europea era collocata in quella prospettiva.
    Dicembre 1834. Eravamo all’indomani del fallimento a Lione del tentativo istituzionale che aveva visto affiancati i repubblicani de la Société des Droits de l’homme e i celebri operai setaioli, i canuts raccolti nelle associazioni mutualistiche: in aprile, sulle barricate di rue Transonian, dopo giorni di scontri furibondi e di carneficine, è stato ammainato l’ultimo stendardo della «insurrezione rossa».
    Più tardi, sedici anni dopo, all’indomani del fallimento del 1848, Mazzini tornerà a parlare di socialismo, di socialismo come tendenza delle rivoluzioni, rappresentato, nell’esperienza francese, da Ledru-Rollin. Ma senza più le illusioni di allora, senza più le aperture o le confidenze dell’animo.
    Esule a Marsiglia, nel periodo fervido di fondazione della «Giovine Italia» e più tardi a Berna della «Giovine Europa», Mazzini era entrato in contatto con l’organizzazione dell’estrema sinistra buonarrotiana e ne era stato inizialmente conquistato, o almeno affascinato. Fra «Giovine Italia» e Alta Vendita le relazioni erano state buone per qualche mese. Nei suoi primi scritti l’esule genovese aveva mostrato di apprezzare l’intento tendenzialmente egualitario dell’esperienza di Robespierre ed accennava ad una lotta per l’avvento della democrazia in Europa in termini di inevitabile antagonismo.
    Ma l’idillio era durato poco. L’influenza di un’altra forma di socialismo, a base quasi religiosa, era prevalsa nel giro di pochi mesi sulle simpatie pro-Buonarroti e pro-Babeuf. Già nel 1832 l’apostolo aveva dimenticato le leggi agrarie, si era sdegnato di fronte alle pretese «usurpazioni di proprietà», che considerava «violazioni inutili di facoltà individuali». Era affiorato, piuttosto, il filo conduttore di un pensiero politico in cerca di approdo, la necessità, per i progressisti italiani, di affrancarsi dalla tutela francese e di ricercare una propria via atta a strappare l’indipendenza e la libertà.
    Ben presto le effimere sette degli Apofasimeni e dei Veri Italiani, sorte per riconquistare gli ambienti democratici italiani all’intransigenza della centrale carbonara, furono vuotate e assorbite da Mazzini. Il Risorgimento acquisiva così i connotati del suo programma: l’idea italiana di una grande alleanza fra i produttori di chiara impronta sansimoniana, per cacciare lo straniero e realizzare una società più giusta.

    (...)
    Ultima modifica di Frescobaldi; 17-11-20 alle 22:56
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    Predefinito Re: Mazzini, socialismo e Risorgimento (1993)

    Mazzini era stato considerato da molti suoi contemporanei un socialista per il solo fatto di aver innestato sul tronco della lotta politica e italiana i suoi incontri e scontri con le dottrine egualitarie dei sansimoniani, dei fourieristi, dei proudhoniani.
    La concezione rivoluzionaria di Mazzini fu pre-politica e pre-sociale: attingendo alla componente religiosa, facendo leva su una radicale trasformazione delle coscienze, essa mirava ad inculcare nelle masse i valori di «destino», di «missione», di «dovere».
    La prospettiva sociale, accantonata provvisoriamente nella fase di costruzione politica dell’ordine nuovo, sarebbe riapparsa poco dopo, a vittoria conseguita, per plasmare il popolo in un’unità differenziata di funzioni produttive, ciascuna dotata dei suoi mezzi di produzione.
    «La parola operaio – scriveva l’apostolo nel 1842 – non ha per noi alcuna indicazione di classe nel significato comunemente annesso al vocabolo: non rappresenta inferiorità o superiorità sulla scala sociale: esprime un ramo d’occupazione speciale, un genere di lavoro, un’applicazione determinata dell’attività umana, una certa funzione nella società: non altro». E ancora: «le sole differenze che noi ammettiamo fra i membri di uno Stato sono le differenze d’educazione morale. Un giorno saremo tutti operai, cioè vivremo tutti sulla retribuzione dell’opera nostra in qualunque direzione s’eserciti. L’esistenza rappresenterà un lavoro compiuto».
    Questo per il domani. Il «presente», tuttavia, era «diverso». Esistevano in Italia due classi: «gli uni possessori esclusivamente degli elementi d’ogni lavoro, terre, credito, o capitali; gli altri, privi di tutto fuorché delle loro braccia».
    Di qui la teoria dei due tempi: l’opportunità, cioè di arrivare subito ad un rivolgimento politico in senso democratico e repubblicano, premessa per un’attenuazione successiva e graduale dello sfruttamento dei vasti ceti proletari, attraverso una legislazione riformatrice, funzionale all’instaurazione di una grande società di produttori.
    Per fugare ogni dubbio circa una pretesa forma di socialismo mazziniano, è sufficiente riflettere sul nodo concettuale di ogni socialismo: il problema dell’uguaglianza. Ebbene, Mazzini, che pure riconosceva agli individui una condizione di parità morale, si limitava a prendere atto delle ineguaglianze di fatto (in primo luogo di intelletto) connesse alla specificazione fisica, naturale di alcun soggetto. Di qui la persuasione che il sistema sociale non avesse il compito di mortificare le potenzialità intrinseche del cittadino, ma semplicemente di orientarle a vantaggio del pubblico. L’idea di dovere, l’intima adesione ad un superiore principio di bene collettivo, di umanità, avrebbe dovuto offrire alla sua Repubblica lo strumento per realizzare, nella libertà, questa spontanea convergenza di energie verso il fine sociale comune.
    La polemica fra Mazzini e i «sistemi» socialisti divampò all’indomani del fallimento del Quarantotto.
    Per sgomberare il campo da equivoci, Mazzini pensò ad un regolamento di conti ideologico all’interno della sinistra che avrebbe dovuto propiziare un processo di profonda revisione dottrinaria, volto al superamento dei deleteri frazionamenti e di tutte le contrapposizioni.
    «Fra i socialisti francesi e l’idea sociale – scriveva Mazzini nel 1852 -, corre lo stesso divario che tra la setta e la religione, tra la bandiera e un brano di bandiera».
    «Le riforme sorte devono discutersi e compirsi per voto libero dell’intera nazione. L’associazione vive di libertà; è debito di un governo promuoverla e aiutarla; è follia e colpa imporla. Qualunque sistema miri ad impiantarla subitamente, universalmente, per via di decreti, viola la santità dei diritti dell’individuo, senza il quale può fondarsi tirannide, non già associazione. Le tendenze veramente repubblicane degli italiani stanno mallevadrici contro sì fatto pericolo».
    Ecco delineata la differenza fra il socialismo «sistema» e il socialismo «tendenza». Il primo mirava ad incidere, anche per via coercitiva, sulla struttura di classe, ritenuta il fondamentale problema dell’epoca, secondo la schematica applicazione di un principio egualitario di sapore dottrinario e scolastico; il secondo si identificava con la percezione dell’urgenza della questione sociale, risolta tuttavia in un approccio più vasto e generale della revisione della vita morale e istituzionale di una nazione, secondo l’orientamento propugnato dal movimento democratico e repubblicano.
    È noto l’equivoco dell’Internazionale, alla cui costituzione e ai cui primi passi contribuì non poco il Mazzini, che fu anzi l’autore del primo manifesto della nuova Associazione, fondata a Londra nel settembre del ’64. Quel manifesto infatti per quanto approvato dalla gran maggioranza del consiglio composto di vecchi rivoluzionari del ’48 e di tradizionalisti inglesi, fu poi manipolato, mutilato e addirittura sfigurato dal Marx prima della sua pubblicazione, al fine di svuotarlo di tutte quelle frasi e accenni che il pensatore tedesco riteneva residui di socialismo utopistico e incrostazioni di mentalità piccolo borghese, umanitaria e progressistica, e comunque ostacoli all’affermazione della sua teoria della lotta delle classi e della sua concezione del materialismo storico.
    Il contrasto, così aspro, fra Marx e Mazzini toccherà allora il suo acme. E condizionerà la storia del movimento operaio in Italia. L’Internazionale dei lavoratori voluta da Mazzini era inquadrata nei congiunti principi di patria e di umanità: entrambi respinti da quello stesso Marx, che Mazzini definirà più tardi «uomo d’ingegno acuto ma dissolvente, di tempra dominatrice, geloso dell’altrui influenza, senza forti credenze filosofiche e religiose e temo con più elemento d’ira, s’anche giusta, che d’amore nel cuore».
    Mazzini, che non fu «socialista», pur avendo convissuto sempre col socialismo, che si ispirò a un’idea religiosa della democrazia, intuì i pericoli del rivendicazionismo esclusivista della sinistra di classe, associandolo, nella denuncia dei rischi morali intrinseci ai «sistemi», all’altra grande ideologia del conflitto: il liberalismo. Due facce della stessa medaglia, l’individualismo materialista e il collettivismo materialista: due volti contraddittori di una società moderna in via di industrializzazione ma percorsa da spinte egoistiche.
    Dieci anni dopo la nascita dello Stato italiano, il destino dividerà Mazzini e Garibaldi proprio su quel terreno. Il generale delle camicie rosse è in favore della Comune, dell’esperienza socialista, va a combattere con i francesi per la Repubblica francese. Mazzini arretra sgomento di fronte alle scelte della Comune parigina e a quella che è la prima esperienza di comunismo che egli giudica legata al socialismo, ma contraddittoria al suo ideale di redenzione umana non classista e non internazionalista.
    La risposta di Garibaldi sarà il «sol dell’avvenire». La risposta di Mazzini saranno i «patti di fratellanza» concepiti come lo strumento di una grande forza sindacale nazionale: qualcosa di simile all’esperienza fabiana in Inghilterra. Un fabianesimo che resterà sempre estremamente minoritario.
    Non a caso Salvemini parlerà di «tendenza cooperativista o gildista» come peculiare dell’associazionismo mazziniano: il sogno inglese, che non diventerà mai italiano.

    (...)
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    Predefinito Re: Mazzini, socialismo e Risorgimento (1993)

    II. IDEA DEMOCRATICA E FORZE LIBERALI NELL’ITALIA DAL 1831 AL 1846

    È il testo della prolusione al 56° congresso di studi dell’Istituto nazionale per la storia del Risorgimento, dedicato a «L’Italia fra rivoluzione e riforme, fra il 1831 al 1846».

    Quando Emilia Morelli, cui mi lega una ultraquarantennale amicizia e una lunga comunanza di lavoro e di idealità, mi invitò a tenere la prolusione a questo congresso nazionale, il 56° dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, più di un anno fa, la mia risposta fu solcata da una vena di pessimismo e di amarezza.
    «Spero che le difficili condizioni del paese mi consentano – scrissi pressappoco allora – di tenere fede all’impegno, ma avverto fin d’ora con assoluta chiarezza che la profondità della crisi nazionale (si tratta del giugno-luglio 1991) in atto è destinata ad aggravarsi». Non era una previsione difficile. Ma ancora in parecchi momenti delle ultime settimane ho avuto l’incertezza di potere essere oggi fra voi per la mole degli impegni parlamentari e politici tanto più caotici quanto più imprevedibili.
    Considero una vera fortuna l’aver potuto tenere fede all’impegno: una fortuna che mi consente di essere qui in questa bellissima città e ringrazio in modo particolare il sindaco delle parole toccanti che mi ha rivolto.
    Un invito che in primo luogo mi ringiovanisce, riportandomi ad alcuni decenni addietro nei primissimi congressi nazionali di Storia del Risorgimento che seguirono alla Liberazione e alle grandi speranze poi in parte svanite e poi in parte smentite, di quegli anni.
    Rivedo ombre familiari e ombre di amici che il tempo ci ha sottratto. Ripenso ad alcuni degli assidui di quei congressi degli anni ’50, cui sono stato legato da una speciale amicizia e in due nomi vorrei riassumere la stessa fede nell’Italia e nella libertà, Luigi Salvatorelli e Arturo Carlo Jemolo.
    E rivolgo un pensiero sempre caro e memore a chi fu l’ispiratore delle fortune post-belliche dell’istituto, a colui che seppe rilanciarlo nel vivo della polemica storiografica e culturale, l’amico Alberto Maria Ghisalberti, maestro di Emilia Morelli, e a tutti noi caro.
    Un saluto affettuoso rivolgo ai giovani studiosi italiani qui presenti, una parte dei quali usciti anche dalle stesse stanze del «Cesare Alfieri» nelle quali ho occupato una cattedra essa stessa ultraquarantennale.
    E oggi tanti solchi sono colmati rispetto ai divari ideologici o politici dell’immediato dopoguerra. E oggi che le divaricazioni e le contrapposizioni non sono più quelle di una volta, noi avvertiamo perfino la nostalgia di certe lotte e di certe fazioni che hanno accompagnato questi decenni.
    Ma su tutto domina in questo momento la preoccupazione, per alcuni di noi angosciosa, la preoccupazione per il sentimento dell’unità nazionale che noi sentiamo affievolirsi giorno dietro giorno, perfino attaccato in Parlamento e nel paese da forze che puntano a smembrare il nesso nazionale, a rimettere in discussione la nostra stessa legittimità di nazione e di Stato.
    Questo convegno è dedicato a un momento decisivo della formazione dell’idea nazionale: «L’Italia fra rivoluzione e riforme, fra il 1831 e il 1846». Siamo fra la nascita del mazzinianesimo e l’improvviso irrompere del neoguelfismo nell’Italia del nuovo Papa Pio IX. Siamo fra l’insorgere dell’idea di democrazia – la democrazia religiosa che si contrappone al socialismo – e il recupero dell’eredità storica dell’Italia che porta tutte le visioni o previsioni del liberalismo moderato, inclusa la grande e generosa illusione neoguelfa.
    L’Italia che non è mai esistita come Stato sorge attraverso una formula che già conturbava i miei sogni di adolescente, la formula del Risorgimento. Rinascita di qualcosa che era già esistito, il risorgere di un nesso nazionale spezzato. Singolarissimo caso del nostro paese: un paese che sorge risorgendo, un paese che si afferma come unità nazionale per la prima volta, ma si considera figlio di sei secoli, di comunanza di lingua, di cultura e di civiltà, non tradotti in nessuna forma di nesso statuale, nel momento in cui si formavano le grandi nazioni dell’Occidente. I sei secoli partiti dall’età dei Comuni e dal volgare di Dante. I sei secoli che puntano sull’unità linguistica che viene conseguita contemporaneamente sui due versanti della civiltà laica e della civiltà religiosa, da Dante e da San Francesco.
    Un’idea dell’Italia che affrancherà per sempre il nostro Risorgimento da ogni sottinteso razzistico o nazionalistico, in senso biologico, che identificherà l’idea dell’Italia con l’unità dell’Italia e di riflesso l’idea dell’Europa con l’unità dell’Europa.

    (...)
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    Predefinito Re: Mazzini, socialismo e Risorgimento (1993)

    1. Il mazzinianesimo

    Siamo ancora come sempre davanti a Mazzini, il grande Mazzini che si staglia sullo sfondo della svolta del 1830-1831.
    Quella svolta decisiva per la formazione del programma nazionale dell’Italia, non fu sentita nello stesso modo né dai contemporanei né dagli storici. A taluni (penso al Thureau-Dangin) apparve come un «colpo di sole», capace di confondere gli spiriti e di rinsaldare la Santa Alleanza. Altri studiosi del fronte conservatore la videro come un deplorevole incidente, dovuto alla sconsideratezza di Carlo X e di Polignac: quasi un incidente di percorso sulla via della restaurazione, destinata a durare fino al 1848, all’anno delle «tempeste magnifiche».
    Solo Benedetto Croce, fra i grandi spiriti del mondo contemporaneo, ha visto in quei mesi, nello stesso avvento della monarchia di luglio, nel moto dell’indipendenza belga, nei moti pur falliti dell’Italia centrale, una tappa essenziale nella vittoria del liberalismo sull’assolutismo, momento culminante di una battaglia mondiale, apoteosi morale dell’eterna libertà.
    «Progressi del moto liberale e primi contrasti con il democraticismo sociale (1830-1848)»: è il titolo, ancora splendido e verifico, del capitolo quinto dell’opera di Croce, La storia dell’Europa nel secolo XIX. Un titolo che equivale al nostro: La crisi delle ideologie dopo il 1830-1831[1].
    «Una grossa battaglia vinta, ma non una guerra terminata, - sono parole di Croce – non dandosi mai nella vita morale guerre propriamente terminate. Ripigliarono l’azione loro i liberali con impetuosa fiducia, e corsero ai ripari gli assolutisti con lo schierare in campo forze ancora intatte, con accorgimenti e astuzie consigliate dai casi. Le proporzioni reciproche non erano più quelle di prima, né tra le due parti né nel rapporto loro con le altre; e lo sforzo intrapreso dall’assolutismo nel 1815 per assidersi nel mondo europeo e riplasmarlo secondo i suoi concetti, se fin da principio era stato non tanto un’offensiva sicura di sé quanto una difensiva, ora restringeva di molto il suo ambito, sicché si poté parlare del ‘fallimento della Santa Alleanza’; e, per contro il liberalismo otteneva non pochi vantaggi e prendeva sempre più il carattere di offensiva: mentre, d’altra parte, nei vari assetti liberali che si erano formati, si affacciavano problemi e contrasti di diversa natura»[2].
    L’idea di democrazia, di democrazia religiosa, appare con Giuseppe Mazzini. È una scelta in primo luogo morale. «Il Mazzini – è ancora Croce che parla – vide che c’è qualcosa di più fondamentale che non sia la politica maneggiata dagli uomini di stato, ha qualcosa che deve farsi quando non si può far questa, né prima di far questa; ed è di svegliare nell’uomo il sentimento dell’universale, l’ideale, e con esso la coscienza della missione che a ciascuno è assegnata, e del dovere che ne sorge, e della dedizione di tutto se stesso a questo dovere, che potenzia le forze e rende possibile quel che agli uomini di poca fede sembra impossibile. Perciò contro l’antiquata Carboneria, ancora qua e là sopravvivente in Italia e alla quale egli stesso era appartenuto, usa ai calcoli politici e alla ricerca degli espedienti, contro gl’invecchiamenti in quelle idee e in quegli abiti, fondò nel ’32 la Giovine Italia, che risaliva alle fonti religiose del carattere virile e combattente»[3]. Fin qui Croce.
    «Giovine Italia». Già il nome da solo basta ad evocare la distanza enorme che separa il movimento di Mazzini balenato in quel carcere savonese, prima della scelta consapevole della via dell’esilio, in alternativa al domicilio coatto, dalle angustie della cospirazione carbonara (un abito troppo stretto per Mazzini), dal viluppo e dall’intrico delle sette, in cui si era mosso per pochi anni, e con crescente disagio.
    I vecchi schemi, falliti alla prova, non bastano più. «Coi moti italiani del 1831 – scrive Mazzini nel ‘manifesto della Giovine Italia’ – s’è consumato il divorzio fra la giovine Italia e gli uomini del passato». Occorrono nuove soluzioni, nuove idee.
    Giunto a Marsiglia dopo la breve sosta a Ginevra e quello che il mio amico Galante Garrone ha definito «il vano accorrere» prima a Lione e poi in Corsica, in vista di una spedizione insurrezionale presto fallita, Mazzini si pone all’opera con l’alacrità di un riformatore religioso molto più che di un capo politico. La forza d’espansione della «Giovine Italia» all’inizio ha dello straordinario. Costituita nel giugno del 1831, il mese successivo aveva già una prima consistenza organizzativa, embrione di ciò che sarebbe presto diventato il primo partito politico italiano in senso moderno.
    Partito di «quadri», certamente, com’è stato osservato, ma pur sempre partito, con una rete organizzativa capillare, con un sistema meticoloso di iscrizioni e di finanziamenti, un’opera intensa di propaganda, di proselitismo, di «apostolato», come si diceva nel linguaggio del tempo, carico di tese motivazioni etiche e civili. E soprattutto con un programma politico ben definito, contente in nuce tutti i capisaldi del pensiero e dell’azione del grande ligure.
    Primo. La «Giovine Italia è la fratellanza degli italiani credenti in una legge di progresso e di dovere», recita il primo paragrafo. Dove il concetto di dovere già si affianca a quello di progresso, nella indeclinabile convinzione che nessun progresso sia possibile senza un profondo sentimento dei doveri verso la comunità nazionale e per quella via verso l’umanità intera.
    Secondo. La Giovine Italia «è associazione tendente soprattutto a scopo di insurrezione, ma essenzialmente educatrice fino a quel giorno e dopo quel giorno». Educazione contestuale all’azione; la «rivoluzione incivilitrice», in cui brillava un po’ di Saint-Simon e anche una scheggia di Buonarroti.
    Terzo. La Giovine Italia è «repubblicana e unitaria». Repubblica e unità: un binomio inscindibile nel disegno di Mazzini, che prenderà forma secondo tempi e modalità, ben diversi da quelli prefigurati dal grande rivoluzionario, ma con uno sbocco finale – dal primo al secondo Risorgimento – che riporterà a quella intuizione anticipatrice.
    «Pensare e operare, la vita è dovere, il dovere è sacrifizio»: l’etica del mazzinianesimo, la sua «mirabile coerenza», apparirà a Francesco De Sanctis come un’autentica rivoluzione nel costume italiano. «Mazzini possedeva la fede che muove le montagne. Mazzini fu un mistico. Ma sono i mistici e non gli scettici, che muovono il mondo». Sono alcuni dei bellissimi frammenti di argomento mazziniano che Alessandro Galante Garrone ha raccolto in un volume di inediti di Salvemini (Fra Mazzini e Salvemini è appunto il titolo), a lui tutti donati[4].
    Mi ricordo un giudizio che Salvemini dette di Mazzini all’Università di Firenze a fine novembre 1949 quando tenne la prima lezione post-liberazione nella vecchia facoltà di Lettere in piazza S. Marco. «Mazzini non fu né un uomo di Stato né un filosofo. Fu un mistico. Chiunque vive non per se stesso ma per gli altri è un mistico anche se è un ateo». Ed è da domandarsi poi se l’applicazione di ateo sia esatta per Mazzini.
    Per riprendere un’immagine di De Sanctis, Mazzini fu il Mosè dell’unità, colui che, al pari di Mosè «intravide la terra promessa, ma non c’entrò lui, c’entrò Giosuè» (cioè la Monarchia piemontese).
    Il primo e più pericoloso idolo da abbattere, agli occhi dell’esule genovese, in quegli anni fra il 1830 e il 1834, era rappresentato dal federalismo. Il profilo di questo sistema, secondo Mazzini, era avvolto da una fitta coltre di equivoci e di aporie interpretative, frutto di «una strana confusione d’idee e di vocaboli».
    Federalisti, ad esempio, erano chiamati negli Stati Uniti i democratici centralizzatori, come Hamilton, che intendevano rafforzare le facoltà del potere centrale (federale, appunto) a scapito di quello dei singoli Stati membri; mentre in Italia, nell’Italia «serva» della Restaurazione, il termine poteva quasi essere assimilato ad una traduzione in termini politici del dissolvente individualismo privato e pubblico delle tante élites dirigenti, delle centinaia di agguerrite consorterie comunali, tutte intente al perseguimento ossessivo del particulare guicciardiniano.
    Un federalismo che si nutriva, dunque, «di tutte quelle gelosie, gare e vanità di città, di province, di municipii, passioncelle abiette e meschine che brulica (vano) nella Penisola, come vermi nel cadavere d’un generoso, che cinquecento anni di debolezza e cinquanta di predicazione non (avevano) potuto spegnere, e che la grande esplosione rivoluzionaria (avrebbe potuto) sola sperdere nella manifestazione dell’unità nazionale»[5].
    Se il vero federalismo, quello moderno e democratico, rappresentava, agli occhi dell’Apostolo, la risposta unitaria alla «debolezza» dei singoli Stati disposti ad abdicare, in parte, alla rispettiva sovranità pur di «proteggere e tutelare la indipendenza di ciascuno colle forze di tutti»[6]; se il nodo della questione consisteva comunque nella «forza» di un’Italia risorta, allora continuava Mazzini, perché soffermarsi sull’unità «debole» sancita da un artificioso vincolo confederale e rigettare come utopistica l’unità «forte» ispirata dal «principio nazionale»?
    La crisi dell’iniziativa rivoluzionaria francese, testimoniata dalla consacrazione della teoria del non intervento a cardine della politica estera orleanista e dalla dissoluzione del fronte repubblicano-democratico, protagonista delle Trois Glorieuses, nelle carneficine della città vecchia di Lione, nell’aprile 1834, indurrà i rivoluzionari italiani ad un drastico e profondo aggiornamento di idee e di programmi.
    «Guardiamo dunque all’Italia», incalzava Mazzini, «non all’America o a Sparta. Non abbiamo noi intelletto nostro e basi di giudizio e fatti presenti, perché si debba da noi statuire a criterio, a principio politico un esempio straniero, o spettante al passato? Un fatto è il prodotto delle mille cagioni, dei mille fenomeni che s’incontrano in un dato periodo, in un dato paese; e quei fenomeni e quelle cagioni s’incontreranno identici sempre, perché s’abbia a volerne la conseguenza che ne fu tratta altrove?»[7].
    Un senso romantico della storia, l’intuizione sicura dell’irreperibilità e dell’incomprimibile individualità della sequenza degli eventi, dell’identità dei popoli, dei destini delle nazioni guidavano Mazzini nella demolizione iconoclastica del totem francese: quell’articolo di fede che voleva la libertà e l’indipendenza delle patrie dispensata provvidamente dalla ciclica benevolenza della Grande Nation, prima ed unica depositaria, presso il genere umano, delle virtù prometeiche racchiuse dal sacro fuoco dell’emancipazione.
    Il segreto della «Giovine Italia», la prima organizzazione politica moderna nel nostro Ottocento, sta tutto in questo cambiamento di prospettiva concettuale, nella «rivoluzione copernicana» compiuta coraggiosamente da Giuseppe Mazzini contro le resistenze delle varie centrali buonarrotiane e carbonare svizzere e francesi[8]; contro le pervicaci resistenze dei tanti Armodi e Aristogitoni da operetta circolanti per la penisola, tanto determinati a parole, tanto generosi di pose gladiatorie, quanto devoti al culto grettamente signorile e paternalistico e notabilare della politica municipale; infine contro i meccanismi antirevisionistici della Restaurazione, predisposti dai despoti del continente a tutela di un’Europa «morente».
    «L’iniziativa è smarrita in Europa»[9], affermava ancora, nel 1834, mentre lavorava, dalla Svizzera, alla creazione di una rete di organizzazioni democratiche in Polonia e in Germania, là dove era conculcato il principio della libera nazionalità.
    La «Giovine Europa» rappresenterà l’antidoto ai suoi occhi più efficace per neutralizzare l’appannamento e il declino del primato francese: la dislocazione dell’iniziativa rivoluzionaria, appunto, dal cuore «sviluppato» dal continente, la ville lumière testimone dei fasti popolari del 1789, alla «periferia» rurale dei grandi Imperi monocratici.
    Ed ecco perché egli sceglierà per la «Giovine Europa» tre paesi non costituiti a unità ancora di Stato o di nazione. La Germania con i suoi trentanove Stati, residuati dal congresso di Vienna, quattrocento Stati ai tempi di Napoleone, questo per dire a chi paragona l’Italia alla Germania, come siano diverse le radici storiche di un federalismo che ha visto quattrocento Stati ancora nell’Europa pre-napoleonica, l’Italia con i suoi otto Stati e la Polonia divisa fra austriaci, prussiani e russi. Quindi tre paesi, che diventavano simboli di un’unità nazionale da riconquistare e di una unità europea da realizzare congiuntamente all’unità nazionale.
    Mazzini, d’altronde, non si limitava alla pura evocazione di una lotta per l’emancipazione nazionale: fin dal programma della «Giovine Italia», egli aveva teso a connettere la questione della rivoluzione patriottica con le istituzioni di uno Stato libero, fondato sul consenso popolare: la repubblica, l’associazione, l’etica del dovere e del lavoro.
    Il tema nazionale, in Interessi e principii (1835)[10], si perdeva addirittura in un più generale «problema d’educazione», nel cui ambito l’impulso generoso all’azione, la dedizione alla «giusta causa», divenivano spie di una vera metanoia collettiva, dove il dovere, il sacrificio compiuto gratuitamente per la collettività finiva per prevalere sull’individualismo gretto, materialistico e meschino dell’egoismo particolaristico italiano, sempre latente sotto la vernice smagliante e moralmente presentabile delle nuove teoriche dei diritti.
    Resta da capire quanto del ricco programma mazziniano, sintetizzato per la prima volta in Fede e Avvenire (1835)[11], avesse finito per persuadere gli affiliati alla «Giovine Italia»: se, cioè, dietro l’ariete dell’iniziativa nazionale italiana, a far breccia nelle coscienze dell’«esercito» democratico fossero state pure le soluzioni che il giovane e brillante esule aveva elaborato in tema di «questione sociale» (vagheggiando una grande società di produttori, di stampo sansimoniano) o di «questione religiosa» (improntata ad un romantico culto dell’umanità a sfondo evangelico).
    Il problema, tutto da risolvere, implica una valutazione attenta delle forze repubblicane in Italia a partire dal 1831, ed il successivo periplo politico di questa «prima leva» democratica: un compito non facile, data la penuria e la scarsa affidabilità delle fonti disponibili, che Franco Della Peruta[12], soprattutto per ciò che riguarda il «censimento» dei primi mazziniani, ha assolto con ottimi risultati. Più debole e incerto, per quanto improntato ad un modello interpretativo nuovo e stimolante, quello della biografia collettiva di un campione rappresentativo di leaders rivoluzionari del Risorgimento, appare invece lo studio di Clara Lovett[13]: l’unico, tuttavia, che abbia finora puntato ad un’analisi su vasta scala dell’evoluzione politica e ideologica di un’intera classe dirigente.
    Quanti erano, chi erano, dunque, gli uomini della «Giovine Italia», i borghesi, gli artigiani, gli studenti raccolti un po’ ovunque, in Italia, intorno al programma mazziniano? È d’obbligo partire dalle due realtà regionali in cui diretti erano stati il magistero e l’azione dell’Apostolo: la Liguria e la Toscana.
    A Genova agiva il nucleo storico della democrazia repubblicana, organizzato dai fratelli Ruffini; vi erano confluiti alcuni «ignoti», «giovani assai e senza mezzi di fortuna» e molti operai del porto.
    A Livorno, grazie a Guerrazzi e a Bini, e a Siena, mercé la propaganda del Marmocchi, dovevano esistere società discretamente numerose, per quanto non così capillarmente diffuse come Mazzini, nel suo inguaribile ottimismo, era disposto a credere.
    Nelle Legazioni pontificie i contatti erano numerosi ma intermittenti e soggetti al controllo attento degli austriaci: Tipaldo de’ Pretenderi, ex apofasimeno, a Bologna e Agostino Rossi a Forlì, presto punto di riferimento per quel cospicuo schieramento radicale frustrato dall’insuccesso della rivoluzione «gentile» e «riformista» del 1831-1832.
    Se questi erano stati i primissimi circoli, è probabile che l’unico davvero «popolare», con decine, forse centinaia di affiliati, fosse quello genovese; e, non a caso, fra il 1832 ed il 1834, Mazzini aveva dedicato ogni sua energia alla sollecitazione di una trama eversiva in tutto il Regno di Sardegna, preludio all’immancabile e certo successo dell’insurrezione.
    Se a Genova e in Lunigiana la «congrega» repubblicana appariva forte, ben coesa dal punto di vista ideologico, radicata anche nel tessuto sociale più povero, quello dei lavoratori del mare, a Torino, a Vercelli, ad Alessandria Mazzini era stato costretto a riunire le schegge sparse dall’antico universo carbonaro, ponendosi come mediatore, sollecitatore d’un nuovo, eclettico programma: per questo, commentava con una punta d’amarezza nell’aprile del 1833, «in Piemonte (vi erano) molti elementi, ma (anche) molte divisioni»[14].
    Alessandria, in particolare, già centro dei moti del 1821, pareva aver accolto con particolare entusiasmo il nuovo verbo democratico: l’opera di proselitismo compiuta fra le «classi medie» aveva soddisfatto gli emissari mazziniani, disposti a sacrificare qualcosa del programma sociale pur di ottenere il consenso del ceto militare, indispensabile al successo di un eventuale moto insurrezionale.
    Nel Canavese, quindi, la «Giovine Italia», inglobando un’antica associazione apofasimena, era riuscita ad assumere un profilo nettamente popolare; per il resto, l’iniziativa rivoluzionaria, in Piemonte, restava saldamente in mano alle frange più illuminate della borghesia, talvolta affiancate da alcuni gruppi del clero progressista (come d’altronde testimonia la biografia esemplare del giovane Gioberti).
    In Lombardia, secondo la felice espressione di Franco Della Peruta, la Giovine Italia presentava una rete «a larghe maglie»: a parte Milano e la zona d’Iseo, dove operava un giovanissimo Gabriele Rosa, la «congrega» mostrava vistosi vuoti del Comasco, nel Varesotto, nel Lodigiano, nel Cremasco.
    Migliore la situazione a Cremona, Mantova e Pavia, collegate con Genova, almeno in un primo tempo, grazie all’attività del piacentino Ferdinando Grillenzoni.
    Scarsi i contatti nei Ducati della futura Emilia, rarissimi i corrispondenti esterni all’area padana e toscana: questa, in estrema sintesi, la «geografia» dell’organizzazione prima della feroce repressione scatenata da Carlo Alberto nella primavera del 1833. Difficile dire se si trattasse di qualche centinaio di federati o se, in alcune zone particolari, là dove era riuscito a Mazzini l’innesto sul tronco di un vivace e preesistente movimento sociale di matrice popolare (si pensi alla Liguria), gli affiliati effettivi dovessero essere computati nell’ordine di qualche migliaio: quel che appare evidente è la rapida dissoluzione dell’apparato sovversivo all’indomani dell’intervento poliziesco e della drammatica conclusione della spedizione in Savoia (febbraio 1834).
    Dalla Svizzera, per alcuni anni, egli si sarebbe dedicato ad impiantare una centrale democratica europea, mentre le notizie italiane confermavano l’accanimento con cui i primi nuclei repubblicani erano perseguitati, snidati e repressi dalle polizie austriaca e piemontese.
    Dopo aver ceduto ai pressanti inviti imperiali, anche nella Confederazione Elvetica si ridussero drasticamente gli spazi per la sua libera attività di pubblicista politico, Mazzini conobbe la «tempesta del dubbio»: una grave forma di depressione, legata alla crisi della sua organizzazione, alla morte violenta dei suoi amici migliori, all’«esaurimento dei mezzi materiali», all’apparente illanguidimento dei princìpi democratici.
    Poche sono le tracce coeve di questa profonda malattia morale, che lo stesso Apostolo elevò, forse enfatizzandola[15], al ruolo di ideale spartiacque fra le due fasi centrali della sua attività di uomo politico: da un lato, la vicenda della prima «Giovine Italia», indimenticabile esperienza giovanile, dall’altro, l’opera di revisione teorico-organizzativa compiuta in Gran Bretagna a partire dai primi mesi del 1837, l’incontro con la grande tradizione del romanticismo europeo, il diretto contatto con il nascente proletariato di fabbrica.
    E naturalmente attraverso lo studio che io ho compiuto nelle varie città italiane arriviamo al momento in cui sorge la seconda «Giovine Italia», quella che Mazzini avrebbe voluto coordinare da Londra, riprendendo il capo del filo rosso reciso nel 1833-1834, e che faticò ad affermarsi in un clima politico ampiamente mutato. Se, infatti, nel 1831, l’Apostolo era stato il primo ad alzare il vessillo dell’indipendenza nazionale, nel volgere di pochi anni, tanto negli ambienti liberali più ricettivi, quanto presso i raggruppamenti sovversivi abbandonati, costretti all’isolamento dopo le feroci persecuzioni contro i capi della «congrega», i semi del patriottismo avevano rapidamente fruttificato.
    Il Mezzogiorno, in particolare, a partire dalla seconda metà degli anni trenta, si era aperto alla propaganda del liberalismo democratico, come dimostrava l’intensa opera di proselitismo avviata da Nicola Fabrizi, esule a Malta, tramite la legione Italia: la Sicilia, la Calabria ed il Napoletano raccoglievano ormai numerosi nuclei settari, in perenne attesa del giorno dell’insurrezione.
    Lo stesso serrato confronto ideologico che, verso il 1839-1840, oppose Mazzini a Fabrizi non verteva più, come ci si sarebbe potuto aspettare ai tempi della prima «Giovine Italia», sulla globalità del programma repubblicano, ma sulla specifica questione del modo attraverso cui guadagnare la libertà e l’indipendenza.
    La questione consisteva ormai tutta nel come dar voce alla nazione: i corollari ideologici del mazzinianesimo (forma di governo, organizzazione dello Stato, etica pubblica, religione dell’umanità) erano stati scorporati dall’assunto principale affermato dall’apostolo: la legittimità dell’iniziativa italiana.
    La differenza fra il 1831 e il 1840 risiedeva, dunque, nella dolorosa e nuova necessità, per Mazzini, di scindere la lotta per la nazionalità dal principio repubblicano, momentaneamente subordinato al conseguimento del grande obiettivo dell’Italia unita e indipendente. Se nel 1831 l’unità era solo mazziniana, nel 1840 poteva essere anche radicale, democratica, liberale progressista: la crisi del 1833-1834 aveva dunque impedito all’Apostolo – quella che poi si prolungò nella tempesta del dubbio – di mantenere il monopolio morale e politico della questione nazionale. La quale questione nazionale si estendeva quindi, sia pure dietro la fondamentale e, nel 1830-1831, prevalente sollecitazione, al versante del liberalismo moderato.

    (...)


    [1] B. CROCE, Storia d’Europa nel secolo decimonono, quinta ediz. riveduta, Bari, 1942, pp. 107 sgg.

    [2] Ibidem, pp. 107-108.

    [3] Ibidem, p. 119.

    [4] A. GALANTE GARRONE, Salvemini e Mazzini, Messina-Firenze, 1981.

    [5] G. MAZZINI, Dell’Unità italiana (1833), in ID., Scritti editi e inediti (d’ora in poi, S.e.i.), III, Daelli, Milano, 1872, p. 194.

    [6] Ibidem, p. 202.

    [7] Ibidem, pp. 210-211.

    [8] Cfr., su questo tema, è fondamentale A. GALANTE GARRONE, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell’Ottocento (1828-1837), Einaudi, Torino, 1951.

    [9] G. MAZZINI, Dell’iniziativa rivoluzionaria in Europa (1834), in S.e.i., IV, Daelli, Milano 1837, p. 63.

    [10] In S.e.i., IV, cit., pp. 100-112.

    [11] In S.e.i., IV, cit., pp. 132-195.

    [12] F. DELLA PERUTA, Mazzini e i rivoluzionari italiani. Il «partito d’azione» 1830-1845, Feltrinelli, Milano, 1974.

    [13] C. M. LOVETT, The Democratic Movement in Italy, 1830-1876, Harvard U. P., Cambridge (Mass.), 1982.

    [14] Cit. in F. DELLA PERUTA, op. cit., p. 102.

    [15] Cfr. G. MAZZINI, Ricordi autobiografici, con proemio di G. Gentile, Galeati, Imola, 1938, pp. 248 sgg.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

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    Predefinito Re: Mazzini, socialismo e Risorgimento (1993)

    2. Il liberalismo moderato

    Accanto al mazzinianesimo il liberalismo moderato: cioè il riformismo graduale inserito negli ordinamenti precedenti. Penso al gruppo fiorentino di Vieusseux, di Capponi, dell’«Antologia». Certo il più esemplare fra i gruppi del liberalismo moderato destinati a superare gli anni ’30 e a non chiudersi nell’esperienza del ’20-’21 come il «Conciliatore» di Milano e come le esperienze del proto-liberalismo lombardo e piemontese.
    Il piano politico di Vieusseux e degli altri moderati illuminati – preservato per qualche anno fino al ’33 dalle eccezionali condizioni di Firenze e della Toscana – coincideva con la tenace richiesta di una serie di riforme all’interno dei vari Stati italiani e successivamente di una confederazione, che ne rendesse più spediti i rapporti, fino a far cadere le barriere divisorie fra gli uni e gli altri.
    Nulla, nel Vieusseux e i suoi amici, dell’ideale unitario, che sarà proprio della scuola democratica, salva l’affermazione di Gino Capponi, il grande protettore dell’«Antologia», di un principio culturale di unificazione nazionale che pure porterà a dissentire dalla scelta di Roma capitale. E nulla di quel liberalismo radicale che distinguerà, per esempio, la Lombardia di Cattaneo e di Ferrari.
    La fede nel «mite e paterno» governo dei Lorena dura fino e oltre il 1848. La sfiducia nei metodi rivoluzionari permane assoluta, anche dopo le delusioni reazionarie del ’49. L’ideale è rappresentato da una forma di statuto, da un complesso di garanzie costituzionali, tali da consentire una feconda collaborazione fra il principe e il popolo, attraverso una classe di notabili, sagace ed avveduta mediatrice, filtro fra la cultura e il potere.
    Non è improprio parlare, per il gruppo toscano, di un liberalismo empirico e insieme progressivo. Lo testimonia l’interesse con cui la stessa «Antologia» segue i tentativi di rinnovamento e di avanzamento in Europa, anche rivoluzionari. Qui abbiamo veramente un incontro fra l’europeismo democratico che si organizza a Berna nel ’34 e questi filoni di europeismo culturale della corrente diciamo così moderata, che rompono il provincialismo della cultura italiana, che lanciano rapporti in tutta Europa. Pensate che l’«Antologia» è nata addirittura il primo anno come traduzione di articoli della stampa inglese, francese, tedesca e svizzera, ed è diventata rivista autonoma della cultura italiana nel secondo anno proprio per l’influenza determinante di Capponi, nella volontà di rompere l’isolamento dell’Italia, di gettare il ponte fra Italia ed Europa, di imprimere al movimento nazionale un carattere europeo ed europeista che è quello che lo accompagnerà per tutta la sua storia.
    Dalla Grecia alla Francia, al Belgio, alla Polonia, all’Italia centrale, alle tante contrade d’Europa percorse dalla ventata rivoluzionaria del 1830-31. Vi basti pensare all’atteggiamento filo-ellenico che ebbe l’«Antologia» e alla sua morte, la soppressione del 1833 che derivò dall’atteggiamento di aperta simpatia per i moti polacchi del ’33 stesso, che furono quelli che indussero il rappresentante della Russia a Firenze a porre fine ai richiami e a determinare sul pavido sovrano il «no» da cui non si riprese mai Vieusseux, alla vita della rivista.
    Un serie di rivoluzioni, o di tentate rivoluzioni, o di mancate rivoluzioni, seguite con entusiasmo e partecipazione trepida dagli amici dell’«Antologia», inquadrato come tentativo di rinnovamento, di avanzata, di progresso. Anche se gli effetti saranno tuttavia diversi rispetto al «miracolo greco» culminato nell’indipendenza nazionale e i tempi per i rivolgimenti – specie in Italia – si allungheranno in prospettive, in apparenza, remote.
    Ma i sospetti intorno alla rivista si accrescono. Si accentuano i rigori della repressione. La morsa della reazione si stringe, e anche nella «benemerita Toscana», come l’aveva definita Colletta, il clima di tolleranza si attenua e l’ansia di concordia si affievolisce. Per le idee, non meno che per le persone.
    È il clima, fra 1831 e 1833, dominato dalla scure della censura che interviene con sempre maggiore frequenza nelle pagine dell’«Antologia», anche per le pressioni che giungono dall’esterno, che si intrecciano ai richiami di fuorivia. Si pensi ai serrati attacchi del foglio gesuita modenese, «La Voce della verità», o alle note di protesta di Austria e Russia determinanti nella definitiva soppressione della testata.
    Nonostante la violenta e forzata soppressione della testata, quegli uomini non rinunceranno ai propri princìpi di fede nel progresso, nell’avanzamento sociale e civile, nelle graduali conquiste e nelle progressive riforme.
    Tutto sarà più difficile. Nonostante le mai sopite speranze, l’«Antologia» non riapparirà né a Firenze né altrove. Ma si darà vita a nuove testate (dall’«Archivio storico italiano» alla «Guida dell’educatore»), si favoriranno le riunioni dei congressi degli scienziati, si combatteranno grandi battaglie quali quelle per la lega economica degli Stati italiani o per il riconoscimento del diritto di autore e della proprietà dell’editore.
    Ho davanti a me quel foglietto emblematico e rivelatore, inserito da Vieusseux nell’ultimo numero della rivista, alla fine del 1832. Un vero e proprio programma politico, graduale e moderato, un autentico atto di fede. Del progresso[1]: un titolo che suona come una sfida. Due sole pagine, il progetto di chi, come Vieusseux e come Capponi, aveva sperato sinceramente nell’avanzamento morale e materiale della società nell’ambito delle istituzioni, perfino sotto la guida del sovrano. Unica possibilità tale da neutralizzare le incognite delle incontrollate rivoluzioni. Noi siamo fautori della diffusione dei lumi – affermano gli amici di Vieusseux – ma non è questo il loro principale scopo. Poiché tale impulso ormai sta nella realtà delle cose, è inarrestabile: si tratta piuttosto di regolare in modo ordinato la crescita delle forze che premono dal basso, comunque inarrestabili. «Questa nuova forza, questo slancio nello spirito umano, sarà, secondo che noi vorremmo o la tempesta dell’Oceano e l’eruzione d’un Vesuvio, o la potente fecondità di una natura ringiovanita da Dio. Il popolo non può più essere sottomesso per istupidità: bisogna che lo sia per convincimento e per amore»[2].
    Un discorso moderato, ma in cui rivive l’eredità dell’illuminismo; comunque il solo in grado di evitare terremoti violenti, di assicurare la sopravvivenza stessa della monarchia regnante.
    «Dividerci in amici e nemici dei lumi, in progressivi e retrogradi, e disputare a parole mentre le cose incalzano, sarebbe follia della quale un giorno potremmo piangere tutti: non è una minaccia, è una lucida intuizione del ’48 e del dopo»[3].
    Abbandoniamo le dispute – è l’estremo appello che si leva da quelle pagine particolari dell’«Antologia» di Capponi e di Vieusseux – sopiamo le passioni, diamoci tutti la mano: poniamoci a dirigere un movimento «che non possiamo e non dobbiamo arrestare o reprimere»[4].
    «Il popolo è avido di sapere? e noi apriamogli la fonte di un’istruzione che lo renda più atto ai suoi lavori, che gli educhi il cuore, mentre gli coltiva la mente; iniziamolo ad una scienza che sia la scienza del bene. Il popolo ci parla de’ suoi diritti? e noi, senza negarli, parliamogli insieme de’ suoi doveri, mostriamogli quanto importi a lui stesso la tranquillità pubblica e la subordinazione. Il popolo chiede il pane e le comodità, ci domanda di sedere con noi al gran banchetto della vita? e noi assistiamolo a procacciarsi questi doni della Provvidenza con quel mezzo ch’ella ha prescritto, cioè col sudore della propria fronte; avvezziamolo a conservare, ad accumulare gli avanzi di questi frutti del suo lavoro, e sforziamolo così, divenendo proprietario a divenir un docile e fedel cittadino»[5].
    Costruire il cittadino di uno Stato moderno, ecco il vero significato del «progresso dell’umanità». Neppure la spinosa questione della proprietà privata è lasciata da parte, e neanche avvolta in un ipocrito silenzio: «Il popolo che è abietto e che non ha, guarda sospettoso chi sta in alto e possiede? E noi più elevati, noi che abbiamo, proviamogli che siamo a lui necessari quanto egli lo è a noi; che gli gioviamo quanto egli ci giova, che lo amiamo quanto egli ci amerà»[6]. Stringerci in un vero vincolo di famiglia fra maggiori e minori fratelli, questo significa finalmente costituire una vera società.
    Non è tutto divisibile in comparti netti, non tutto né tutti possono essere ricondotti in schemi rigidi, contrapposti. Penso ai punti di contatto, per esempio, fra il mondo dei moderati illuminati della fiorentina «Antologia» e il giovane Giuseppe Mazzini: attratto dalla prospettiva nazionale ed europea della rivista, proprio negli anni in cui egli stesso maturava il superamento dei metodi chiusi e catacombali della Carboneria.
    Pochi ricordano che l’attività giornalistica di Mazzini cominciò nel 1827. A dimostrare come negli anni fra il ’27 e il ’31 prima della «Giovine Italia» il confine poi fra democratici e liberali sia difficile a segnare, perché il giovanissimo Mazzini avvocato appena fresco di titolo di laurea in legge nel ’27 si rivolge all’«Antologia» per chiedergli di pubblicare il suo articolo Sull’amor patrio di Dante. È redattore capo Tommaseo, il quale lo trova troppo appassionato e tale che non supererebbe le obiezioni dell’occhiuta censura austriaca e quindi glielo restituisce. Salvo poi – Tommaseo era un personaggio incredibile – nel ’38 quando ormai Mazzini era andato anche oltre quella visione lo pubblica senza dirglielo sul «Subalpino» con grande irritazione di Mazzini. Ma lui non si sconforta di fronte al primo invio non accettato e gli manda poi il famoso saggio D’una letteratura europea in due puntate che sarà firmato «Un italiano». E dove appare chiarissimo nei due scritti, quello edito e quello inedito, la continuità fra l’idea dell’Italia che egli riscopre in Dante e da cui nasce la parola «Risorgimento» come qualcosa che è già esistito e l’idea dell’Europa che egli intuisce attraverso Goethe e gli studi che dedica a Goethe, alla letteratura europea e poi i successivi articoli sul «Dramma storico» che la rivista pubblicherà in due puntate nel 1830, proprio mentre stava nascendo la «Giovine Italia»[7].
    Quando riceve il primo rifiuto da Firenze il profeta dell’unità non ha neppure ventidue anni. È quello il periodo genovese, di grande fervore e di giovanile entusiasmo, caratterizzato dalle dispute sempre più vivaci e appassionate coi Ruffini, con Benza, con Campanella e vari altri amici della stessa generazione. Non si pubblica ancora l’«Indicatore genovese», il settimanale di quattro pagine, stampato dal tipografo Ponthenier, uscirà soltanto il 10 maggio 1828.
    L’incontro coi lettori dell’«Antologia» è solo rimandato. La collaborazione con la rivista di Vieusseux si svolge fra 1828 e 1831, gli anni cruciali del trapasso dall’assetto politico ed economico della restaurazione a quello sancito dalla vittoriosa rivoluzione borghese del 1830. Un trapasso che segna la presa di coscienza da parte dei settori culturalmente e politicamente più avanzati della necessità di sottrarre la cultura italiana, specie la letteratura, «dal chiuso delle conventicole accademiche per coinvolgerla attivamente nell’evoluzione sociale ed etico-politica della nazione».
    Dopo scritti parziali o frammentari, l’articolo D’una letteratura europea costituisce il vero e proprio «manifesto» del romanticismo mazziniano, giudicato dallo stesso autore più tardi, nel 1861, il suo primo, autentico, organico lavoro. Tutte le pagine di quello scritto mazziniano sono dominate dal leit-motiv della letteratura romantica: nello stile della rivista, luogo di discussione, di dibattito, di confronto fra opposte tesi, le opinioni di «classici» e di «romantici» sono egualmente ospitate dal direttore, come avverte la nota a pie’ di pagina redatta dallo stesso Vieusseux. Una nota che sembra voler giustificare la particolare accoglienza riservata al «lavoro di un giovane di singolare ingegno», che «spira nobili sensi, e veramente italiani»[8].
    Per Mazzini il mutare dei tempi, delle passioni, delle situazioni impone l’esigenza di una nuova letteratura, capace di esprimere «la situazione ed i voti del moderno incivilimento»[9]. Caratteri fondamentali di questa nuova letteratura del XIX secolo sono mirabilmente espressi in quelle parole di Goethe, che Mazzini pone non a caso come una bandiera all’inizio dello scritto: «Io intravvedo l’aurora di una letteratura europea: nessuno fra i popoli potrà dirla propria; tutti avranno contribuito a fondarla»[10].
    Ciò non significa, precisa Mazzini, «distruzione d’ogni spirito nazionale», come alcuni paventavano: altra cosa è l’«indipendenza d’una nazione», dal suo «isolamento intellettuale». E non siamo neppure davanti a un’«utopia»: il presagio di Goethe, non è, ribadisce Mazzini, un’illusione. E se pure lo fosse, ammonisce con parole gravi, «è un’illusione sublime», e sono proprio le «illusioni sublimi» che suscitano le energie morali e provocano le grandi imprese sulla terra. «Esiste in Europa una concordia di bisogni e di disiderii – osserva l’Apostolo a conclusione dell’articolata analisi – un comune pensiero, un’anima universale, che avvia le nazioni per sentieri conformi ad una medesima meta. Dunque la letteratura…; dovrà farsi europea!»[11].
    «Un italiano». Quella firma tornerà ancora nell’«Antologia», nel 1830 e nel 1831, in calce a un articolo scritto, Del dramma storico, apparso in due puntate: un testo unitario nel concetto ispiratore, ma composto in due fasi distinte e successive, a Genova prima (1830), nel periodo anteriore all’arresto e al carcere di Savona, a Marsiglia poi (1831), nelle intense settimane di preparazione spirituale, politica, intellettuale che porteranno alla lettera a Carlo Alberto.
    «Il pensiero – osserva Mazzini nella prima puntata del saggio sul Dramma storico – la legge morale dell’universo è progresso: qualunque generazione che sottentra, la calpesta, come il viandante la polvere»[12]. Appare ancora una volta ferma, in lui, la difesa del romanticismo in una visione europea. «Il diametro della nuova sfera drammatica tocchi il passato con una delle sue estremità, l’avvenire con l’altra – sono le parole conclusive della seconda parte -: a questi segni la ‘Giovine Europa’ riconoscerà il suo poeta: il poeta al quale i romantici hanno sgombrata e preparata la via»[13].
    La «Giovine Europa». Siamo davvero al di là del principio meramente letterario. Come organismo associativo, la «Giovine Europa» - di cui Mazzini sarà ispiratore e «poeta» - prenderà concreta forma il 15 aprile 1834. Ma già nel luglio 1831, appena tre mesi prima dell’apparizione della parte seconda del saggio sull’«Antologia», è nata la «Giovine Italia», l’associazione patriottica nazionale che liquida, con un programma pubblico, aperto a tutti, il settarismo circondato di mistero della Carboneria.
    «Sarà continuato». Con questo scarno comunicato, affiancato alla firma «Un italiano», Vieusseux annunciava ai lettori la continuazione del dibattito, del contributo di Giuseppe Mazzini. Un impegno destinato a rimanere negli indici e nei sommari della rivista, senza seguito: ma si trattava soprattutto, di un impegno morale, di una continuazione del progresso delle idee che nessuna censura poteva arrestare. Una continuità spirituale che sarebbe idealmente proseguita anche attraverso l’apostolato educativo che quel «giovine d’ingegno», Giuseppe Mazzini, stava ormai portando avanti nella battaglia civile, da cui sarebbe nata l’Italia contemporanea.
    Ecco, amici, quindi arriverò alle conclusioni del mio scritto dopo avere sottolineato questo valore che una rivista come l’«Antologia» certamente più liberale che democratica, per i tempi, per la mentalità, per il ceto che rappresentava, per gli scritti che pubblicava, per le idee cui si riannodava, sia stata però la palestra di Mazzini e quindi punto di osservazione importante per cogliere quanto ci sia sempre di liberale in una democrazia e quanto ci sia di democratico nel pensiero liberale.

    (...)


    [1] Il testo integrale, apparso in «Antologia», vol. XLVIII, inserto manoscritto non numerato, è riportato in G. SPADOLINI, Fra Vieusseux e Ricasoli. Dalla vecchia alla «Nuova Antologia», Le Monnier, Firenze, 1983, pp. 77-78.

    [2] Ibidem, p. 78.

    [3] Ibidem, p. 77.

    [4] Ibidem, p. 78.

    [5] Ibidem.

    [6] Ibidem.

    [7] Per l’intero rapporto di collaborazione fra Mazzini e Vieusseux si veda il citato Fra Vieusseux e Ricasoli, pp. 79 sgg. Il saggio D’una letteratura europea apparve nell’«Antologia» del novembre/dicembre 1829, pp. 91-120 (ed è integralmente ristampato, fra l’altro, in G. SPADOLINI, L’idea d’Europa fra illuminismo e romanticismo. La stagione dell’Antologia di Vieusseux, Le Monnier, Firenze 1985, pp. 138-167). Del dramma storico, sempre a firma di «Un italiano» apparve in due puntate nella rivista di Vieusseux: art. I, 1830, tomo XXXIX, n. 115, luglio, pp. 37-53 e art. II, 1831, tomo XLIV, n. 130, ottobre, pp. 26-55.

    [8] G. SPADOLINI, L’idea d’Europa, cit., p. 138.

    [9] Ibidem, p. 139.

    [10] Ibidem, p. 138.

    [11] Ibidem, p. 162.

    [12] UN ITALIANO, Del dramma storico, cit., luglio 1830, p. 37.

    [13] Ibidem, ottobre 1831, p. 55.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Mazzini, socialismo e Risorgimento (1993)

    3. Liberalismo, democrazia e Risorgimento

    La democrazia religiosa da un lato; il liberalismo moderato dall’altro. Nutrita da una fede possente nel futuro dell’uomo la prima; animata e nutrita dalle tradizioni storiche di un popolo, l’altro. «Il moderatismo del Balbo, del D’Azeglio, del primo Gioberti e degli altri affini, ebbe, accanto all’ispirazione politica, una radice culturale. Esso fu strettamente legato al rifiorire degli studi storici, più precisamente di storia italiana»[1]. Così, in un giudizio come sempre sicuro e definitivo, Luigi Salvatorelli nelle pagine, per noi indimenticabili, del Pensiero e azione del Risorgimento.
    Il filone liberale moderato si sviluppò in Italia fra il 1833 e il 1846 sulla scia aperta dall’«Antologia» di Vieusseux e sempre con riferimento a quel gruppo che insieme col «Conciliatore» di Milano aveva rotto il sonno della Restaurazione e stabilito la prima connessione fra Italia ed Europa, fra l’Italia dei saggi e l’Europa dei saggi.
    Il liberalismo, che si diparte dall’«Antologia», è quello empirico, pragmatico, gradualista, di respiro «europeo» che alimenterà i congressi degli scienziati, che incrementerà le deputazioni di storia patria, che si rifletterà in tutta la catena delle pubblicazioni di Vieusseux al di là della stessa cessata «Antologia»; pensate alla «Guida all’educatore», al «Giornale agrario toscano», e a tutte le volte che tenterà di rifare l’«Antologia» che chiamerà nel ’48 La Fenice. Vieusseux non riuscirà a vedere, per pochi anni, la nascita nel ’66 della rivista che si ricollegherà intimamente all’«Antologia» con la sola aggiunta dell’aggettivo «Nuova»: «Nuova Antologia» che rinasceva a Firenze capitale, che rinasceva con la funzione essenziale che fu proprio di Firenze, che non voleva la capitale e che come voi sapete la detestava, che la chiamava «tazza di veleno» per bocca di Ricasoli. Ma la sua funzione essenziale fu quella che svolse a Firenze nel campo della lingua, dell’unificazione fra lingua scritta e la lingua parlata, nell’avvio al superamento della barriera esistente fra i dialetti italiani e la lingua delle classi colte, la lingua scritta, la lingua della Crusca, alla quale già era ricorso Manzoni, ma che non doveva restare la lingua della Crusca, e attraverso un processo storico complessissimo trasformarsi nella lingua italiana, nella lingua popolare italiana.
    Un liberalismo che non si mette alcun elmo di Scipio e non guarda assolutamente alle glorie del mondo latino, o ai cicli fatali di Roma. Un liberalismo che piuttosto si nutre alla storia della gente italiana nel Medioevo e riscopre filoni eguali e complessi per cui si deve parlare di una comunità di lingua e di cultura italiana, fino dai tempi di Dante e di San Francesco, preesistente lo Stato e destinata a tradursi in Stato con grandi e paralizzanti lentezze.
    «Il Risorgimento non poteva non essere poderosamente alimentato dal racconto delle grandezze passate d’Italia, mentre l’analisi della sua decadenza additava le difficoltà della resurrezione e i mezzi per superarle»[2]. È ancora Salvatorelli che scrive. E breve sarà il trapasso dal liberalismo dei Balbo e dei D’Azeglio a quello giobertiano e neoguelfo, proiettato su un’ipotesi tanto irreale quanto orgogliosamente sentita.
    Certo per tutto il quindicennio che parte dal 1830 il liberalismo e la democrazia sono termini distinti e in parte anche divergenti. È innegabile che l’uno e l’altro poggiano parimenti sulla rivendicazione della partecipazione del popolo alla elaborazione delle leggi e al controllo della gestione delle pubbliche finanze e si debbono estrinsecare attraverso le libere elezioni e attuare negli istituti rappresentativi, sia pure su base ristretta e censitaria quale era la regola dell’Europa di allora, cui guardano tutti i moderati.
    Ma è altrettanto vero che il liberalismo ha le sue radici nel Settecento individualistico e illuministico, rivendicante la superiorità della ragione e della natura, e si è poi maturato e purificato nel fuoco della filosofia idealistica, e tende a affermare valori di minoranza, di varietà, di molteplicità (il liberalismo «senso critico e senso delle cose complesse e complicate», come l’ha definito Croce) e trae origine da un’esigenza politica negativa, la sicurezza per l’individuo di non essere molestato e paralizzato nel dispiegamento delle sue attività spirituali ed economiche dalle forze abusive e irresponsabili, rappresentate dallo Stato assoluto (onde il contemporaneo sorgere del liberalismo politico e del liberalismo economico).
    La democrazia, invece, sorge piuttosto dall’esperienza della rivoluzione francese, preceduta e preparata dal Rousseau con la sua teoria contrattualistica, e si afferma nell’epoca dell’industrialismo e si elabora nell’ambito della filosofia positivistica e tende a realizzare un’esigenza politica positiva, il diritto cioè naturale e inalienabile del «popolo sovrano» a esercitare direttamente o indirettamente – secondo che attraverso referendum e plebisciti o attraverso Parlamenti delegatari della potestà insita nel popolo – il potere di direzione dello Stato.
    Si può perciò parlare di due specie di democrazia, accettando per entrambe la parola nella sua accezione più alta. Prima è la «democrazia liberale», rappresentante delle aspirazioni delle minoranze più colte e operose del ceto medio e collegata quasi sempre a istituti monarchici e con particolare diffusione nella prima metà dell’Ottocento (quando infatti ad essa sono improntate la monarchia inglese e quella francese dopo il 1830).
    Seconda è la «democrazia radicale», rappresentante, attraverso gli elementi più romantici e rivoluzionari della borghesia, delle inquietudini e dei fermenti sociali dei primi nuclei popolari e intrecciata spesso con le lotte di nazionalità (Mazzini, Kossuth) e con gli ideali repubblicani (Ledru-Rollin) e coi primi lieviti socialistici (cartismo, seconda Repubblica francese e rivolta del giugno ’48 a Parigi, Pisacane, l’unica esperienza di tipo socialista nel solco del mazzinianesimo) e mirante a una realizzazione integrale della democrazia o in senso mistico e associazionistico (Mazzini, Saint-Simon) o in senso razionalistico e utilitaristico (radicalismo inglese, francese, e quello italiano di Cattaneo e in parte del Ferrari). Essa sarà destinata a rimanere quasi sempre all’opposizione durante il secolo XIX e a raggiungere qualche volta il potere o rimaneggiata e ristrutturata (come la Sinistra italiana nel 1876) o addirittura nel secolo successivo (in Francia nel 1903, in Spagna nel 1931).
    Nell’Italia del Risorgimento, mentre la seconda tendenza è rappresentata dal mazzinianesimo e dal radicalismo repubblicano-federalistico, la prima tendenza risponde in pieno al liberalismo moderato. Secondo il doppio filone del costituzionalismo o garantismo caratteristico del Romagnosi e del liberalismo cosiddetto «manchesteriano» proprio del Cavour, in cui alla tutela delle fondamentali libertà civili e politiche, attuata attraverso gli organi rappresentativi, equamente contemperati con il potere del governo, si associa l’esigenza della massima libertà nell’industria e negli scambi e del massimo incremento dell’iniziativa e dell’ardimento individuali in ogni settore della vita e già si lega l’idea della dialettica e dell’alternanza delle forze politiche organizzate nell’ambito parlamentare e da cui si sviluppa poi il principio della separazione religiosa, «libera Chiesa in libero Stato».
    Il liberalismo moderato non andò oltre l’indipendenza. Il mazzinianesimo fissò la meta dell’unità e la consacrò nei mesi di Roma assediata, fra febbraio e giugno ’49, questi mesi che costituiscono la vera base di legittimità della nazione italiana. Di quella nata nel 1861 e rinata nel 1946, con la Costituente repubblicana, vaticinata da Mazzini.
    E giacché siamo giunti alla conclusione delle mie osservazioni consentitemi di ricordare l’Italia del 1948. Quella che affrontò il centenario della rivoluzione del 1848 all’indomani del nuovo patto nazionale firmato a Palazzo Giustiniani, proprio dove io ho l’onore di risiedere, il 27 dicembre 1947.
    La Costituzione della Repubblica, De Nicola che aveva scelto Palazzo Giustiniani per non sfidare i grandi saloni del Quirinale e forse anche per rispetto della tradizione monarchica nel considerare la Repubblica base di estrema sobrietà e povertà.
    E quindi aveva scelto il palazzo del presidente del Senato, un istituto che era stato sospeso col 25 luglio, un istituto che rinascerà su basi completamente diverse dall’unità nazionale, attraverso un Senato elettivo, quasi integralmente elettivo e su basi di assoluta parità politica con la Camera. E aveva scelto questo edificio nel quale sessanta persone risiedevano dormendo cinque-sei in ogni stanza e nel periodo in cui neanche esisteva più una lista civile, per cui egli per alcuni mesi non aveva una lira dal governo. Poi il governo, il governo De Gasperi, trovò il modo di mandare una certa somma per le spese del capo dello Stato, ma egli preferì sempre quando andava a Napoli usare la macchina del nipote, oppure quando scriveva le lettere usare i francobolli che comprava. E quindi in quei due anni scarsi in cui durò la presidenza provvisoria fu data alla Repubblica una grande direttiva, l’integrità morale, la sobrietà, l’austerità.
    Scusate se lo dico, perché come abitante ormai da sei anni di quell’edificio e me tocca sempre ogni sera o quasi di riflettere su questa distanza fra l’Italia della Costituente che io ho visto ragazzo, appena laureato, e l’Italia di oggi.
    Fra gli uomini di allora, di cui io ricordo tutte le dimore, quella di De Gasperi in via Bonifacio VIII, la dimora in cui era stato come direttore della Biblioteca vaticana quando prendeva novecento lire al mese che erano poche anche allora, la metà di un professore di scuola media. E ricordo la casa di Bonomi in piazza della Libertà; e ricordo la casa di Ruini, un altro galantuomo assoluto, che fu pure mio predecessore alla presidenza del Senato. E ricordo come quella classe politica fosse non solo povera perché in larga parte impegnata nell’esilio e quindi uomini che avevano tutto perduto in Italia; ma poveri anche perché stabilivano una specie di vincolo di assoluta separazione fra la politica, i beni dello Stato e tutto ciò che serviva alla sfera personale.
    Da allora, terminata la Costituente venne la celebrazione del ’48 che fu tenuta in Parlamento in un certo modo su un tono basso, perché c’era l’usurpazione in atto di Garibaldi controparte della sinistra e c’era la rivendicazione dei valori risorgimentali da parte del vecchio partito repubblicano.
    Ecco furono anni quelli difficili, ma memorabili. La visione del Risorgimento è stato uno strumento fondamentale per i costituenti. Alla Costituente c’erano uomini come Bonomi, come Ruini, come Sforza, come Einaudi. Uomini tutti che erano figli di quella civiltà e di quel mondo.
    Il mio augurio è che quei valori che furono consegnati nel patto costituzionale possano riaffiorare nella memoria delle generazioni e costituire un punto di riferimento soprattutto per i più giovani. Non c’è dubbio che esistono articoli della Costituzione che debbono essere aggiornati, gli istituti debbono essere rivisti, ma lasciatemi dire che sarebbe un grave errore se noi interpretassimo l’aggiornamento della Costituzione come un suo rovesciamento. E come sia pericoloso il parlare sempre di seconda o terza repubblica ripetendo il ritornello francese che ubbidisce a una storia di nevrosi permanente così diversa dalla nostra. Senza contare che quando si parla di seconda repubblica si dimentica anche cosa è stata in Francia la seconda repubblica e come essa è stata breve nella libertà e lunga nel principato e nel cesarismo. E come una certa prudenza, quella che Croce consigliava sempre rispetto alla dittatura ripetitiva della storia, ci dovrebbe spingere a non avventurarsi troppo in questa via di uniformismo incondizionato e restare ancorati a quei valori in cui l’Italia si è fatta prima e rifatta poi.
    E io continuo a pensare che al di fuori di quei valori non c’è avvenire per l’Italia

    Giovanni Spadolini


    [1] L. SALVATORELLI, Pensiero e azione del Risorgimento, Torino, 1957, p. 103.

    [2] Ibidem, p. 104.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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